Una lettura de “Il cane di Pavlov” di Frungillo

di Francesco Filia

Il cane di Pavlov (resoconto di una perizia), Edizioni D’If , 2013 – ultima opera di Vincenzo Frungillo – è un’altra magnifica esplorazione nel rapporto tra bios e storia, questa volta visto nell’ottica del rapporto tra eros e scienza, o, meglio, apparato tecnico-scientifico. La scienza che si trasforma in apparato tecnologico è parallela all’eros che si trasforma in pornografia, nelle prime c’è una dimensione dell’uomo nella sua totalità, sia nell’eros che nella scienza classica l’uomo è il fine, nella pornografia e nell’apparato tecnico è una funzione, dal tutto alla parte (non più l’uomo nella sua interezza, ma la mano che muove la macchina, l’occhio che osserva la cavia, il sesso che si eccita o è eccitato). Ma questa condizione sembra dirci Frungillo è in aggirabile, non può essere rimossa, deve essere attraversata, perché è la nostra condizione epocale, il nostro destino, anzi va radicalizzata, colta alla sua radice, estremizzata, lì dove c’è un ipocrita dire e non dire deve emergere la cruda realtà.

Tale intento prende forma sin dai primi versi. Versi – che pur restando sempre brevi, scarni e nervosi – attraversano varie dimensioni, dal poema scientifico-didascalico all’invettiva anche se raggelata, dal monologo interiore alla descrizione epica. Man mano che le situazioni e i personaggi si delineano, subito si fa chiaro che ci troviamo in pieno “sottosuolo”. La perizia psichiatrica a cui si sottopone la protagonista Martina, asettica e spietata voce narrante del monologo poetico, è una vera e propria testimonianza dagli inferi. Lei, come il protagonista delle Memorie dostoevskjiane, orgogliosamente ritiene di aver portato gli eventi alle estreme conseguenze, infatti, sembra che Martina possa quasi pronunciare le stesse parole della voce narrante delle Memorie: “Quanto a me, io non ho mai fatto altro che spingere all’estremo, nella mia vita, ciò che voi osavate spingere solo a metà, chiamando saggezza la vostra vigliaccheria e consolandovi così con delle menzogne. Perciò io forse sono ancora più vivo di voi.” Naturalmente bisogna stabilire se questa radicalità presunta sia stata raggiunta dalla protagonista.

La storia è ambientata in una Milano contemporanea, abitata da anonimi trentenni giunti nella capitale del nord in cerca di lavoro o per “sfondare”. Che, però, si ritrovano occupati in aziende più o meno grandi, in uffici con lavori avvilenti e inutili, nella loro particolareggiata utilità, precari e malpagati, in cui imperversa una competizione disperata, senza alcun sbocco e, per questo, ancor più sadica. Questo è lo sfondo entro cui si muove la vicenda, che parte da uno dei rituali contemporanei, quello dell’aperitivo serale post-lavoro, funzionale al lavoro stesso, come lo è il fine settimana, per far tornare i funzionari-cavie dell’appartato tecnico post-industriale alle loro mansioni, ricaricati, come cani a cui è stata allentata la catena per scorazzare un po’. E’ in questo contesto che i due protagonisti, Martina e Bruno, si incontrano e iniziano la loro relazione sadomaso. Martina, dominata nella società, nel ruolo della dominante che introduce Bruno, prototipo nerd, ai “piaceri” delle pratiche Bdsm. Frungillo sembra comprendere bene, e lo sviluppo della vicenda cadenzato nelle quattro fasi dell’esperimento pavloviano lo mostra, che le due posizioni, quella del dominato e del dominante, sono interscambiabili, perché inconsciamente i due personaggi si identificano con entrambe, ed è solo per un accidente o per la necessità di un riconoscimento reciproco che un personaggio interpreti uno dei due ruoli. Perché è la magmaticità stessa del desiderio – quando il soggetto desiderante non è più tale ma ridotto a mera funzione sia della specie che della società – a non trovare un oggetto che possa soddisfarla, un ordine che la possa contenere e quindi non acquisisce Forma, in quanto è lo stesso ordine sociale, trasformatosi in apparato, ad essere diventato amorfo, un sintomo nevrotico della malattia uomo. E allora non resta che ritirarsi nel sottosuolo di un fine settimana domestico, nella tana di un appartamento cittadino e riprodurre, sotto forma di perversione sessuale, la lotta feroce dell’esistenza, ancor più feroce quando essa si mimetizza in forme di consenso sociale. Il vantaggio di questo rito è, invece, che non ha bisogno di dissimulare, ci sono i ruoli, ma sono maschere che, erotizzando il dolore strutturale dell’esistenza e quindi rendendolo pornografico, svelano più che dissimulare, svelano la struttura feroce e pornografica dei rapporti intersoggettivi, una versione grottesca e annichilente della dialettica servo padrone che li connota.

Tra i due protagonisti, colui che porta alle estreme conseguenze l’esperimento e, così, da sottomesso si fa padrone della sua dominante, è Marco, che, a differenza di Martina, non arretra di fronte alla morte, ma vi si immola, trasformando quello che rimaneva pur sempre un gioco in un atto sacrificale. Il ridicolo sacrificio dell’ultimo uomo, ridicolo perché credendo schopenhauerianamente di potersi sottrarre al gioco feroce delle forze le invera un’ultima volta nel momento in cui vuole sottrarvisi, trascina la sua estinzione dal crepuscolo del XIX secolo all’alba del Terzo millennio, inscrivendo sulla sua carne prosciugata il niente della sua epoca, raccogliendo il vuoto agghiacciante dell’esistenza nelle deiezioni del suo corpo per farlo svanire con sé, lasciando Martina nel ruolo di testimone della sua effimera catabasi gnostica, di fronte alla giuria indifferente del mondo.

 

articoli correlati

L’ora stabilita di Francesco Filia

di Daniele Ventre Al di là della prima impressione a caldo, non si può avere un adeguato confronto con un’opera...

Storia con cane

di Andrea Inglese Entrano distruggendo cose e, sul più bello, tra la nevrastenia di tutti, vittime sdraiate e carnefici in...

Due poesie sopra i destini delle mamme

di Francesca Genti   Le mamme delle poete le mamme delle poete si siedono sul divano, è tardo pomeriggio e aspettano le figlie. le...

Jacopo sul palco

di Umberto Piersanti Jacopo, tu non conosci palchi, non conosci balconi o luoghi che sopra gli altri per la gioia s’alzano o la rabbia di chi ascolta, tutto...

“Neuropa” reloaded

. Dall'INTRODUZIONE di Andrea Inglese Per comprendere l’intensità, la ricchezza e l’oltranzismo narrativi che caratterizzano Neuropa possiamo comodamente rifarci al concetto di...

Storia con crocefissione

di Andrea Inglese Prima molta penombra, e un movimento di telecamera esitante, come a tastoni, tra sagome più nere e...
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.