Ich bin ein Berlinguer – vɛltr.onˌʃaʊ.ʊŋ

alinari6 Nota sul film “Quando c’era Berlinguer” di W Veltroni

di Francesco Forlani

Two, three, four, eins, zwei, drei
Es is nichts dabei
Wenn ich euch erzaehle die Geschichte

Due, tre, quattro, uno, due, tre.
Non succede niente se ti racconto la storia,
niente di particolare.

Der Kommissar – Falco

Venerdì 4 aprile sono andato al cinema, al Massimo di Torino, per vedere l’opera che W Veltroni ha dedicato alla figura di Berlinguer nel trentennale della sua scomparsa.

Mi aspettavo e in un certo qual senso speravo di vedere i compagni. Non gli intellettuali, del resto presenti simbolicamente al banchetto che era fuori, per la raccolta firme l’altra Europa con Tsipras, il partito dei pochi eletti, ma i compagni operai che mi è già capitato di incontrare in occasioni simili e che, come ogni volta che vedo La Cosa , mi emozionano; mi commuove, la cosa, perché all’astrattezza dell’ideologia della giustizia sociale, del per cosa lottare, si manifesta in modo tangibile quel per chi.
Di compagni ce n’erano pochi, spettatori tanti, però, e quando nel dibattito finale, in presenza del regista, alcuni di loro hanno preso la parola, sembrava di essere a una seduta di comunisti anonimi. “Quando c’era Berlinguer” si traduce quasi immediatamente in “quando c’erano i comunisti” che nemmeno troppo velatamente si declina in un “Quando eravamo comunisti” e mai, nemmeno in una citazione di sfuggita, negata, subliminale, in perché.
Il successo del film di W Veltroni non è inspiegabile e non meraviglia nemmeno più di tanto che a scatenare un certo entusiasmo sia il nulla.Il Radical Kitsch amministra con mani esperte di pusher la dose minima di memoria storica permettendo all’oblio, al grande Oblio di fare passi da gigante nel General Intellect ormai degradato a caporale e di disertare ogni tipo di conflitto che rischi di non mettere d’accordo tutti.

Prima di capire meglio, però, che cosa accade con questo tipo di narrazione in linea con il nuovo Istituto Luce della Repubblica di Salòt di cui abbiamo raccontato qui e , vi propongo un piccolo test rivolto a quanti lo abbiano già visto il film di W Veltroni. Cherchez l’erreur.

Qui la puntata de “la Storia siamo noi” dedicata a Berlinguer
https://www.youtube.com/watch?v=t1gpHcQYQX8
e qui il trailer, per dare un’idea a quanti non lo abbiano ancora visto, del docufilm di W Veltroni.

