les nouveaux réalistes: Keith Botsford
Caro,
Je ne suis pas un nouveau réaliste mais un réaliste depuis mon enfance. Collaboration est le plus court, le plus lu, et le plus populaire et direct de mes romans. Je serais très content de voir paraître un extrait dans ta série. La traduction est de Bianca Harvey K
di
Keith Botsford
traduzione italiana di Bianca Harvey
dal primo capitolo – Ansia
La natura non ha plasmato l’uomo o l’animale per essere perdente. E infatti vigila sul predatore non certo sulla preda.
Per quanto, poi, gli esempi di sconfitta non si contino: venire respinti con durezza dalla persona amata, o colpiti e tramortiti da un qualche malvivente, veder dare in pasto alla stampa i segreti più intimi della propria anima, scoprire che i propri figli tramano per affrettare la tua dipartita, divorziare e – naturalmente – la morte stessa. Tutto questo vale anche per i popoli e le nazioni. Ed è verità universalmente nota che nessuno ricorda il nome di chi ha perso.
La Francia – sotto l’occupazione tedesca, tra il 1940 e il 1945 – si trova proprio nella frustrante posizione del perdente. Perchè la conseguenza principale della sconfitta – al di là dell’indignazione e della vergogna – è lo sfinimento. Sfinimento fisico, morale e spirituale. Il perdente, infatti, esce dal conflitto stremato, in primo luogo dall’enorme sforzo sostenuto per cercare di non farsi sopraffare poi, una volta sopraffatto, dal logorante tentativo di sopravvivere e di tornare ad essere quello che era un tempo.
Il risultato più frequente di una disfatta è, come sappiamo, la rivoluzione. Nauseata dal comportamento di chi la governava, attratta da proclami e ideali o manipolata da furbi artigiani di un nuovo potere, la massa amorfa del popolo tende a voler prendere in mano il proprio destino.
Gli eventi che mi accingo a raccontare trattano poprio di questa realtà/verità in un luogo e in un tempo specifico: la Francia in quegli stranianti 30 mesi tra l’estate del ’44 e l’inverno del ’46, (“anni da cani”, i più duri della guerra)
Ero giovane allora e prestavo scarsa attenzione a quanto avveniva intorno a me. La mia professione era la legge e la legge, si sa, è lenta a mettere a fuoco o a incoraggiare i cambiamenti. Avevo 20 anni quando fui richiamato, nel giugno del 1940 ed ebbi un ruolo del tutto passivo nella disfatta. I quattro anni che seguirono furono per me come un brutto film noioso. Se guardo indietro oggi, quello che vedo è una sorta di apatia diffusa, come osservare una scena attraverso un vetro appannato o una cortina di pioggia, come ascoltare insulse discussioni tra adulti. Per quanto concerne la Vita in sé, c’era poco che potessimo fare. I bambini a scuola cantavano canzoncine al Maresciallo ogni mattina. Non penso che sapessero molto di lui, ma ai bambini piace cantare. E il canto allarga i polmoni.
Il Maresciallo – stando a Bernard Ménétrel – suo medico personale, figlioccio e confidente – era un uomo vecchio. La sua faccia di contadino, dura e poco espressiva, dall’ossatura sporgente e dalle strane sfaccettature, ricordava una di quelle muracche a secco che dividono i pascoli nelle campagne, e si vedeva dovunque.
Piuttosto che abitarla, sembrava darla in prestito perchè fosse usata sui francobolli o affissa sui manifasti di propaganda, dove appariva sempre sereno ma determinato. I baffi erano il segno distintivo delle persone pubbliche a quei tempi. Le ragazze si chiedevano che effetto avrebbe fatto sfiorarli con le labbra e intere popolazioni li adottarono come marchi di fabbrica: baffi alla Hitler, alla Stalin, alla Pétain. Erano il tocco facciale emblematico delle idee sostenute. Quelli di Pétain erano tra i più semplici. Non morbidi, però, anzi militareschi.
Il dottor Ménétrel non portava baffi. Il suo era un viso borghese, ben nutrito e liscio, ma anonimo, come un vestito preso dalla gruccia di un negozio di moda pronta. Era una faccia carnosa, specialmente intorno alla bocca. Gli occhi scuri, un po’ velati avevano un leggero strabismo.
