Se me li sono persi: “Coro” di Giuliano Gramigna
di Eugenio Lucrezi
GIULIANO GRAMIGNA, Coro, Campanotto editore, Udine, 1989
Ha scritto Giuliano Gramigna: «Mi piace più pensare ad una poesia come luogo, aperto a mo’ di ombrello là dove non c’era nulla, che ad una poesia come organismo vivente, come macchina bene temperata. Intanto c’è il vantaggio che ci si può camminare dentro… ». Se rappresentare significa restituire a mezzo della scrittura lo spessore dimensionale della realtà nella sua trionfante pienezza, allora l’argomento di questo libro – terzo di poesia di uno scrittore che è anche importante romanziere e prosatore – è l’impossibilità della rappresentazione.
Camminare entro il luogo della poesia, muoversi entro la dimensione una di una superficie percorribile è il corrispettivo psicologico e scritturale di questa impossibilità: la destrutturazione dell’io, la disarticolazione del soggetto comportano la perdita di numerosi pezzi di sé abbandonati alle spalle in una lunga scia tortuosa. Il territorio della poesia si configura così come una superficie disseminata di reperti o indizi antropologici sparsi in un paesaggio naturale. Il presente nella sua realtà sensibile, storica ed esistenziale, viene attaccato, in questo luogo aperto, da ogni lato: la malattia, la nevrosi, la vecchiaia, la morte stessa nelle sue molte prefigurazioni irrompono sulla pagina con la furiosa evidenza di tristi allegorie: «Musi di erinni erompono / da un rosone che si screpola da un / foglio scombiccherato a macchina / o da una firma dove non riconosce / più la sua mano». I guasti del presente e la sfiducia nelle possibilità d’ordine del discorso sembrano ricacciare questa poesia – ma vedremo che si tratta di uno spostamento strumentale – nei territori della memoria, praticati da Gramigna instancabilmente.
In omologia con quanto osservato dagli studiosi di embriologia a proposito dell’ontogenesi che imita la filogenesi – con ciò intendo che ogni organismo vivente nei successivi momenti del proprio farsi ripercorre in accelerata sintesi i faticosi aggiustamenti della plurimillenaria vicenda evolutiva caratteristica della specie alla quale appartiene –, in omologia, dicevo, con queste imperscrutabili avventure biologiche, e sotto la spinta della medesima oscura necessità, in Gramigna ha memoria individuale si veste delle figure storico-mitologiche che improntano la memoria collettiva della civiltà occidentale, con effetti di rinforzo allegorico e di immediato risalto sulla pagina. Ecco dunque che «In Salamina arrivano i Persiani. / I loro cani pensierosi gli elmi / forati dal lichene. Sottile membrana imene / separa da quel nodo o parola». Ecco comparire «il vecchio Edipo che traballa sui piedini forati». Più avanti «viene Didone la bella / la bionda – se è stata tale – / […] / … C’è / lo spazio d’un capello // tra lei viva e lei morta; / fra il nome e / il vuoto che la porta». Si tratta di un repertorio disomogeneo e frantumato, instabile e fluttuante come un sedimento agitato dalle onde; repertorio che il nostro – autore radicalmente moderno, lontanissimo da tentazioni mitografiche – usa come strumento di elaborazione fantastica del suo argomento poetico, quella malattia del presente di cui dicevamo, all’interno e nei dintorni della quale questo libro non si stanca di indagare. Ne risulta una scena affollata e animatissima, sulla quale l’io destrutturato si fa attore ed interprete grazie alle pluralità prospettiche rese possibili dalla sua stessa disarticolazione: voce per eccellenza plurale di questo teatro è il coro, dramatis persona capace, come in un gioco di specchi deformanti, di moltiplicazione e di mutazione fisiognomica: «… il coro dei vecchi / […] / … – coro fatto a pezzi dalle cagne… / Qualcosa articolerà a caso qual cosa andrà a dire dentro un verso zoppicante. / Che non si arriva a finire / nemmeno il coro delle furie? che non si completa / nessuna parola incominciata?».
