Il gesto di Marta
[La versione francese di questo testo, a cura di Laurent Grisel, appare simultaneamente sul sito amico Remu.net]
di Beatrice Monroy
Non posso continuare. Continuerò.
S. Beckett
Esserci nei luoghi, permette di scrivere letteratura a partire dal tuo luogo e non dall’altro mondo il luogo degli altri, quelli di fuori.
N. Gordimer
Carissima,
mi porto dietro il pensiero di te sulle rocce, sui mari e sulle montagne, quello che mi chiedi è veramente molto difficile. Perché allora noi eravamo ubriachi e, sai bene, quando si è ubriachi poi si ricorda poco. Così ci ho messo circa dieci anni per capire il peso dell’avventura attraversata e per capire, poi, come proprio questa avventura mi abbia permesso di trovare il mio posto nel mondo.
Mi chiedi una storia, come tutte le storie fatta di un mondo di cose, di volti, di nomi, di discorsi, di suoni e rumori come il frastuono delle armi, delle bombe, delle sirene della polizia, di uomini che vivono una vita blindata, di una città che vive una vita blindata. Così è, nella vita nascono cose e azioni che dovresti giudicare scandalose e invece non ce la fai e continui a vivere accanto a esse senza più essere in grado di giudicarle, di condannarle, di prenderne le distanze. Non racconti più, non ricordi più, cancelli quello che non andrebbe cancellato.
Adesso, se penso a quegli anni, mi vengono in mente le parole: Grande confusione. Pasticcio senza senso. Ubriachi. Guerre. Imperialismi. Sempre eguali. Il mondo schiacciato. I nostri desideri di gente del Sud sempre deformati; qui giù non si capisce più niente, nessuno sa più chi è, tutto è confuso dai desideri altrui che ci vengono imposti come nostri ma nostri non sono. Un mondo pieno di storie e nessuno le ricorda. La smemoratezza è uno dei nodi di questa terra, un modo di rendere tutto, orrori, tragedie ma anche conquiste, storie personali, i migranti, le Americhe, tutto inesistente. La parola d’ordine è: dimenticare.
Per questo il compito che mi dai è per me particolarmente difficile, come tutti i siciliani non sono abituata a ricordare, piuttosto cancello il passato, lo metto da parte, non me ne curo. E poi, te lo ripeto, in quegli anni noi tutti eravamo ubriachi.
Una strana pietra miliare la nostra: un attimo. L’attimo in cui muore il giudice Giovanni Falcone. Quello è stato un non ritorno, un momento in cui non ci si poteva chiedere perché. Nessun perché. Si andava avanti e non ci si poteva fermare a guardare.
È stata una specie di corsa senza pause: andare avanti, farcela !
Pomeriggio del 23 maggio 1992, il Tg3 annuncia la strage. Ancora per qualche minuto non si saprà chi è saltato in aria, chi non c’è più, chi è diventato eroe smembrato, chi per sempre è diventato mito. Ancora qualche minuto per sapere i nomi. Nomi che fanno piangere e urlare. Lo so: mai più niente sarà come prima. Eppure io quel giudice non lo conoscevo se non per fotografia, immagini televisive, la voce un po’ rauca con quella cadenza che ancora, a ascoltarla mi stringe il cuore per l’emozione. Piango perché tutto è cambiato. Sono bruciata, scottata, ustionata per sempre ma ci metterò anni per rendermene conto.
Erano le 19,30. Se si hanno bambini è ora di porre inizio all’organizzazione della cena e è anche l’ora del TG regionale. Per me era una giornata come le altre, una giornata da madre come tante altre madri. Alla televisione la giornalista Mariolina Sattanino, novella Cassandra, pallida come un cencio, incapace di parlare, cercava quasi di non dire, sembrava volersi scusare con gli italiani per la notizia che era costretta a portare:
“A Palermo, l’autostrada per l’aeroporto… un’esplosione… forse…” Ricordo parola dopo parola e poi ricordo il frastuono assordante del piatto che tenevo in mano e ora mi cadeva per terra, lo stesso frastuono dell’esplosione lontana, il boato dell’autostrada fatta a pezzi, lo schianto delle lamiere delle macchine saltate in aria, dei corpi in mille pezzi, della grida, dei pianti. Quel boato inascoltato lo conosco perfettamente e ancora, dopo anni, si confonde con il rumore al rallentatore di un piatto infranto sul pavimento della mia cucina e i cui pezzi, cadendo, si frantumano, esplodono a loro volta in mille pezzi e rimbalzano e rimbalzano.
