Da “Lunga un anno”
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1. Quanto pesa la neve
Da queste altissime finestre si vede il bianco,
la coltre sopra quella linea retta
che in precedenza era traiettoria.
Sono venuti i giorni che non aspettavi,
i giorni della galera. Fuori. La luce tardi
sui cantieri, a piedi, sempre soli, ostinati
a dirci cose belle. Il bianco ci serra gli occhi,
vedremo bianco ancora per altri mesi,
purché qualcuno parlando si nasconda,
ci nasconda, il vento è dentro le fessure, la conta
dei moribondi non marca differenze alcune.
Crepano di schianti i rami, i nodi cedono nella
penombra che separa la notte dall’aurora.
Tutto ci pesa. Eccoci il ritorno,
in quel viluppo di aghi sotto le lenzuola.
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4. Nessuna nuova
Così pure cadiamo lenti
lentamente come morti ammazzati,
facendo cose quotidiane,
io cucinando paste buone, tu che cerchi un diversivo
per lo sporco più ostinato.
Qualcuno in sala ha parlato – senti?
raccontano storie anche loro,
hanno imparato in fretta, oppure ci sono nati.
Qui da noi ci sono nati. Lo dico da sempre.
I merli maschi schioccano tra gli ulivi
per i crampi della fame
tutto ha bruciato il gelo delle nevi,
la terra corrugata non li mantiene.
Nessuna nuova in primavera
sui muriccioli degli orti. Altri dalla
vergogna sono volati a sud.
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5. Guazza/ Rugiada
La nengua s’è sciolta, c’è ‘rmasa la guazza
un palmo de tera cullosa
du fiori sporcadi de malta.
Le scole riapre, la fila s’engrossa
de fronte la chiese c’è ‘l morto,
niusciù che se chiede
‘ndo riva la gioia, ‘ndo more la stizza
e fenisce ‘l dolore.
La nengua s’è sfatta, c’è ‘rmasa la porta,
ce passa davanti un cà vecchio e ce piscia,
te spetto finanta
che ‘l prete nun bussa.
La neve si è sciolta, c’è rimasta la rugiada/ un palmo di terra collosa/ due fiori sporcati di fango/ Le scuole riaprono, la fila s’ingrossa davanti la chiesa c’è il morto/ nessuno che si chieda dove arrivi la gioia, dove muoia il rancore/ e finisca il dolore/ La neve s’è disfatta, c’è rimasta la porta/ ci passa davanti un cane vecchio e ci piscia/ ti aspetto finchè il prete non bussa.
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8. Variazione sul tema
La buccia mangiata con il succo, la medicina
nel cucchiaio, la colla vegetale delle buste
sono amare.
La fila delle auto col motore
acceso, la nuvola di fumo bianco-grigio,
la vita di paese sono amare.
La notte dormita con un occhio, la mano
che si posa sullo zigomo,
la porta di casa che si apre
sono amare.
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14. La cruna
Ha questa forma
il lunedì di fine agosto,
lo spiazzo slabbrato dalle mareggiate
dove s’infilano i cani e la gente del nord.
Qualcuno dice che nulla
sarà come qualche tempo fa,
neppure si potranno fare bagni
illimitati, o stare bene.
Ci resta quella settimana
che vivevamo da bambini tremando,
filtrando dalle finestre uno spillo di frescura.
Anche il mare si allontana dalla rena,
la cruna del mezzogiorno è spalancata,
smisurata la conta delle onde.
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16. Chiusura in tre mosse
I
Acre la plastica sa di saliva
hai contato le volte che
ho detto basta e dopo questo c’è la morte,
il lungo sonno delle sedie vuote.
Ora mangiano gli avanzi
di quella sera, l’unto
amaro che galleggia sul piatto,
la crosta del formaggio andato a male.
Andato al male.
II
Adesso non ti dirò le paure
che ormai non potrai più sapere.
Mi curverò come un molo del nord,
sarò il cemento di questo ponte bianco,
la vertigine delle cicogne a collo torto.
Poserò un contrafforte all’ingresso,
un argine di contenimento
al tuo ritorno
tra gli odori della cucina e della pelle
appena lavata, di amuchina.
III
Presto sputerò la buccia dei lupini,
la tua buccia bianca e amara
e berrò del vino rosato fresco
ad altre latitudini, per altre lingue che non ti sei
mai messa ad imparare;
vorrà dire che non sarà più possibile parlare
come quando si faceva giorno dopo l’amore,
come due corpi massacrati.
17. Punti di vista
Guarda la porta, la sua forma
guarda la luce che filtra
l’umidità che sosta, guarda la soglia
e la serratura. E’ tutto una menzogna,
un’impostura chiamare nostro tutto
quello che è dentro casa
o nel quartiere, o nel paese, lo spazio
che ci tiene fermi, le voci nel cortile.
A queste ore, nel ronzio degli apparati
di una casa medio borghese, si posa
la polvere che con la luce vediamo
sostare e ci molesta
spostarla e basta, senza poterla comandare.
Pensiamoci bene prima di tornare
il giorno dopo con i cenci delle lenzuola
o la stoffa dei vestiti andati a male.
La luce non nasconde ciò che indomito di natura.
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Dalla plaquette in tiratura limitata: Lunga un anno, con illustrazioni della pittrice Linda Carrara, Sigismundus, 2013.
Immagine di Linda Carrara
c’è qualcosa di straziato / c’è qualcosa di ricomposto, definitivo, nella poesia di Accattoli, ed è bello questo impasto
da segnalare anche il bel video di presentazione del suo poetry-set: http://www.youtube.com/watch?v=0Zp2YzBhIuc
Una traiettoria in linea retta “sotto” la coltre. Le differenze (alcune) e i crepare di (schianti): licenziate poeti. Viluppo: “Così pure cadiamo lenti” brivido di-verso; come j-d-m (tra) “diversivo” e “detersivo”, tiene svegli la notte. Cartello da spiaggia: “Spiazzo slabbrato per bagni illimitati in mare allontanato dalla rena. Vietato contare le onde”. Se il formaggio va al male, il male dove va? A-muchina. Il grande massacro dei corpi. E anche i vestiti vanno a male nelle case medio borghesi.
Bella e originale la poesia di F. Accattoli: racconta il vivere con una punta di amarezza, ma con molta misura. Bello anche il contesto: “La luce non nasconde ciò che indomito di natura”.
Grazie per la proposta,
Rosaria Di Donato
Come dice Renata : qualcosa di straziato. Eppure, La neve s’è disfatta, c’è rimasta la porta – e dove c’è porta non è finestra, non il compiere del salto ma il compiersi, o forse il tentativo dell’argine : un “contentimento”, “la buccia dei lupini”.
Molto belle, Francesco.