La normalità, la routine con cui inizia la storia che mi accingo a raccontare non descrive la realtà: governare, come si sa, comporta una continua ripetizione di atti. I membri di un governo non fanno che incontrarsi a scadenze regolari e parlare. In tal senso questa mattina è una mattina tipica e potrebbe svolgersi in qualsiasi altro momento o altro luogo. Per esempio che il capo dello Stato, il Maresciallo Pétain, incontri i suoi collaboratori alle 10 del mattino, è cosa del tutto normale. Ma questa volta tutto ciò non avviene aVichy, bensì in uno del lungo elenco di castelli requisiti, nei quali lui e il suo entourage vengono via via spostati dai padroni tedeschi.
E gli spostamenti, quelli no, non sono affatto normali.
Due soldati tedeschi sono ritti sulla porta della stanza appena riaperta. Nonostante il caldo l’ambiente emana odora di muffa. Insieme ad altri odori, il più pungente dei quali è certamente quello della sconfitta. La sconfitta ha un odore specifico. Come quando da bambino, nel cortile di scuola, stai per essere malmenato da compagni violenti. Un odore di urina non trattenuta, di paura mista a vergogna. Il Maresciallo non ha alcun odore. Egli non riconosce la sconfitta, sebbene se ne senta circondato. Il dottor Ménétrel, un giovane sui trentacinque, cammina su e giù per il corridoio fuori della stanza. Di solito egli è dentro la stanza, sempre accanto al Maresciallo. Anche questo è un segno del mutamento delle circostanze di cui, anche se teso e seccato, egli si rende acutamente conto.
Ménétrel è sempre stato accanto al Maresciallo dovunque egli fosse, perchè a lui è affidata la cura della salute fisica del capo dello Stato. E mantenere il Maresciallo vivo è importante per tedeschi perchè è attraverso di lui e attraverso Pierre Laval, nell’altra metà della Francia occupata, che essi riescono a tenere la popolazione tranquilla, sottomessa e in totale apatia. Ora Pétain viene trascinato da una castello all’altro: Vichy non è più così sicura. I castelli sorgono al centro di parchi circondati da alte mura. Qui è più facile proteggerlo.
Ma nel percorso da un castello all’altro, secondo quanto ricostruisco dai diari e dai quaderni del dottore, Ménétrel e gli altri attraversavano piccole cittadine e talvolta grandi città. E quanto apparivano solide al dottore quelle antiche città. Quei quartieri eleganti che nel secolo precedente erano stati costruiti da gente prosperosa, sicura e in possesso di una chiara visione del proprio futuro. All’interno entrate spaziose si aprivano su grandi sale dagli alti soffitti, dove famiglie si erano riunite per i pasti generazione dopo generazione e le innumerevoli stanze da letto testimoniavano la fiduciosa attesa di bambini a venire. Gli edifici erano gli stessi, ma quanto diversi gli abitanti: scontrosi, impauriti, apatici e annoiati.
Soltanto nella campagna l’antica Francia era ancora evidente. Lì piccoli rivi si riversavano in fiumi più grandi, vecchi pescavano con lunghi pali, le colline si confondevano dolcemente l’una nell’altra, il bestiame pascolava pacifico. Anche il villaggio più umile possedeva fattorie e chiese costruite in pietra tagliata a mano secoli prima. Luoghi dove era ancora possible incontrare preti in tonaca nera che portavano il viatico, seguiti da chierichetti vestiti di bianco, che stringevano in mano una campanella, proprio come un tempo aveva fatto Bernard.
Quello che avevano perso, si rendeva ora conto il dottore, era un luogo enormemente ricco e ben curato. Un luogo che aveva raggiunta la perfezione di un mattone levigato o di una pagnotta ben fatta. E poche erano le probabilità che almeno parte di quella solidità sopravvivesse.
Il dottore vide il Maresciallo uscire dalla riunione mattutina. Aveva l’aria pessimista. “Si andrà avanti così per sempre” disse al suo figlioccio.”Non sono in grado di predire il futuro, ma sento che non ci porterà nulla di buono”.
In serata furono spostati in un altro castello. Una cosa sembrava certa: nella disfatta anche il temporaneo diventava routine.