Quella vita dove sono io, cioè La Casa in Via Palestro di Franco Buffoni

di Marco Corsi
Cas Pal Joaquim Ringelnatz
Una dislocazione autobiografica della realtà: forse coniando qualche nuova formula risulta più accessibile questo ultimo lavoro in prosa di Franco Buffoni. Una dislocazione, agli effetti, che passa attraverso fatti, personaggi, eventi, documenti, e compone in filigrana il Bildungsroman dell’uomo e del poeta, rendicontando il tempo della storia e il tempo della scrittura. Certamente a questo romanzo, o sarebbe forse meglio dire cahier des mémoires vere o fittizie, manca la componente strutturale intesa come fabula organica a vantaggio di quella digressivo-iconica propria invece, ad esempio, dei romanzi epistolari, dove il soggetto trasceglie i modi della narrazione e cela o rivela dettagli. Ogni singolo segmento de La casa di via Palestro si autodetermina per germinazione, senza tuttavia venir meno al compito di officiare i riti di iniziazione (o, diremmo noi, adesso, della consapevolezza) che abbraccia la terza persona biografante incarnata ora dagli ambienti ora dai ricordi materni, fino a tracciare i confini di una soggettività già formata eppure in fieri, come se il personaggio-protagonista non fosse che uno dei personaggi tra i personaggi. Benché infatti non si possa decidere come e in che misura l’io agisce nel testo (anche le svolte o le descrizioni più oggettivanti nascondono la loro dote di artificialità, per uno stretto e promiscuo connubio tra vita e rappresentazione), è vero che il testo modella in maniera polifonica o addirittura riconfigura certi motivi cari ed emblematici della poesia di Buffoni, accostandoli all’intensità dell’esperienza e della quotidianità propria della prosa, con i suoi toni perentoriamente colloquiali. Prendiamo ad esempio un passaggio fondamentale da Caro padre: «Tu, per onore, avresti preferito strangolarmi con le tue mani piuttosto di accettare l’idea che io – tuo figlio – fossi omosessuale. Il tuo onore non poteva accettarlo. Lo sapevi che in un campo non lontano dal tuo, a Deblin, c’erano quelli come me, da sterminare metodicamente, con il loro triangolo rosa cucito sul petto?». Il tono tragico viene evidentemente amplificato mediante la commistione fra la specificità del singolo caratterizzato dalla sua natura “culturalmente” esibita e la disumanità delle leggi razziali, come già avveniva in Tecniche di indagine criminale, dentro Il profilo del Rosa, ma questa volta in maniera totale e con un pieno investimento dell’io. Allo stesso modo, si squaderna anche La casa riaperta, quel particolare luogo dell’anima dove già Buffoni si era addentrato a partire dalla plaquette pubblicata nel ’94, e che ora viene disegnata con delle forme che forse i decenni hanno attutito, conferendo alle pietre la stessa tenerezza delle «dalie». A tratti, invece, viene cucito al pathos lo spazio dell’ironia, come nel caso dell’agone fortuito con la figura di Gennaro Gattuso. Gli atleti: ecco un’altra componente essenziale di questo libro. Non gli atleti figli del mito che pure hanno animato alcuni esempi certo non trascurabili della poesia dei nostri anni: gli atleti di Buffoni, assolutamente umani, tramano una socio-biologia comportamentale la cui enfasi si riscontra nell’accento pure latente di una passione omoerotica. In questo sta il loro vitalismo e il senso estremo della loro carne: in una sorta di disciplina delle passioni, il cui prodotto non sta nella sublimazione, quanto piuttosto nella norma della dissimulazione, in un malcelato – a volte – palpitante conformismo. Si legga, ad esempio, questo ritratto di ritratto che campeggia tra i ricordi dell’Accademia Pugilistica Gallaratese e che si materializza nella posa repulsiva e inequivocabile di Franco Garzonio, il fondatore dell’Accademia stessa (con sede, è bene ricordarlo, in via Palestro), colto nella ritrosia del pollice destro e fissato per questo nel rimosso – per il lettore-voyeur – delle sue meno evidenti inclinazioni: «Nella foto che lo ritrae con il primo gruppo di quindici pugili di varie categorie disposti su tre ordini di file – tre pesi piuma accosciati, sei di categoria intermedia seduti, sei mediomassimi e massimi in piedi: tutti rigorosamente a torso nudo e in calzoncini da boxeur – Garzonio appare al centro tra i sei pugili in piedi, rigido, elegantissimo e ben pettinato, in camicia bianca con cravatta scozzese, gilet beige con risvolto scuro, il braccio destro attorno al collo del villoso peso massimo Nino Ferigato. Ma la disinvoltura è finta: il pollice della sua mano destra resta sollevato rispetto alle quattro dita aderenti alla pelle del campione». Questo valga soprattutto come monito a leggere in una prospettiva certamente più dinamica e mossa tutto quanto avviene in questo libro, anche laddove manifesti un carattere dichiaratamente epanalettico. Se l’epanalessi, infatti, riprende con le stesse parole i movimenti di versi già sigillati nei libri precedenti, ancora possiamo ricordare un distico oscenamente memorabile e concretamente molesto come «Ho pensato poi alla mano nella grata/ Alla prima foto di fist-fucking» tratto da Suora carmelitana e altri racconti in versi e qui ripreso senza varianti al centro della piccola epopea “sentimentale” della zia reclusa. Tanti tuttavia sono i cammei e altrettante dovrebbero essere le annotazioni su ciascuno di essi, a partire dalla breve vicenda, breve, tutto sommato qui, della Clara Pirani Cardosi (uso il “della” perché Buffoni in fondo ci invita ad una certa familiarità con i suoi “familiari”) destinata al più alto supplizio della camera a gas. Ma c’è anche posto per una nota intelligentemente pop che riconduce il ruolo del professor Bertè a quello di padre mancato di Mimì e Loredana (qualcuno, a proposito, ha letto il libro di Aldo Nove dedicato all’ultima notte di Mia Martini?). Ciò che in maniera più evidente caratterizza La casa di via Palestro è un incedere disinvolto e quasi ferocemente implacabile, specie quando si fa più evidente la lucidità di pensiero, figlia non tanto di una inossidabile ragionevolezza delle immagini o mera capostipite di una teoria di significazioni, ma erede in tutto della passione petrarchesca (il riferimento, ovviamente, è al Secretum) che aveva già contraddistinto Zamel. Troviamo ancora un io diviso, dunque, come in quel penultimo romanzo, ma un Buffoni più composito e, forse, più “composto”.