A parte le interviste in apertura ai giovani ignari di Berlinguer, veloci, contemporanee, girate infatti dai ragazzi di una scuola di cinematografìa, il footage , ovvero recupero e rimontaggio di filmati precedenti, seppure asservito ad una forma di racconto diaristico e personale, sembra ottenere come risultato finale, ma nemmeno fino in fondo, quanto Léger asseriva in questi casi : « [E]mployer des chutes de film quelconque — sans choisir — au hasard.» Caso anagramma di cosa; ma cosa succede quando abbandonata la memoria W Veltroni imbraccia la camera? Il vuoto.
Non solo nella fase di montaggio quando si massacrano con didascalici e fastidiosi ronzii di sottofondo episodi che nella versione integrale, reperibili in rete, basterebbero a dare un senso a tutto, su tutti l’ultimo comizio di Berlinguer, ma anche in quella di creazione, di ripresa, quando come spiegherà il regista alla fine del film, non c’è anima viva nei luoghi chiave della vita del leader comunista; e la scena filmata dall’alto e dal basso, della piazza vuota con degli A3 svolazzanti sull’erba a centinaia delle prime pagine dell’Unità è da brividi.(da grande freddo)
Cut-up, fotocopie, remake fonici, esattamente quanto accade nel rapporto tra l’opera d’arte, la vita di Berlinguer oserei dire, e il kitsch, la visione del regista. In questo senso, come annunciato dal titolo parlerei di vɛltr.onˌʃaʊ.ʊŋ ovvero Weltanschauung veltroniana. E lo farei con chi più di chiunque altro aveva raccolto nel linguaggio cinematografico la grande lezione dadaista: Guy Debord.
« Le spectacle ne peut être compris comme l’abus d’un monde de la vision, le produit des techniques de diffusion massive des images. Il est bien plutôt une Weltanschauung devenue effective, matériellement traduite. C’est une vision du monde qui s’est objectivée.»
«Lo spettacolo non può essere interpretato come abuso del mondo visione, prodotto delle tecniche di diffusione di massa delle immagini: è piuttosto una Weltanshauung divenuta effettiva, tradotta materialmente: una visione del mondo oggettivata ».
Ecco allora i tentativi maldestri di W Veltroni di addomesticare l’immagine e i testimoni a una sorta di propaganda Pop and Corn, in cui ex brigatisti e cantanti di successo ci regalano testimonianze memorabili della cosa, ancora lei, spacciandola come storia. Una storia, quella del PCI secondo W Veltroni che non ci rivela come e perché l’Italia sia il solo paese europeo ad avere avuto il più grande partito comunista in un tempo e nessun partito socialista immediatamente dopo, sul modello degli altri paesi. Una storia, quella degli anni settanta, secondo W Veltroni, che elimina, scarta, rimuove tutto quanto succedeva oltre il brigatismo, il compromesso storico, Diccì, Piccì, e che coinvolgeva migliaia di giovani a cui le maglie dell’ideologia, molto prima della caduta del Muro di Berlino, andavano strette. Sergio Atzeni, una delle voci più autentiche di quella generazione la riassumeva, infatti, così:
« Radio Sirena Libera Informazione, riunione plenaria del lunedì mattina, si progetta la settimana, Ruggero si difende dall’accusa di mandare troppa musica e poca informazione nel pomeriggio del sabato, «lo sai che gliene frega a quelli che il sabato pomeriggio si sdraiano in veranda con l’anguria, il ghiaccio, la birra e l’amica di sentire il deputato tale intervistato per mezzora e dice trenta volte che ha ragione Berlinguer? Vabbene. Ha ragione Berlinguer. Basta un minuto e mezzo per le precauzioni d’uso. Vuoi mettere con la musica afrocubana?»
Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio
Allora W Veltroni o Viva Berlinguer? Viva Berlinguer, direi, a questo punto. Ma non applauditemi come quando si applaude il pilota all’atterraggio.

7 COMMENTS

  1. La Repubblica di Salot (con l’accento che mi manca sulla tastiera) predilige i santini. I santini possono essere bianchi neri o rossi. Ma sempre santini. Le letture spregiudicate sono bandite dal Radical Kitsch… a prescindere. Franzisko hai citato Atzeni a puntino (e penso che sia un testo recente). Appeno ho tempo vi aggiungo una citazione della “Vita Agra”, testo ovviamente precedente, precedente anche all’epoca Berlinguer, ma si potrebbe iniziare da queste salutari profanazioni, per recuperare un po’ più di memoria.

  2. Geniale come sempre, Maestro (1 e/o 2), mi hai spiegato da (com)par tuo perché non mi è neanche passato per l’anticamera del cervello di andare a vedere il film, e non perché sia nostalgico di Berlinguer e neanche perché sia anostalgico di Veltroni, semplicemente perché la mia lettura storica di cosa sia stato il PCI e di cosa sia un film penso di averla maturata da un po’ di tempo. abrazos

  3. visto ieri il film…ahimè non si può che concordare del tutto con l’analisi di forlani…un documentario è selezione, ma la selezione era insignificante…la propaganda pop and corn con cui W.V. si autoassolve (un film-alibi)… e invece la forza che si intravede della figura di berlinguer, e il rimpianto per un’epoca in cui esisteva “un popolo”, e un popolo che con un ideale aveva costruito un’ideologia (e forse la vecchina commossa ai funerali che si sforza di alzare il pugno vale cmq la distribuzione del film… visto che altrimenti in rete nessuno se lo va a cercare…)

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017