Una testimonianza
di Carlo Carlucci
Avevo letto i libri di Davide Lajolo su Beppe Fenoglio. Quelli finalmente positivi sugli scritti del letterato di Alba ed erano scritti bene, stimolanti, pieni di rispetto. Inquadrandolo finalmente nel suo ruolo di partigiano e di scrittore autentico dalla prosa secca,scarna, creatore di personaggi e di atmosfere di quel periodo sulle Langhe indimenticabile.
Ero andato ad Alba con l’amico Vincenzo, un mio collega di scuola, ed avevamo girato a caso. Avevamo trovato la piazza con la macelleria di suo padre, e poco altro. Poi passammo davanti alla sede del partito comunista ed entrai a chiedere informazioni. Un militante trentenne simpatico si offrì di accompagnarci nei luoghi segnati dalla presenza dello scrittore. Il campo del gioco dove anche lui scommetteva, altri posti,ma poi gli feci la domanda che mi stava in gola: vedere la sua casa e conoscere la madre che allora era ancora in vita. Eravamo nel 1976 o nel 1977. Non ricordo la data precisa.
Entrammo finalmente nella casa e il militante ci tenne ad avvertirci che la madre parlava uno stretto dialetto albese, per noi quasi incomprensibile. La signora Fenoglio, quando capì che volevamo rendere omaggio a suo figlio, diventò gentilissima sapendo che venivamo apposta da Milano per conoscere la casa dello scrittore e lei.
Prima di ascoltare lei io rubavo le atmosfere di quella casa dove “il partigiano Johnny era vissuto, aveva concepito i suoi romanzi e mi guardavo in giro un po’ distratto.
“Lui scriveva sempre”, disse subito lei, in ogni angolo e su ogni tavolo di sala e cucina. E qualche volta io e suo padre lo abbiamo rimproverato perché lavorava poco in macelleria (non aveva ancora un impiego fisso) e qualche volta facevamo fatica a tirare a campare.”
Era una donna forte, dal viso severo e segnato dagli anni, ma molto sicura di sé e dura nelle difesa della memoria del figlio scrittore. “A Torino hanno dedicato una via a Cesare Pavese ma a lui no. A Mosca però una via lo ricorda.”, confermò lei molto orgogliosa.
A un certo punto parlò anche della moglie di Beppe, la nuora. Lui stava già male e lei una volta era uscita dopo aver aver ricevuto un mazzo di fiori, l’ho vista io.
La conversazione durò circa un’ora. Lei confermava che il figlio fumava e tossiva molto. Ma non si aspettava una fine cosi rapida in un uomo così giovane. Alla fine il giovane del Pci ci accompagnò anche alla tomba di Fenoglio, e lì ci siamo commossi tutti. .
Paolo Lezziero
La scarna, essenziale testimonianza rilasciatami dal carissimo e laconico amico Paolo apre, a distanza di quarant’anni, uno sguardo su un mondo che non c’è più. Non ci sono più i comunisti. Quel gentile cordiale ‘militante’ del Partito ci tenne a precisare a Lezziero che comunque tra i compagni che erano stati partigiani, Fenoglio non se la diceva molto. E, nell’Italia di allora, dove buona parte degli intellettuali erano più o meno allineati, l’attacco sarcastico de I 23 giorni della città di Alba suonò come un’offesa alla Resistenza. Peggio ancora doveva aver suonato ad Alba. Il punto però è un altro. Lezziero che riporta di questa visita alla madre di Fenoglio mi conferma che durante il colloquio ebbe quasi sempre bisogno dell’assistenza del giovane di Alba come vero e proprio traduttore altrimenti avrebbe capito ben poco. Dunque in casa, alla macelleria, si parlava esclusivamente questo dialetto strettisimo, vera e propria e tempestante lingua materna che avvolgeva lo scrittore che ‘scriveva sempre’ come disse la madre. L’apprendimento dell’italiano era avvenuto sui banchi di scuola e molto con le divoranti letture cui si affiancò a un certo punto l’inglese della straordinaria Maria Lucia Marchiaro. A dirla tutta sul giovane Fenoglio furono determinanti anche il prof. Leonardo Cocito di italiano, e il prof. Pietro Chiodi. Un trio di insegnanti straordinariamente dotati per un alunno decisamemente fuori del comune.
Il ricorso a quel potente soggiacente che era il dialetto albese, vera e propria lingua materna e originaria (non va dimenticato il legame profondo che c’era con la madre) non era quindi un mero artificio ‘afrodisiaco’ come lo presentava Vittorini, ovvero non era un ricorso a una matrice (dialettale) al fine di ottenere particolari effetti espressivi. Nella cucina dove regnava la madre, era sovrana la parlata dialettale come l’acqua in un acquario. E Fenoglio sempre intento a scrivere (sotto gli occhi della madre povera di cultura ma intelligente e lucida come il figlio), con la perenne sigaretta accesa, si trovava a ‘trans-ducere’, a tradurre quel potente soggiacente materno nell’italiano come seconda lingua, un particolarissimo italiano che ha fatto di lui oramai una vera e propria icona letteraria. E naturalmente, vedi Il Partigiano Johnny, laddove ai fini espressivi l’italiano poteva sembrargli povero o raggrinzito ecco giungere in soccorso il vocabolo se non la frase inglese. Di ciò e di quant’altro me ne sono occupato doviziosamente ne L’inglese di Beppe Fenoglio e in vari altri saggi minori più di quaranta anni fa. Le critiche che mi vennero dal clan della Corti (che sosteneva tra l’altro come le vicende del Partigiano fossero una stesura a caldo immediatamente a ridosso degli avvenimenti) sempliemente mi distolsero dall’occuparmi ulteriormente dello scrittore di Alba.