Cercando un altro Egitto: Giuseppe Acconcia
Egitto: la «democrazia» dei militari in giacca e cravatta
( in risposta all’articolo di Marco Alloni pubblicato ieri su Nazione Indiana )
di
Giuseppe Acconcia
Il Cairo – Abdel Fattah el-Sisi (detto Sisi) è il nuovo presidente egiziano. Per la prima volta, il raís del più grande paese del Nord Africa guiderà lo stato con le mani già insanguinate. L’ex generale, esponente del Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf), è infatti responsabile dei test della verginità su 17 donne che manifestavano in piazza Tahrir (2011), e corresponsabile delle morti di circa mille egiziani nei 18 giorni di occupazione di piazza Tahrir (2011), delle violenze di Mohammed Mahmud e Maspiro (2011), ideatore del massacro di Rabaa al Adaweya (2013) e coinvolto nelle morti dei mesi precedenti alle elezioni presidenziali del maggio 2014. Nonostante ciò, il colpo di stato del 2013 che ha deposto l’ex presidente Mohammed Morsi lo ha incoronato come personaggio mediatico, diffondendo la mania per il ritorno della «stabilità» tra gli egiziani.
I militari in giacca e cravatta
«È l’ultima volta che mi vedrete con questa uniforme», ha detto Sisi dagli schermi della televisione pubblica all’annuncio della sua candidatura nel marzo scorso. Il passaggio dall’uniforme alla giacca e cravatta, come fu per Gamal Abdel Nasser, Anwar al Sadat e Hosni Mubarak, si è così compiuto. Le dimissioni di Sisi da ministro della Difesa sono state poi essenziali per mantenere viva l’ambigua relazione tra élite militare e politica che domina l’Egitto dalla rivoluzione del 1952.
Sebbene il movimento sociale di piazza Tahrir del gennaio 2011 si sia trasformato immediatamente in un colpo di stato militare, l’esercito ha agito con molta cautela per riprodurre il consueto rapporto tra élite politica e militare. Ha agito sul potenziale rivoluzionario dei movimenti di piazza. L’incontro in piazza Tahrir tra gli organizzatissimi Fratelli musulmani e i giovani rivoluzionari ha immediatamente disattivato il potenziale del movimento.
In un secondo momento, gli islamisti sono stati usati dall’élite militare per dimostrare al popolo egiziano che l’esercito, e solo l’esercito, è in grado, in altre parole ha il «potenziale rivoluzionario» per guidare il paese. E così le forze armate hanno di nuovo azzerato la distinzione tra politici e militari intervenendo direttamente per annullare la rivoluzione del 25 gennaio 2011 con il colpo di stato del 3 luglio 2013.
Da quel momento i militari hanno imposto la vendetta verso gli islamisti e un controllo scientifico sulla società egiziana: facendo ciò che la Fratellanza si era dimostrata incapace di fare (coprifuoco, controllo della polizia, leggi anti-proteste, leggi anti-terrorismo). Il potenziale rivoluzionario dei movimenti di piazza è stato così completamente azzerato.
Non è un caso poi che il primo annuncio ufficiale della candidatura di Sisi sia arrivato dopo tre attentati e 50 vittime nel gennaio 2014. Riportando alla ribalta, per tipo di attacchi e luoghi dove sono avvenuti, le solite oscure connessioni tra Sicurezza di stato e islamismo radicale jihadista. Il sangue è servito ai militari per dimostrare ancora una volta che l’unica soluzione per gli egiziani è il ritorno del Faraone. E così, se il passaggio dall’élite politica a quella militare è stata impercettibile per gli egiziani nelle tre presidenze precedenti, tanto che pochi associano all’esercito Gamal Abdel Nasser, Anwar al Sadat e Hosni Mubarak, questa volta, il passaggio dall’uniforme agli abiti civili da presidente è avvenuto dopo un anno di governo islamista, che per i sostenitori dell’esercito verrà considerato come un «incubo scampato», per arrivare a incoronare Sisi e la sua «lucida follia». Dopo il 25 gennaio 2011, i militari hanno optato quindi prima per l’intervento diretto in politica dello Scaf e poi per un anno di farsa in cui hanno portato allo scoperto il lato oscuro dello stato: la Fratellanza musulmana, con lo scopo di dimostrare a tutti che si tratta solo di «terroristi incompetenti».