Poi il lutto. Pianti. Occhi gonfi. Al funerale la pioggia inarrestabile copriva le nostre lacrime. Ricordo i vestiti impregnati d’acqua, il cielo grigio, oscuro, di piombo mentre la gente si accalcava attorno alla grande chiesa dove arrivavano tutte le autorità italiane, i giornalisti da tutto il mondo.
Ricordo. Ricordo. Ricordo. Poi, subito, con un moto inarrestabile cominciò la lotta, senza domande, senza perché politici, senza steccati o bandiere, solo la lotta, una lotta semplicissima: dire no, ritrovarsi. Innanzitutto ci fu la catena umana: le spalle facevano molto male e anche le braccia perché ci mettemmo per ore in una posizione forzata. La gente si era riunita spontaneamente sotto al Tribunale dove Falcone lavorava, poi le mani avevano cominciato a cercarsi, a unirsi, a tirare il lungo filo umano per le strade della città a lutto, una mano dentro l’altra, in silenzio mentre le campane delle chiese al nostro passaggio suonavano a stormo. Tutti piangevano. Stringevamo, cullavamo tra le nostre braccia la città intera, dai quartieri antichi dove ha sede il Tribunale fino alla città nuova dov’era la casa del giudice. Da allora lì sotto, un albero, una magnolia si chiama l’albero Falcone e i palermitani ci attaccano lettere, domande, descrizioni di ingiustizie, noi ci attaccammo un lenzuolino con scritto NO ALLA MAFIA. Noi, il Comitato dei lenzuoli.
Giuliana Saladino giornalista, scrittrice. Nel dopoguerra aveva partecipato all’occupazione delle terre con i comunisti poi, per i fatti di Ungheria, aveva lasciato il Partito. Per molti di noi palermitani, che da anni cercavamo di ragionare sulla strana prigionia senza steccati in cui vivevamo, Giuliana era un punto di riferimento fondamentale, lei era rimasta pura in mezzo a un mondo, una borghesia incolta, collusa con gli ambienti criminali, lei non si era mai arresa, restando un’intelligenza chiara e coerente negli anni più bui della città, quando ogni giorno si contavano i morti ammazzati per mafia.
Ricordo Giuliana al telefono: “Stasera ci vediamo da Marta, venite? Proviamo a fare qualcosa”. Io e Paolo andammo.
Marta, figlia di Giuliana, nella notte della strage, presa dalla disperazione, era corsa a casa, aveva aperto un armadio, tirato fuori un lenzuolo e sopra, enorme ci aveva scritto NO ALLA MAFIA, poi era andata al balcone e l’aveva appeso. Dopo un poco un lenzuolo analogo era apparso sul balcone di fronte. Come si fa a spiegare agli altri italiani che per compiere quel gesto qui da noi era necessaria una straordinaria dose di coraggio? Come fai spiegare ai tuoi connazionali che c’è davvero un pezzo della Repubblica dove non esiste la democrazia? Dove un folle potere sanguinario, alimentato dalle vie internazionali della droga e delle armi e di giochi politici di divisione del mondo, schiaccia ogni tentativo di libertà? Come fai a spiegarlo senza passare per un’esagerata mitomane e non sentirti rimbalzare in faccia tutta la banalità dei luoghi comuni? Sicilia: sole, coppola e lupara? Eppure, proprio in quegli anni, dovrei dire quasi grazie ai nostri martiri, finalmente abbiamo potuto parlare. Anche se è durato poco.
Diverso, diverso dal resto dell’Italia: qui c’è la mafia. Come fai a spiegare che non si tratta soltanto di un atto criminale ma soprattutto di un oltraggio alla persona? Noi siciliani da sempre siamo il fumetto del folclore mondiale del boss in abito gessato, borsalino in testa e grande sigaro in bocca. Come fai a spiegare che si tratta di cosa ben più grave e che è difficile starne fuori? Mafia non solo morte, mafia soprattutto grandi silenzi e impossibilità di esistere. Mafia progetto autoritario: negazione della nostra cultura, del nostro pensiero libero. Non devi mai essere altro. Bisogna essere come vogliono loro, i cannibali e i loro alleati. Mafia che uccide la diversità. L’oltraggio è non esistere, è comprimere la persona in un modo di essere che amputa e avvilisce una parte di te.
