les nouveaux réalistes: Leonardo Staglianò

Blade-Runner-Rutger-Hauer

Maggio

di

Leonardo Staglianò

 

 

Lucia è morta all’età di ventun anni. Era maggio.

Una mattina, mentre si truccava, è svenuta. Non è caduta a terra, ma su un divano. Si trovava in salotto, davanti a uno specchio. È rimasta lì mezz’ora, fino a quando non si è svegliata Elena, la sua coinquilina. Elena ha chiamato subito l’ambulanza, e solo più tardi, dall’atrio dell’ospedale, ha avvisato i genitori di Lucia. Non ha avuto il coraggio di informarli che era entrata in coma: ha detto solo che era stata ricoverata.

A volte le persone in coma piangono. È impossibile valutare se ne siano coscienti. Potrebbe essere un modo di chiedere aiuto, o un riflesso incondizionato. Forse è solo la naturale reazione a un brutto sogno. Lucia è rimasta in coma tre giorni, e una notte ha pianto. Le lacrime che bagnavano la guancia destra lasciavano un segno scuro; prima di perdere i sensi si stava mettendo il mascara, ma non aveva fatto in tempo ad applicarlo su entrambi gli occhi.

Il quarto giorno, alle otto e trenta del mattino, ha smesso di respirare. I medici non sono stati in grado di dare un nome al suo male: hanno fatto solo delle ipotesi. Forse un virus, hanno detto; qualcosa di simile a una meningite, ha aggiunto uno di loro.

La sorella di Lucia, all’epoca dei fatti, aveva sedici anni. Frequentava l’Istituto d’Arte, leggeva poesie, ed era contenta che fosse primavera perché poteva andare in giro in motorino. Aveva iniziato da poco ad ascoltare Bob Marley, e anche se non voleva ammetterlo questa novità aveva a che fare con un ragazzo conosciuto a una festa. Si chiamava Ettore, aveva i capelli rasta e frequentava l’ultimo anno del Liceo Scientifico.

La sorella di Lucia usciva da scuola all’una e mezza e subito dopo passava in motorino davanti al Liceo Scientifico nella speranza di vedere Ettore. Il più delle volte ci riusciva. Un giovedì era arrivata all’una e quaranta e tra i pochi ragazzi rimasti lui non c’era; sperando di incontrarlo per strada aveva fatto un giro più lungo del solito, ma le era andata male.

Quella mattina la sorella di Lucia era tornata a casa dopo le due e non aveva trovato né la madre né il padre; nell’appartamento c’era solo la zia, una donna magra e pallida.

 

Sono passati cinque anni; è di nuovo maggio, e la sorella di Lucia è la mia ragazza. Il suo nome è Cristina.

Dieci giorni fa è stata celebrata la messa per l’anniversario della morte di Lucia. Mi sono seduto sulla prima panca, accanto a Cristina e ai suoi genitori, e come gli anni precedenti mi sono sentito a disagio. Le persone che passavano a salutarli porgevano la mano anche a me, eppure io Lucia non l’ho mai conosciuta.

È stata una cerimonia sobria: nessuno ha pianto, neanche Cristina. Ogni tanto mi cercava con lo sguardo, oppure mi stringeva la mano, come ad assicurarsi che i suoi occhi non l’avessero tradita, che io fossi davvero lì. Usciti dalla chiesa siamo saliti in macchina. Guidava lei. Ho capito solo a metà strada che stavamo andando al mare. Quando siamo arrivati abbiamo abbassato i finestrini e abbiamo ascoltato le onde. È una cosa che facciamo d’inverno, quando c’è troppo vento per sdraiarsi in spiaggia: restiamo seduti in macchina e ci concentriamo sul rumore del mare. Spesso chiudiamo gli occhi. Non so se sia lo stesso per Cristina, ma a me, dopo un po’, sembra che l’acqua si avvicini. Se ascolto le onde senza guardarle ho l’impressione che siano sempre più alte, e mi preparo a essere travolto. A volte immagino un caldo abbraccio; altre, un urto che mi toglie il fiato.

Quel giorno faceva caldo ma Cristina non si è mossa dal sedile, e io non ho fatto domande. Siamo rimasti immobili, in silenzio, a fissare il mare. Una nave nera, una petroliera forse, ci è passata davanti. Lentamente. Infine è scomparsa all’orizzonte. Cristina mi ha messo la mano dietro la testa, mi ha spinto verso di lei e mi ha baciato; una, due, tre volte. Mi ha morso il labbro. Voleva fare l’amore.