Il principale strumento di controllo di lungo termine, adoperato dallo stato per disattivare le contestazioni, è la legge anti proteste. Le principali ong indipendenti, il centro Nadeem e l’Iniziativa egiziana per i diritti personali hanno condannato l’aumento senza precedenti del numero di persone sparite e torturate in carcere, con il pretesto delle leggi anti-proteste e anti-terrorismo. Molti detenuti sono stati arrestati senza accuse e senza che venisse notificato ai familiari il luogo della detenzione per mesi. Secondo il sito indipendente Mada Masr, sono 41mila le persone arrestate dal giorno del colpo di stato militare del 3 luglio scorso, tra cui 926 minori, 4.768 studenti e 166 giornalisti. Invece le indagini sulle violenze di Rabaa al Adaweya sono state costantemente inquinate. Secondo organizzazioni dei diritti umani e ong indipendenti, sono oltre 2000 le persone scomparse il 14 agosto scorso, tra i partecipanti ai sit-in al Cairo.
Nonostante ciò, non tocca a noi dire che la «rivoluzione» finisca necessariamente con un colpo di stato. Si registrano costanti divisioni all’interno dell’esercito che vengono messe a tacere, non ultima la possibile candidatura alle presidenziali dell’ex capo dello Staff dell’esercito, Sami Annan, ritirata all’ultimo momento. Non solo, la scarsa affluenza al voto di maggio dimostra una sempre più alta disaffezione degli egiziani ad aderire ai meccanismi di continua riproduzione del sistema autoritario e le autentiche aspirazioni democratiche del paese.
Tuttavia, solo la contestazione del ruolo politico dell’esercito può riportare in vita le aspirazioni rivoluzionarie. Questo potrà avvenire forse con la trasformazione della Fratellanza da pilastro dello stato a movimento rivoluzionario. Sperando che nel frattempo gli egiziani non abbiano dimenticato che il presidente Sisi era un militare.
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Ottimo articolo. Complimenti, finalmente un giornalista che capisce qualcosa su quello che accade qui.
Oh, ecco.
Francesco sarebbe interessante chiedere all’autore, se ha voglia e tempo, un’analisi più articolata delle componenti del movimento di Tahrir e dei suoi limiti ed errori.
penso che ci legga, comunque lo rilancio
effeffe
(Interessa anche a me.)
[…] la replica di Alloni a Giuseppe Acconcia che a sua volta da queste pagine scriveva in risposta ad Alloni. Non è una posizione di cui sento […]
Grazie Giorgio per la tua domanda, mi limito qui ad una prima risposta in attesa del tempo per scriverne più estesamente.
Dal 25 gennaio 2011, Tahrir è diventata il simbolo dei movimenti giovanili egiziani perché ha unito migliaia di giovani, ultras, venditori ambulanti, donne, migranti, poveri e attivisti, che hanno formato la loro identità anti-regime occupando lo spazio pubblico. La più grande piazza della città è diventata un laboratorio unico al mondo di «politica di strada».
Il movimento è stato disattivato gradualmente dalla monopolizzazione delle proteste da parte degli organizzatissimi Fratelli musulmani; dalla frammentazione dello spazio pubblico, voluta dai militari, per cui i palazzi del potere apparivano irraggiungibili; da procedure elettorali affrettate (le presidenziali del 2014 sono state le seste elezioni dal 2011); dalla presenza delle telecamere che hanno ingabbiato la protesta in piazza Tahrir; dai limiti dei social network nella trasformazione della mobilitazione in partecipazione politica; dall’accordo di giudici, polizia, uomini del vecchio regime, piccoli criminali, cristiani copti, moschea di Al Azhar e liberali (inizialmente) nell’appoggiare il colpo di stato militare del luglio scorso; dall’uso dei movimenti giovanili, con la campagna di raccolta firme Tamarrod, infiltrata da uomini dei Servizi segreti, per mettere in atto il colpo di stato; infine dall’estrema frammentazione dell’opposizione politica laica e secolare.
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