Paura da morire. La paura è il sentimento più diffuso in città. Avvengono fatti scandalosi: violenze sulle persone, sopraffazioni, la cultura viene cancellata . Eppure nessuno reagisce.
Qui nessuno ricorda la parola scandalo. Nessuno dice:ora basta. Non è permesso l’urlo e il furore. Questo è il vero inferno. Ogni cosa viene digerita silenziosamente.
Per questo, il gesto di Marta fu una rivoluzione e nacque il Comitato dei lenzuoli, la rivoluzione dei lenzuoli. Stendere lenzuoli bianche alle finestre, un gesto silenzioso di donna che rompe l’omertà. Il primo gesto di ribellione della popolazione palermitana. I lenzuoli alle finestre si moltiplicarono.
Eravamo una ventina. Ci riunivamo nelle case quasi clandestinamente. Ci muovevamo in modo silenzioso. Avevamo le idee chiare, eravamo minuscoli e deboli, eravamo gente comune senza potere, eravamo pochissimi ma avevamo un’identità nuova, forte, vincente; si trattava di lavorare negli spazi minuscoli, nascosti, risalire, esserci, altri, differenti, ricordando ai nostri concittadini che un mondo senza mafia era possibile. Era possibile essere se stessi e riconoscere le ingiustizie. Un mondo dove era possibile costruire le cose a partire dalla propria cultura e non da quella che gli altri ci dicono essere le nostra cultura. Volevamo un mondo dove era possibile dire: siciliano è bello e non solamente siciliano è mafia. Un mondo dove ritornavano, da siciliani, i valori di pace giustizia e cultura e non solo coppola e malaffare. Tutto molto semplice e molto complicato. Ci assumevamo in realtà il compito immenso di “pensare” un pensiero nuovo e originale in una terra dove pensiero non ce n’era se non quello di esportazione. Sogno di sentire dire al mio popolo: “… questo… è arte… è cultura… questo ci piace, questo è noi” e, invece, da sempre io sento: “… questo vi deve piacere, questo ci aspettiamo da voi siciliani, questo è il prodotto culturale che siete e a voi vi piace perché a noi piacete così”. Sapevamo perfettamente il rischio enorme che correvamo decidendo di pensare ed esprimere il nostro pensiero in una terra dove il potere/pensiero è esclusivo e autoritario. Pensare dunque faceva una paura terribile. Meglio farsi dire dagli altri cosa devi pensare.
Mi ricordo il giorno in cui decidemmo- in una riunione a casa di Giuliana- di attaccarci ai vestiti con una spilla una resistenza elettrica, un piccolo segno da portare in giro, così nascosto e così evidente nel suo dichiarato significato: resistenza. Resistere e essere. Ricordare l’urlo e il furore, ricordare che c’è una soglia di orrori, di scandali, di oltraggi da denunciare. Volevamo esistere. Molti di noi erano artisti, scrittori, pittori, gente di teatro costretti negli anni al silenzio, a emigrare o a vendersi per un tozzo di pane, adesso stavamo lì a offrire gioiosamente la nostra creatività per tornare ad esserci come persone. Per Palermo questa cosa così piccina, che per altri posti dell’Occidente può sembrare banale , era veramente e lo è ancora una rivoluzione.
Se nella mia vita non ci fosse stato il Comitato dei lenzuoli, io non avrei mai capito quant’è importante lavorare a minuscoli passi in forma, direi, monacale quando attorno a te i colossi agiscono e uccidono sia fisicamente che moralmente.
Infatti, gli altri uccidevano. Ricordo il giudice Paolo Borsellino fare testamento nell’Atrio della Biblioteca Comunale. Lui ci convocò. Chi sono i “ci”? Sono i palermitani.
Lui ci convocò per ricordare Giovanni Falcone ma parlava per sé, ci stava salutando, sapeva di avere i giorni contati.
