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Il treno fantasma di Charles de Meaux

Train fantôme   di Ornella Tajani

Si intitola Le train fantôme la nuova installazione del videoartista Charles de Meaux, in mostra al Centre Pompidou di Parigi ancora per pochi giorni. Dall’esterno somiglia a uno dei tubi simbolo dell’architettura del museo: rivestito di tessuto bianco, il tunnel presenta all’interno una serie di schermi paralleli che lo percorrono interamente, come i finestrini di un treno, proiettando immagini di città e paesaggi, colti in tutte le fasi del giorno, alternate a brevi flash di film cult. Sailor e Lula in auto, l’esplosione della villa nel finale di Zabriskie Point, Burt Lancaster su un trampolino in Un uomo a nudo, tratto dal bellissimo racconto Il nuotatore di John Cheever; e ancora Stromboli, Taxi driver, Il terzo uomo, Il bandito delle ore undici. Memore della prima installazione mai esposta al Beaubourg – Crocodrome di Tinguely, de Saint-Phalle e Luginbühl -, de Meaux ha voluto ricreare un percorso in cui l’immediatezza dell’immagine si impone sulla complessità del mondo e diventa medium di una memoria collettiva e condivisa. Ciò che lo spettatore guarda gli è già noto, ma nella sequenza delle scene proiettate e nella successione di schermi che catturano l’occhio uno dopo l’altro, senza mai permettergli di soffermarsi davvero, sta il potere di suscitare il ricordo, uno dei temi cui è dedicata questa edizione del Nouveau Festival nell’ambito del quale l’opera è esposta.

«Siamo rimasti con questo gioco di significanti puro e aleatorio che chiamiamo postmodernismo, il quale non produce più opere monumentali sul genere di quelle del modernismo, ma rimescola ininterrottamente i frammenti di testi preesistenti, i mattoncini della vecchia produzione socioculturale, nel quadro di un nuovo e intensificato bricolage. Metalibri che cannibalizzano altri libri, metatesti che raccolgono pezzi di altri testi: questa è la logica del postmodernismo in generale, che trova una delle sue forme più vigorose, originali e autentiche nella nuova arte del video sperimentale», scriveva Fredric Jameson nel volume ormai di riferimento del 1991, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo. L’esempio da lui citato era l’artista Nam June Paik, con le sue opere composte di molteplici schermi, il cui obiettivo era proprio quello di evitare che lo spettatore si concentrasse su uno soltanto, in modo da trascinarlo nella “varietà discontinua” che è la realtà frammentata e schizofrenica del postmoderno.

Le train fantôme rientra perfettamente in questa linea. Sul sottofondo di una serie di rumori meccanici – in realtà cigolii di vecchi robot che seguono la partitura delle Variazioni Goldberg di Bach e che, nella loro ripetitività, restituiscono il senso di un movimento ininterrotto -, le immagini si susseguono in modo tale che la proiezione sullo schermo più vicino allo spettatore sia sempre in ritardo di qualche secondo rispetto alla successiva: proprio come a bordo di un treno, se lanciamo lo sguardo qualche metro più avanti vediamo quello che scorrerà nel finestrino accanto a noi solo pochi attimi dopo. Ma possiamo anche permetterci di guardare il prima e il dopo contemporaneamente, o quasi – o magari percorrere il corridoio del treno al contrario; se a ciò aggiungiamo che la proiezione riprende ciclicamente e senza interruzione, abbiamo un’idea della sincronicità e della rottura della temporalità di cui parlava Jameson, di quell’eterno presente che è unità di tempo di un’epoca in cui il rapporto dell’individuo con la storia si indebolisce e relativizza.

L’opera di de Meaux è un pastiche video che fa appello a un immaginario collettivo, nei luoghi anche anonimi che chiunque può “riconoscere” e collegare a un proprio frammento di esperienza, così come nei flash cinematografici che, in maniera quasi subliminale e fantasmatica, affiorano e saldano tra loro reminiscenze individuali, in un richiamo alla memoria riprodotto senza soluzione di continuità. Proprio la riproduzione e i suoi strumenti erano per Jameson il soggetto più profondo di tutta la videoarte; più poeticamente, però, è Robert Filliou, esponente del movimento Fluxus, che de Meaux preferisce citare in conclusione alle sue interviste: «l’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte».

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.