Catullo – Carme LXIII

trad. isometra* di Daniele Ventre

 

Super alta vectus Attis celeri rate maria,
Phrygium ut nemus citato cupide pede tetigit
adiitque opaca silvis redimita loca deae,
stimulatus ibi furenti rabie, vagus animis,
5devolsit ilei acuto sibi pondera silice,
itaque ut relicta sensit sibi membra sine viro,
etiam recente terrae sola sanguine maculans,
niveis citata cepit manibus leve typanum,
typanum tuum, Cybebe, tua, mater, initia,
10quatiensque terga tauri teneris cava digitis
canere haec suis adorta est tremebunda comitibus.
«Agite ite ad alta, Gallae, Cybeles nemora simul,
simul ite, Dindymenae dominae vaga pecora,
aliena quae petentes velut exules loca
15sectam meam exsecutae duce me mihi comites
rapidum salum tulistis truculentaque pelagi,
et corpus evirastis Veneris nimio odio;
hilarate erae citatis erroribus animum.
Mora tarda mente cedat: simul ite, sequimini
20Phrygiam ad domum Cybebes, Phrygia ad nemora deae,
ubi cymbalum sonat vox, ubi tympana reboant,
tibicen ubi canit Phryx curvo grave calamo,
ubi capita Maenades vi iaciunt hederigerae,
ubi sacra sancta acutis ululatibus agitant,
25ubi suevit illa divae volitare vaga cohors,
quo nos decet citatis celerare tripudiis.»
Simul haec comitibus Attis cecinit notha mulier,
thiasus repente linguis trepidantibus ululat,
leve tympanum remugit, cava cymbala recrepant,
30viridem citus adit Idam properante pede chorus.
Furibunda simul anhelans vaga vadit animam agens
comitata tympano Attis per opaca nemora dux,
veluti iuvenca vitans onus indomita iugi;
rapidae ducem sequuntur Gallae properipedem.
35Itaque, ut domum Cybebes tetigere lassulae,
nimio e labore somnum capiunt sine Cerere.
Piger his labante languore oculos sopor operit;
abit in quiete molli rabidus furor animi.
Sed ubi oris aurei Sol radiantibus oculis
40lustravit aethera album, sola dura, mare ferum,
pepulitque noctis umbras vegetis sonipedibus,
ibi Somnus excitam Attin fugiens citus abiit;
trepidante eum recepit dea Pasithea sinu.
Ita de quiete molli rapida sine rabie
45simul ipsa pectore Attis sua facta recoluit,
liquidaque mente vidit sine quis ubique foret,
animo aestuante rusum reditum ad vada tetulit.
Ibi maria vasta visens lacrimantibus oculis,
patriam allocuta maestast ita voce miseriter.
50«Patria o mei creatrix, patria o mea genetrix,
ego quam miser relinquens, dominos ut erifugae
famuli solent, ad Idae tetuli nemora pedem,
ut aput nivem et ferarum gelida stabula forem,
et earum omnia adirem furibunda latibula,
55ubinam aut quibus locis te positam, patria, reor?
Cupit ipsa pupula ad te sibi derigere aciem,
rabie fera carens dum breve tempus animus est.
Egone a mea remota haec ferar in nemora domo?
Patria, bonis, amicis, genitoribus abero?
60Abero foro, palaestra, stadio et gymnasiis?
Miser a miser, querendum est etiam atque etiam, anime.
Quod enim genus figuraest, ego non quod obierim?
Ego mulier, ego adolescens, ego ephebus, ego puer,
ego gymnasii fui flos, ego eram decus olei:
65mihi ianuae frequentes, mihi limina tepida,
mihi floridis corollis redimita domus erat,
linquendum ubi esset orto mihi Sole cubiculum.
Ego nunc deum ministra et Cybeles famula ferar?
Ego Maenas, ego mei pars, ego vir sterilis ero?
70Ego viridis algida Idae nive amicta loca colam?
Ego vitam agam sub altis Phrygiae columinibus,
ubi cerva silvicultrix, ubi aper nemorivagus?
Iam iam dolet quod egi, iam iamque paenitet.»
Roseis ut huic labellis sonitus ‹citus› abiit,
75geminas deorum ad aures nova nuntia referens,
ibi iuncta iuga resolvens Cybele leonibus
laevumque pecoris hostem stimulans ita loquitur.
«Agedum», inquit «age ferox ‹i›, fac ut hunc furor ‹agitet›,
fac uti furoris ictu reditum in nemora ferat,
80mea libere nimis qui fugere imperia cupit.
Age caede terga cauda, tua verbera patere,
fac cuncta mugienti fremitu loca retonent,
rutilam ferox torosa cervice quate iubam.»
Ait haec minax Cybebe religatque iuga manu.
85Ferus ipse sese adhortans rapidum incitat animo,
vadit, fremit, refringit virgulta pede vago.
At ubi umida albicantis loca litoris adiit,
teneramque vidit Attin prope marmora pelagi,
facit impetum. Illa demens fugit in nemora fera;
90ibi semper omne vitae spatium famula fuit.
Dea, magna dea, Cybebe, dea domina Dindymi,
procul a mea tuos sit furor omnis, era, domo:
alios age incitatos, alios age rabidos.