E fu il 19 luglio 1992. Questa volta la bomba esplose in pieno centro, palazzi sventrati, pezzi di corpi in volo attaccati ai balconi, pezzi di qua e di là. Ricordo il muro compatto dei ragazzi delle scorte, la notte della sua esecuzione. Scendemmo per le strade un’ora dopo la strage. La paura si tagliava a fette. Non c’erano più alternative. I poliziotti delle scorte, amici e colleghi di quelli massacrati dalle bombe del 23 maggio e del 19 luglio, avevano la benda nera del lutto legata al braccio. Scendemmo con loro, dietro loro per i vicoli della città, nei vicoli di mafia. I ragazzi delle scorte camminavano avanti a muso duro, era disarmati ma portavano addosso la forza delle loro braccia, dei loro pugni, si fermavano davanti ai portoni dove sapevano esserci un mafioso, un colluso e battevano, battevano i pugni contro gli stipi chiusi. Le mura dei vicoli si stringevano attorno a noi. Per Falcone c’erano stati i pianti, ora per Borsellino c’era la rabbia e la guerra. I portoni erano chiusi, i palazzi sembravano disabitati ma da qualche balcone, lentamente, cominciarono a spuntare braccia femminili che, in modo indifferente e quotidiano, stesero per tutta la notte lenzuola bianche, le più belle, quelle dei corredi.
Di quella notte ricordo la paura e, poi di avere pensato: è scoppiata la guerra civile, io non posso farci niente.
Eravamo nel fondo del pozzo, in uno dei posti peggiori del mondo, mafia ed Europa, tutto mischiato a non farci capire niente. Eppure proprio con tutto quell’orrore, avevamo improvvisamente una possibilità: il mondo finalmente ci guardava, non eravamo più soli. Si poteva parlare e essere creduti. Adesso tutti parlavano di quell’inferno che si chiamava Palermo. Questo cambiava completamente la prospettiva delle nostre vite.
Mi sentivo ubriacata dalla sensazione che adesso se parlavi, gli altri, quelli di fuori, ti credevano. Ubriaca : potevo dire e pensare. Il mio dolore, la mia tragedia, la mia prigionia; il dolore e la tragedia del mio popolo potevano essere accolti, compresi, sostenuti.
Non fu facile. Eravamo incolti, per decenni siamo stati tenuti fuori dai collegamenti del mondo contemporaneo. Un baratro d’ignoranza ci separa dal resto del mondo occidentale. E’ stato fatto apposta, noi dobbiamo essere così, un poco selvaggi, un po’ la caricatura di noi stessi. Un’isola dorata, proprio come l’isola che siamo, per tutti i loschi affari internazionali. L’isola del mito, dei poeti, dei drammaturghi da Eschilo a Pirandello è diventata la terra dove dittatori selvaggi e sanguinari fanno da padroni.
Ci ho messo moltissimo tempo a capire questo semplice meccanismo. Però quando l’ho capito, ho deciso di fare qualcosa di molto specifico: “fare cultura”. Perché qui fare cultura è fare la rivoluzione.
Comunque in quel momento a noi provincialotti, noi del pozzo, con i nostri occhietti male addomesticati toccava il compito di risvegliarci, scacciare i dittatori scrollandoci di dosso tutti i luoghi comuni su di noi, riacchiappare la nostra storia e essere di nuovo al centro del mondo. Non fu facile. Non eravamo più in grado di guardare con i nostri occhi; per troppo tempo ci avevamo abituato a guardare con i loro occhi; bisognava mettere delle lenti nuove, abituarsi alla democrazia, al libero pensiero, allo scontro ideologico. Ci siamo ubriacati per il rapido successo che sembravamo ottenere. Ci siamo fidati troppo delle nostre stesse capacità e abbiamo mal riposto la nostra immensa voglia e energia di libertà. Troppo duro, troppo difficile . Così dopo alcuni anni, quelli sono tornati.