7 COMMENTS

  1. Ho letto un estratto sul Sole e mi è parso un bellissimo romanzo! Lo leggerò per intero!

  2. L’incanto della poesia di Franco Buffoni nasce della sua sincerità.

    Il suo impegno viene della ricerca giusta della parola.
    Il tratto visibile.

    La presenza dell’autobiografia:
    una casa ritrovata.
    Si legge la poesia di Franco Buffoni come un cammino di vita.

    Alta esigenza.

  3. Sì, caro Buffoni
    l’articolo sul Sole l’ho letto (non mi perdo un domenicale) e l’estratto è magnifico, corro in libreria, non vedo l’ora di leggerlo per intero! Complimenti vivissimi, sua affezionata lettrice
    Mariateresa

  4. Grazie Franco,

    Leggerò. Con passione.

    Nella mia casa mi accompagna la raccolta di poesie 1975 – 2012.
    E’ un libro molto importante.

    Anche “Di quando la morte va”.

    Quando un’opera cresce, si legge la traccia della vità in un piccolo dettaglio, in un frammento di luce:
    un ritorno e una partenza.

    La persistenza della vita o del desiderio nella parola poetica.

  5. mancato ieri all’incontro presso la fondazione premio napoli, raggiungerò franco buffoni oggi pomeriggio, nello spazio gestito da claudio finelli in un caffè letterario del centro elegante della città, al primo piano di un albergo raccolto e propizio alla conversazione e all’ascolto. scrittura tutta dovuta agli altri e dunque compiutamente civile, quella di buffoni. per cassazione dell’io maledetto. cassazione sacrificale, discorso dolce e terribile, blasfemia cristologica. agnello di zurbaran e pistola fumante.

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