Il ricordo di Lucia suscita in Cristina due reazioni: a volte si chiude in se stessa; altre diventa frenetica, come se si sentisse in dovere di vivere la vita all’ennesima potenza: quello che le spetta unito a tutto ciò che la sorella non ha avuto. Parla, molto e molto in fretta, e si muove: se siamo seduti si alza; se stiamo camminando, accelera; se siamo stesi sul letto, inizia a spogliarmi. È strano detto da un ragazzo, da un maschio, ma ci sono stati momenti in cui mi sono sentito un burattino nelle sue mani. Come dieci giorni fa, in macchina. Ha ficcato le unghie nella mia schiena. Mi ha morso sul collo. Ho anche gridato. Per fortuna non c’era nessuno intorno. Siamo rimasti abbracciati lì, sul sedile, seminudi. Cristina rivolta verso dietro, io in avanti. Ho visto il sole scomparire nell’acqua. Un’immersione lenta, e dolce.

 

Ieri Cristina mi ha telefonato piangendo. Era tardi, stavo studiando, e leggendo il suo numero sul cellulare mi sono sentito in colpa: avevo promesso di darle la buonanotte, sapevo che aspettava la mia chiamata per addormentarsi. Ho risposto, ma non capivo quello che diceva: parlava a bassa voce, singhiozzava, e tirava su col naso. Ho chiesto cos’era successo, e lei ha iniziato a ripetere il mio nome: Ettore, Ettore… Le ho detto di aspettarmi a casa.

Mi sono infilato le scarpe e sono uscito. Ho guidato male, grattando le marce e tagliando le curve, ma le strade erano vuote. I semafori erano tutti gialli e lampeggianti: solo uno era rosso, e l’ho rispettato. Quando sono arrivato sotto casa sua erano le due. Cristina vive ancora con i genitori, e svegliarli era l’ultima cosa che avrebbe voluto: non avrebbe sopportato di farsi vedere da loro in lacrime. Ha un orgoglio tutto suo quella ragazza: con me si sfoga e si dispera; con loro è tosta, impeccabile: piange solo in chiesa, durante la messa in memoria della sorella, e da quest’anno neanche lì.

Sapevo che prima di farmi entrare si sarebbe assicurata che i genitori stessero dormendo, per cui ho spento l’auto, le ho mandato un messaggio e ho aspettato. Ho pensato che la cosa strana, in tutta questa faccenda, è che il padre e la madre di Cristina sono persone comprensive; se sapessero delle sue crisi, l’aiuterebbero. Ma lei non vuole che sappiano. La sua stanza è accanto alla loro, eppure ieri notte ha cercato me, e dopo avermi fatto aspettare in macchina per un quarto d’ora ha voluto che varcassi furtivamente la soglia della loro casa. Era scalza, e anche se non me lo aveva chiesto mi sono tolto le scarpe; non so perché l’ho fatto: le mie scarpe non fanno rumore.

L’ho seguita su per le scale, fino alla sua camera. Ci siamo seduti sul tappeto e mi ha raccontato della mattina in cui Lucia è entrata in coma. La sua era una cronaca più che un racconto: parlava di se stessa in terza persona, come se si trattasse di qualcun altro. Era la prima volta che sentivo quella storia. Mentre parlava fissava il vuoto: quando ha terminato non si è voltata a guardarmi, e neanche quando mi sono alzato e me ne sono andato. Mi sono accorto solo in macchina di aver dimenticato le scarpe a casa sua.

Mentre guidavo, scalzo, per la città, si è messo a piovere, e mi è venuta in mente quella volta che ho accompagnato Cristina a una lezione di cinema. Abbiamo visto “Blade Runner”: macchine volanti, luci al neon, replicanti che scoprono di avere sentimenti e uomini dal cuore di ghiaccio. Al termine della proiezione il professore aveva chiesto come mai pioveva così spesso in quella pellicola. Creare la pioggia sul set non è impossibile, ma comporta un gran dispendio di tempo ed energie: se un personaggio esce di casa e si bagna nel percorso fino all’auto, ogni volta che si rigira la scena saranno necessari abiti di ricambio asciutti. Perché complicarsi la vita? Deve esserci un motivo per avere tanta acqua in un film, aveva detto.

Tutti tacevano, e così alla fine era stato lo stesso professore a dare la risposta. Quello era un mondo corrotto dal male; la pioggia lavava lo sporco visibile; le lacrime quello invisibile. Nell’ultima sequenza c’era finalmente il sole, e i protagonisti – un uomo e una replicante – se ne andavano via in auto, verso la felicità.

Cristina, che per tutto il tempo aveva fissato lo schermo vuoto, aveva rotto il silenzio per fare una domanda: e le lacrime dei replicanti, lo cancellavano il male?

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017