Comunque prima della sconfitta ci furono ancora anni di gioia e di entusiasmo. Ricordo Guido seduto nel salotto di casa mia, mentre gli altri parlavano e parlavano, schizzare un logo dietro l’altro per trovare quello giusto per una campagna elettorale in cui credevamo di trovare la nostra libertà: “Insieme per Palermo. Vota sindaco Leoluca Orlando.” Ricordo il logo che piacque a tutti noi: due mani si tenevano come nelle catene umane fatte con tale forza da farci tornare a casa con le braccia doloranti.
Ricordo la notte della vittoria a sindaco di Leoluca Orlando e tutti a piazza Pretoria con le lacrime che ci colavano. La nostra vittoria. Trovammo il portone del Municipio chiuso. Qualcuno portò una scala lunghissima e Leoluca- detto da tutti Luca- si arrampicò. Sembrava la presa del Palazzo d’Inverno. Ricordo il Luca d’allora. L’amatissimo Luca. Lui ci spingeva, sembrava accogliere i nostri pensieri, riportarli in televisione, rimbalzarli nelle case degli italiani. Allora sembrava essere il nostro portavoce. Decine di volte, in modo semplice e familiare, ci riunivamo con lui in una casa tra le tante della gente che ogni giorno si univa a questo nuovo modo di essere e lì, con semplicità, lui era il nostro portavoce, tutti parlavano liberamente, tutti ci sentivano parte di un nuovo pensiero.
Vorrei riuscire a lasciare questo ricordo intatto. Metterlo nel cuore dell’utopia insieme ad altre piccole e care cose perché poi, invece, la storia si è inceppata.
Luca sindaco, ora si trattava di governare. Tutto era ben più complicato di come ci appariva quando eravamo per le strade. I lenzuoli bianchi rimasero appesi alle finestre. Di Palermo si parlò in tutto il mondo come il Rinascimento. Chi ci governava si ammazzava di fatica per fare presto, sempre un passo avanti rispetto a quelli che di nuovo ci inseguivano, ci minacciavano di morte, ci toglievano l’aria e il respiro. Noi eravamo ubriachi d’orgoglio e per la dignità riconquistata. Difficile accorgersi che intanto non tutto andava per il verso giusto.
Per anni siamo stati al centro del mondo. Ubriachi. Pochissimi mi ascoltano. Di nuovo attorno a me c’è il silenzio. Quelli sono tornati. Anche allora però fuori si sparava. Nella città dolente si continuava a morire. Di nuovo fui costretta a sentire il rumore odioso:pack, pack, pack.
Quando sparano a un uomo si sente solamente un colpo secco. In città la guerra continuava, i soldatini grigio- verde con il mitra in spalle, stavano appiattiti contro i muri, cercavano un poco d’ombra. Proteggevano le case dei giudici, di alcuni politici e sempre più di gente comune che si esponeva alla lotta, rischiando di essere uccisa. I soldatini avevano chiesto di fare gli alpini, erano finiti nei quaranta gradi dell’estate di Palermo a badare che non scoppiassero più bombe.
Anche perchè se ne scoppiava un’altra loro saltavano in aria per primi.
Nella mia strada c’erano cinque lunghe strisce dove non si poteva parcheggiare, pericolo bomba. I soldatini stavano lì impauriti, accaldati, gli abitanti dei palazzi portavano loro del thè freddo, un poco di granita al limone, i ragazzini passavano davanti a loro con le biciclette, si fermavano entusiasti a guardare i mitra.
Più in giù davanti al grande carcere della città, l’Ucciardone adesso stavano alcuni carri armati e anche lì soldatini pronti a combattere per le nostre vite.
Luca Orlando e con lui decine e decine di persone, viveva blindato, si muoveva con tre macchine di scorta. Se veniva a trovarci prima telefonava il suo segretario, Fabio, per fissare un orario preciso. Poi una macchina della polizia si fermava con molte ore di anticipo sotto casa nostra. Tutti gli inquilini erano informati e qualcuno si lamentava, è proprio necessario fare correre questo rischio alla gente del palazzo? Poi arrivava la scorta e controllava tutto l’appartamento: è venuto qualche operaio? Poi arrivava Luca, usciva di corsa dalla macchina quando il portone di casa era aperto. Gli uomini della scorta bloccavano le scale, lui prendeva l’ascensore, alla fine entrava con uomo della scorta. E i bambini attorno a ridere e scherzare come se tutto quello fosse normale.
