les nouveaux réalistes: Alessandro Zannoni
Genesi di un principe azzurro
di
Alessandro Zannoni
Sono figlio di quella che una volta veniva chiamata pettinatrice.
Ho trascorso gran parte della mia infanzia nel negozio di mia madre circondato da donne di ogni età, ceto sociale e bellezza. Coccolato da tutte, amato da molte, promesso sposo di alcune. Mi sono sempre sentito un privilegiato, quasi un prescelto, come un semidio o una roba del genere.
Vivrai tra le donne e imparerai a conoscerle, ne amerai quante più potrai, godrai dei frutti della loro terra etc etc…
Ero un bambino felice e un futuro radioso mi aspettava, perché dentro quelle quattro mura colorate di rosa antico ho imparato tutto sulle donne, tutto quello che bisogna sapere per farle sentire amate e felici, comprese, protette, complete.
Ho imparato tutto direttamente alla fonte, mentre ascoltavo le lamentele sui mariti e i fidanzati, mentre i caschi sparavano rumorosa aria bollente e mia madre acconciava certe cofane che mi sembrava sempre un miracolo della fisica, e le sue aiutanti limavano e pitturavano unghie di mani che faticavano a stare ferme mentre le donne parlavano. Sembrava che facessi altre cose, che non badassi a loro, che fossi troppo piccolo per capire o per interessarmi alle dinamiche più importanti dell’equilibrio del mondo e della vita stessa, invece ascoltavo eccome; magari non capivo proprio tutto ma ascoltavo e incameravo, inconsciamente, nozioni che mi sarebbero state utili più avanti. Crescendo ho imparato a conoscere le donne anche dalla posta del cuore di Cosmopolitan, che sul tavolino delle riviste non mancava mai, leggendo le richieste di auto di ragazze inesperte o di mogli disperate, e le risposte illuminanti di una entità femminile onnisciente.
Oggi credo proprio che tutti gli uomini dovrebbero trascorrere i primi dieci anni di vita nel negozio di una parrucchiera, lo penso davvero. Tra uomo e donna le cose andrebbero meglio, di certo.
Ripensando alla mia infanzia tra tutta quella bellezza di cosce nude di prime minigonne e camicette sbottonate, di magliette scollate e culi insaccati in jeans stretti, di tacchi alti e calze velate e reggicalze e gonne lunghe con gli spacchi e bocche con rossetti pesanti e occhi truccati e sopracciglia curate e ascelle ancora orgogliose di peli, ripensando a tutta quella bellezza che ammiravo e che sarebbe diventata poi il mio campo da gioco e d’amore – ripensandoci, adesso – posso confessare che esisteva una nuvola, unica ma enorme, che offuscava quel mio radioso futuro, e che mi angustiava parecchio: il principe da fotoromanzo.
All’epoca ero molto preoccupato, non c’è niente da ridere.
I fotoromanzi erano la vera letteratura pop degli anni ’70/’80. Le clienti, tutte, erano avide lettrici di quelle storie a fotogrammi dove si coronavano sogni romantici di amori difficili. Il problema era che, in quelle storie così moderne, veniva alimentato il mito del principe azzurro. Liberazione sessuale o meno, quello era un mito troppo radicato nella loro visione della vita, era il punto debole attaccabile di un super eroe perfetto, l’ostacolo fatale dopo un percorso netto. Io ricordo gli sguardi di quelle donne di ogni età, e ne ricordo perfettamente ogni espressione, mentre sfogliavano quelle storie. Riconoscevo, in quegli occhi e nei respiri trattenuti, la voglia di essere le protagoniste di quegli amori, di quei baci, di quell’epica azzurra. L’amore era il loro sogno, il desiderio primo di tutte quelle donne. Ma non ero io quello che glielo avrebbe fatto assaporare, non ero io che bramavano e sognavano, quello per cui avrebbero lasciato il marito o il fidanzato in macchina ad aspettare fuori dal negozio di mia madre. Ennò.
Il principe azzurro dei loro sogni era Franco Gasparri.
Moro, alto, ben fatto, bellissimo. Non c’era nessun altro attore da fotoromanzo che gli tenesse testa. All’apice della fama, Franco menava pure Alain Delon, anche se aveva la erre moscia – cosa di cui chiedeva sempre scusa al pubblico.
Avrei dovuto odiarlo, come da copione, perché due capibranco non possono coesistere, ma segretamente mi era simpatico, anche se era più bello di me, e parteggiavo per lui in ogni fotoromanzo in cui appariva. Pure Brunetta, la ragazza che lavorava da mia madre, bella mora con due tette generosissime, stravedeva per lui. Per lui e Boninsegna. Brunetta tifava l’Inter. Anche sua sorella Nicoletta tifava Inter, ma le piaceva Bordon. Ricordo che partivano i mercoledì di coppa con i loro fidanzati e seguivano la squadra dovunque. Non capivo, dall’alto dei miei pochi anni, come potessero, quei ragazzi, permettere alle fidanzate di andare a vedere giocatori di cui erano palesemente innamorate, e di cui tenevano spudoratamente i poster in camera. A volte Brunetta, quando tornava da qualche vittoriosa trasferta europea, diceva che forse Bonimba era più bello di Franco Gasparri, ma la cosa durava solo un giovedì, perché poi il venerdì tornava a sospirare sulle pagine dei fotoromanzi insieme alle clienti. A volte Brunetta mi diceva che da grande mi avrebbe sposato, nonostante Franco Gasparri e Roberto Boninsegna, e se mi lavavo i capelli in negozio era lei che me li asciugava, e questo era sicuramente un segno d’amore. Ma devi sbrigarti a crescere, concludeva. Io guardavo mia mamma per vedere se aveva sentito, come a farle intendere che stava a lei aiutarmi in quell’impresa, e mia madre ogni volta rideva e faceva sì con la testa, e diceva sempre chissà che fila di donne ci sarà che ti vorranno sposare. Io mi gonfiavo di orgoglio maschio, ché pure le clienti facevano sì con la testa e le davano ragione e mi sorridevano, e Franco Gasparri mi sembrava meno pericoloso, e certe volte ho pensato pure che saremo diventati amici e che ci saremo divisi equamente le fidanzate, perché i grandi uomini sono pure generosi.
Di regola gli ultimi colpi d’asciugatura li facevo seduto in poltrona, tre cuscini sotto il sedere e la testa dentro al casco, perché quell’aggeggio mi faceva sentire un po’ astronauta che in quel periodo erano molto di moda, con i capelli che volavano dentro lo scafandro bollente che puzzava di plastica bruciata, mentre tenevo in grembo un fotoromanzo e guardavo Franco che baciava la belloccia di turno, la baciava con la bocca tenca e gli occhi chiusi, e pensavo che un bacio così, alla Brunetta, chissà quando glielo avrei dato.
grazie, Ale, mio Johnny letterario. Baci da Katiuscia.
Un narratore per nascita. Davvero ben raccontato.