Carme 63

Berecinzia e Atti

Su un vascello rapido Atti per l’alto mare passò;
come ardente al bosco Frigio con piede svelto approdò,
della dea gli opachi alberghi cinti d’alberi toccò,
là eccitato da furiosa rabbia e ormai fuori di sé,
con la selce aguzza i ciondoli dell’inguine si strappò,
e sentendo le sue membra senza più virilità,
(ben di sangue fresco il suolo di quei lidi maculò),
con le nivee mani svelta lieve timpano afferrò,
madre Cíbele, il tuo timpano, tua mistica verità;
con le tenere sue dita cavo cuoio di bue batté,
fra le sue compagne trepida intonò il canto così:
“Galle, ai boschi di Cibèbe fitti ora andatevene,
greggi erranti della madre dindimena, andate, su,
voi che a lidi estranei giunte, come esuli insieme a me
vostra guida da compagne nel mio stuolo siete già,
e soffriste il flutto rapido, le pelagee avversità,
straziaste (troppo odio in Venere!) la vostra corporeità:
allietate in danze erratiche l’animo alla sua maestà.
Non più indugio al cuore tardo: presto, affiancatevimi!
Al Frigio tetto di Cíbele, ai boschi della deità,
dove tuona eco di cembali, e i tamburi strepitano
dove i frigi auleti il curvo flauto gravi modulano,
dove Menadi ederifere forte il capo agitano,
dove il santo rito in striduli ululati eccitano,
dove il vago stuolo della dea a volare s’avvezzò,
dove con tripudio lesto accorrere si dovrà”.
Come Atti, mezza donna, fra compagne sue cantò,
con frementi lingue subito, ecco, il tiaso ululò,
urlarono i cavi cembali, lieve il timpano echeggiò.
Svelto il coro a passo celere sopra il verde Ida salì.
Furibonda, ansante, erratica guida, con affanno va
Atti per i boschi ombrosi (e a compagno il timpano ha),
vacca indomita che al peso del giogo si ribellò;
quella guida dal pie’ rapido svelte Galle seguitano.
Come al tetto di Cibèbe stanche s’approssimano
dal gran sforzo, senza pane nel sonno scivolano.
Un sopore pigro, a un languido affanno, gli occhi coprì;
nella dolce quiete l’orrida furia l’animo fuggì.
Quando il Sole agli occhi fulgidi del suo volto aureo però
bianco il cielo, duro il suolo, fiero il mare illuminò,
e dai validi corsieri le notturne ombre scacciò,
da Atti desta a un tratto il Sonno fugace se ne partì;
la Pasítea dea nel trepido suo grembo lo ricevé.
Dalla dolce quiete senza truce furia ecco perciò
che nel petto Atti da sola le sue azioni ricordò,
vide a mente sgombra quello che perse e dove finì,
e col cuore in fiamme al lido la sua via reindirizzò.
Con il pianto agli occhi il vasto mare allora sogguardò,
e con meste voci, misera, parlò alla patria così:
“Patria, tu che mi creasti, patria genitrice, ahimè,
ti lasciai, misero, come fa lo schiavo che scappò
dal padrone! Ai boschi d’Ida ho diretto il passo, qui,
dove fra la neve e i gelidi rifugi di belve andrò,
ed a tutti i loro covi furiosa m’accosterò!
Patria, in quali luoghi, dove, remota, ti trovo più?
L’occhio mio da solo vaga col suo sguardo verso te,
per quest’attimo che l’animo senza truce furia sta.
Io per questi occulti boschi la mia casa muterò?
Di patria, ricchezze, amici e parenti mancherò?
Da foro, palestra e stadio, dai ginnasi fuggirò?
Misero, ahi misero, quanti mali, o cuore, piangerò!
Quale genere d’aspetto, quale forma non avrò?
Io donna, io adolescente, io efebo, io fanciullo, io già
fiore del ginnasio, io grazia di palestre; già per me
s’affollarono le porte, calda la mia soglia fu,
per me floride corolle la mia casa già vestì,
al partirmi dal mio letto, che già il Sole si levò.
Io adesso serva di dèi, schiava a Cíbele sarò?
Io Mènade, io forma monca, uomo sterile io vivrò?
Gli innevati algidi anfratti d’Ida verde abiterò?
Sulle vette alte di Frigia la mia vita condurrò,
con la cerva delle selve, col verro dei boschi? Ah no,
no, il mio gesto m’addolora, dal rimpianto che mi dà!”
Come dalle rosee labbra questo gemito sfuggì,
e alle orecchie dei celesti tali nuove riferì,
ecco i chiusi gioghi Cíbele ai leoni disserrò,
e rivoltasi al sinistro predatore lo incitò:
“Va’, feroce, fa’ che un’altra furia lo travolga, va’:
così al colpo del furore la via ai boschi volgerà,
chi al mio regno vuol sottrarsi con fin troppa libertà.
Con la coda il dorso sferzati, con la frusta pungolati,
fa’ che al tuo ruggente fremito tutti i luoghi strepitino,
fiero sul possente collo il fulvo vello agitalo!”
Cìbele minacciò, e il giogo con la mano liberò.
Quel feroce, stimolandosi, il crudele animo aizzò,
s’avventò, ruggì, i germogli con piede agile spezzò.
Come all’umido frangente del bianco lido arrivò,
presso quel marmoreo mare vide e d’impeto assalì
Atti tenera, che ai cupi boschi, pazza, dileguò;
poi laggiù per tutto il resto della vita ella servì.
Dea, dea grande, dea Cibèbe, dindimea divinità,
dal mio tetto il tuo furore sempre allontanamelo:
altri sfrenali, altri incintali, al tuo fremito eccitali.

 
*(Galliambi, tetrametri ionici a minore, resi con doppi ottonari col secondo membro tronco o con versi costituiti da un ottonario e da un senario bisdrucciolo).

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).