Ma normale non era. E la paura ti rende pazza. Eccita le tue reazioni nel mondo, le rende abnormi, incontrollabili, fuori norma. Una volta Luca mi disse: “Sono diventato un mostro”. Ci ho messo anni per capire. Perché allora non potevo, ero ubriaca.
Pochissimi mi ascoltano, lo so. E’ difficile ma è una battaglia che vale la pena vivere. Allora la lotta per la propria sopravvivenza, per non venire uccisi, per non cedere alla “loro” forza ci divorava dall’interno. Troppo duro, troppo difficile. Sono cominciati i cedimenti, le collusioni e, a poco a poco, tutto è cambiato. Il mondo attorno ci divorava.
Per questo ho scelto il piccolo. Un giorno in mezzo a quella confusione, in mezzo a quella ubriacatura io decisi: io voglio continuare, questa è la mia vita, non voglio arrendermi. Non è che giorno per giorno non finiranno con il divorarmi ma nel piccolo è più facile resistere anche se la tempesta è sempre addensata, i litigi, le aggressioni, le violenze non cambiano. Ma si può continuare. O meglio, tutto attorno a te dice: lascia perdere e invece finisci che continui. Questo è il mio posto e la mia battaglia.
Per tutta questa strana vita che mi è toccata in sorte, a un certo punto decidemmo con delle amiche di aprire – per resistere, per fare cultura – una minuscola libreria. Un minuscolo spazio culturale. Un luogo per pensare: Libr’aria. Un luogo dove diffondere cultura. Il nostro contributo alla resistenza. Esserci. Un posto dove accumulare, archiviare, diffondere la differenza intellettuale e scriverla, raccontarla, crearla.
Mi fa così paura scrivere queste cose . Mi è così difficile allontanarmi dalla pietra miliare, mi ci tengo abbracciata per non vederla, per non osservarla. Come gli altri palermitani mi tappo gli occhi. Dimentico la nostra responsabilità. E’ più facile.
E’ tutto questo ammasso di cose, di speranze infrante, di desideri troppo complicati, di incapacità, di frustrazioni e di gioie la mia pietra miliare. Il momento, lungo dieci anni in cui ho capito verso quale luogo, verso quale esistenza dovevo andare. E’ proprio stando dentro il dolore e la frustrazione che ho capito il mio posto nel mondo. Sono grata al destino di avermi dato la possibilità di capire in mezzo all’incredibile baraonda di quegli anni. Ma ancora non sono in grado di capire come io ce l’abbia fatta a ribaltare il mio sguardo sulla realtà in cui vivevo. Attorno a me avveniva di tutto, si aprivano grandi spazi culturali, il tempio della lirica dopo vent’anni veniva finalmente restaurato e ridato alla cittadinanza, ogni luogo era spazio teatrale eppure qualcosa non funzionava: di nuovo c’era il silenzio. Questa volta l’omologazione e il silenzio assumevano la forma dell’elogio al principe.
Io avevo bisogno, desideravo e desidero essere una voce libera. Credevo e credo ancora che la responsabilità dell’intellettuale e dell’artista è sempre molto semplicemente: fare sentire la propria voce libera, fuori dal coro.
Invece, intanto, dietro le apparenze, i signori della guerra riprendevano le redini della città. Bisognava di nuovo lottare per esserci, bisognava farlo e l’abbiamo fatto. Libr’aria è il nostro piccolo spazio, minuscolo è lo spazio che la dignità si consente in questa città, la dignità della propria differenza.
Bisognava dunque ricominciare come ai tempi del Comitato dei lenzuoli, tra quattro mura, ma questa volta dovevo cercare quello che era mancato al Comitato dei lenzuoli : il collegamento internazionale, cercare i simili nel mondo, soprattutto cercare i maestri, chi prima di te ha vissuto, attraversando il deserto, cambiando il proprio sguardo sul mondo.
Ma dove cercarlo un altro sguardo quando non sei abituato a vedere con i tuoi occhi? Solo adesso, dopo che da molto tempo ho lasciato alle mie spalle la pietra miliare, comincio a capire: il modo in cui guardi il mondo è la rivoluzione. Ho deciso di fare questo della mia vita: insegnare quello che un tempo, Giuliana, una piccola donna libera, mi aveva insegnato, insegnare a guardare con i propri occhi.
All’inizio fu difficile perché si trattava in pieno boom, in un momento in cui tutti acclamavano se stessi per essere troppo bravi, perfetti, i salvatori della città, scegliere invece di fermarsi e andare in un certo senso controcorrente; fermarsi e osservare con pazienza e scegliere. Insomma non farsi trascinare da una corrente che non sembrava più tanto pulita.
Ecco mentre scrivo mi ritorna il groppo alla gola. Troppi ricordi sono arrivati d’improvviso. Li vorrei scacciare ma, in verità, sono io stessa a trattenerli. E’ proprio questo passato ancora presente, lo so, a tenermi in caldo la vita adesso che le cose sono ben cambiate.
Qui c’è un grande silenzio. Ma la mia libreria è ancora qui, abbiamo litigato e pianto ma la libreria ce l’ha fatta, è qui.
Ancora, da tutta una vita, al sole d’inverno, vado sulla spiaggia incantata della mia splendida e infelice città. I gigli bianchi sbucano dolci e improvvisi tra i cumuli d’immondizia, il lieve tanfo di fogna aperta si mischia con quello delle alghe che marciscono abbandonate sulla riva. Oltre, il mare verde s’infrange delicatamente contro la leggera striscia di conchiglie rosa. Forse sto qui sulla spiaggia incantata solamente per capire come guarire me stessa e come guarire chi mi sta intorno. Guarire, poi, da cosa? Da questa straripante immondizia? Ecco qua un cassonetto rovesciato e mezzo bruciato. Tampax, pannolini per bambini, bucce di fichi d’India, spray super tossici, foglietti di carta con canzoni scritte a mano, una buccia di melone rosso, un osso su cui si avventa un cane di passaggio.
Si tratta di provare a trovare un passaggio tra le macerie.
Guarigione. Certamente un modo bizzarro di stare in Occidente. E chi ci capisce niente. Una grande confusione. Europa-Africa. Sto qui, le vicende della città le conosco proprio tutte.
Il mondo è popolato dal cimitero delle culture assassinate e noi siamo una di queste. Non ho altro da fare nella vita, posso solo raccontare questa storia. Ma già se ci riesco è tantissimo.
Mi vengono in testa brandelli di vita, percorsi di dolore e, poi, di gioia, piccole vittorie, grandi dolori. Comunque, alla faccia dei potenti e della loro indomabile arroganza, io penso ancora. Alla faccia delle bombe scoppiate nei nostri cervelli, alla faccia dei brandelli di carne disseminati in autostrada. Già, proprio così: alla faccia loro, eccomi qui sulla spiaggia, viva, non sono stata uccisa né nel corpo né nell’anima. Alla faccia loro. E poi si può essere testimoni e ricordare. Io, per esempio in tutti questi anni ho visto tutto. Ho sentito come sono andati i fatti. Io sono a conoscenza delle cose, sono una testimone. Porto con me la parola e le storie di gente assai particolare, gente incontrata nel fuoco perché cresciuta nel fuoco.
Molte onde del mare devono scivolare tra me e il mondo per rendermelo digeribile.
Sarò capace di vivere? E come sarà la mia vita con tutto quello che mi sono lasciata alle spalle? Il tempo del viandante cancella le scorie. Dunque è anche il tempo del rinnovamento. La pietra miliare è lì bene in vista mentre io, insieme ai miei amici e compagni, vado avanti. Dopo le scorie, dopo i rami secchi, rimane il tempo dell’andare anche se fanno male i piedi.
Alcuni di noi attraverseranno lo Stige, depositeranno una moneta tra le labbra di Caronte affinché li porti oltre le acque che separano i linguaggi. Un Matto, con le sue labbra profumate dai suoni dell’Universo sarà il primo a traghettare. E da lì oltre, nello spazio della libertà, ci farà segni di raggiungerlo, ma quanti di noi saranno in grado di seguirlo? Quanti di noi avranno il coraggio di continuare quando il mondo intero ti grida: Ferma! Pensa a te! Difficile capire il lato oscuro delle cose. Difficile come capire i morti silenziosi. Ma se noi porgiamo le orecchie e un po’ ci chiniamo sul mondo a osservare le cose minute, le cose schiacciate dalla guerra, dalla violenza e dal potere, forse capiamo un poco di più.
E’ molto piccina la porta attraverso cui bisogna passare. Lì davanti c’è Cerbero ma c’è anche Ermes abitatore delle linee di confine. Sarà proprio lui, con la sua notoria destrezza, a permetterci di comprendere un pezzettino, magari minuscolo, del nostro destino.
A piedi. Un piede dopo l’altro, a piccoli passi e poi, ogni tanto, nelle discese, di corsa. Poi nelle salite piano piano e nella pianura con passo veloce.
A piedi, sì a piedi ce ne andremo.
Guarda, mia cara me stessa, guarda il tempo sulla spiaggia sta cambiando. Grosse nuvole nere corrono lì in alto. Gabbiani volano basso. L’odore del mare forte, intenso. Tempo di ritornare nella città oscura e benefica. Aprire la saracinesca della piccola libreria. Chissà forse anche oggi passeranno, come ieri, come ieri l’altro una due tre persone e a poco a poco la legittimità della disobbedienza prenderà forma sempre di più. L’importante è raccontare.
Ma sì, le persone migliori stanno ai bordi del mondo. Nel loro solitario percorso, nelle loro tragiche solitudini, non capite e improponibili, nei loro discorsi folli baciati dal Dio è contenuta tutta la saggezza del mondo. Per questo io scelgo di seguirli e unire la mia ricerca alla loro. Maestri e monaci si aggirano sulla terra per salvare il salvabile. Io sto con loro.
Adesso la pietra miliare della mia vita è lontana ma se mi giro la vedo ancora, ne prendo le distanze e sorrido al destino che mi ha dato di capire.
A Giuliana, amica e maestra, ci manchi tanto Levanzo-Palermo maggio/giugno 2004
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*[Questo testo è stato scritto e pubblicato in inglese per la rivista The Open Page n. 10 del Odinteatret.]
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Non è un testo di più sulle stragi -ormai lontane – ma molto presente in Italia.
Il ricordo letterario-non più giornalistico- un lenzuolo biano dove si scrive contro la mafia –
Oggi c’è ancora il peso di un cielo mafioso che piomba ogni paese, ogni persona che vuole lottare.
La vita diventa allora quasi irrespirabile.
Si toglie tutto: la libertà.
Un ambiente che un francese non avverte girando nel cuore fuoco della città italiana.
Ma con piccoli segni si legge la presenza della mafia.
La Sicilia, come La Campania non è mafia: sono vite prigioniere della paura. Il testo parla di paura.
La paura tesse una ragnatela dove si intrappola la parola e ogni gesto del quotidiano.
Chi ama L’Italia non deve parlare solo di bellezza.
Non condivido l’idea che si deve parlare di un luogo altro.
L’Italia immaginaria puo fare parte di una letteratura o di una poesia reali.
Si scrive non del luogo reale, ma del luogo porto in sé.
Luogo partenza. Non di nascita.
O di nascita reinventata.
Grazie per il testo francese.
Leggo di nuovo. E’un testo forte.
Questa storia italiana fa parte della nostra storia in Europea.
Non dobbiamo proteggere e difendere chi lotta contra la mafia, chi scrive, chi parla.
Oggi il male valica la frontiera.
Marsiglia luogo di regolamento di conti da mesi. Macchine bruciate. Vita fermata sulla strada.
Il male si è propagato.
Sono contenta della traduzione in francese.
Noi dobbiamo proteggere -si deve leggere-
Anche con il rischio di conoscere la paura.
Non dobbiamo essere soli di fronte al male, ma proseguire con parola scritta, visibile.
Un ultimo commento: aspetto le elezioni in Europa in maggio per votare per chi propone un programma contro la mafia, per chi ha il coraggio e la volontà di difendere chi ha perso la sua libertà, chi è costretto da vivere nascosto o esiliato.
Questo dolore fatto a chi combatte la mafia è realtà indigna delle nostre democrazie.
“Questa storia italiana fa parte della nostra storia in Europea.”
sì, Veronique hai proprio ragione, ma pochi in Europa e anche in Italia ne sono consapevoli.