*
(da: “Altri termini”, IV serie, n°1, settembre-novembre 1990)
“che non si completa / nessuna parola incominciata? ” mi sembra cogliere pienamente l’obiettivo, grazie, V.
Un libro può fare molto per arricchire l’apparato concettuale e critico di un lettore e di un altro poeta. Con Gramigna, è proprio quello che succede a Lucrezi, che tocca profondità inedite e inusuali per gli standard critici attuali, oltre a stimolarci a leggere libri che il ron ron dei nostri tempi mediocri cancellano o ignorano. Come davanti a un monocromo di Manzoni, tutto bianco, c’è solo da essere liberi ed essere: le parole di Lucrezi e il libro di Gramigna sono un’esperienza tutta da vivere, e non c’è molto altro da dire. Un sentito ringraziamento a Eugenio.
commentaire o comment taire?
non è facile trovare, oggi, una tale capacità di penetrazione nei libri di autori ormai canonici
tocca profondità inedite e inusuali per gli standard critici attuali
Stimolanti le osservazioni di Lucrezi: mi suggeriscono un camminare oltre la veste a volte succinta, inadeguata, della parola. “Il territorio della poesia”, “superficie disseminata di reperti o indizi antropologici sparsi in un paesaggio naturale”, è territorio che apporta al nostro orecchio echi ancestrali, a noi connaturati. E’ territorio collettivo. Grazie, Eugenio
ketti
Il mio amico Nino Contiliano mi chiede di pubblicare un suo commento, che segue.
Questo intervento di lettura spinge a condividere puntualizzazioni e spiragli. E ciò lì dove “I guasti del presente e la sfiducia nelle possibilità d’ordine del discorso” aprono sia al rifiuto del discorso all’interno dello spazio-tempo storico in crisi, sia ad aprirne le maglie ricorrendo all’allegoria; e ciò per dire che c’è la possibilità reale di un dire-altrimenti, camminando nello spazio-luogo ad “ombrello” della memoria e tra i “frammenti” e i “reperti” della ricognizione stessa. Qui la “destrutturazione” dell’io è al tempo stesso corale “pluralità prospettica” (il “coro”…non era una volta l’idea del poeta che una voce collettiva – nel teatro – si incaricava di comunicare al pubblico?).
Individuare lo spazio allegorico e dichiarare l’impossibilità della rappresentazione è invitare ad una poesia come pensiero critico.
Antonino Contiliano
Molto interessante il registro da trattato di medicina di questa recensione: “l’ontogenesi che limita la filogenesi”, “la malattia del vivere”, “la disarticolazione del soggetto”.
Molte grazie a Eugenio, capace come pochi di risvegliare attraverso la critica l’interesse verso la migliore poesia, anche da parte dei più giovani. Mai autoreferenziale, ben ancorato alla coscienza del proprio tempo. La prossima sfida potrebbe essere quella di scrivere di un poeta che non gli piace.
avevo scritto nella recensione a CORO, nel ’90 o giù di lì, che l’ontogenesi imita la filogenesi; leggo nel tuo commento, emmanuel, che la limita; ed il refuso, in effetti, non dice una inesattezza, se è vero che il processo di formazione embriologica di un individuo appartenente ad una determinata specie è costretto, nelle sue potenzialità di espressione biologica, da limiti intrinseci alle griglie genomiche proprie di quello specifico patrimonio che il tempo evolutivo ha selezionato; quello e solo quello; che però è diventato tale a forza di errori: ché se non ce ne fossero, nessuna specie esisterebbe perché non esisterebbe cambiamento. anche la lingua esiste nelle sue griglie e nei suoi perimetri; anche la lingua però è vivente solo nell’errore; massimamente la lingua letteraria, che è in pratica un solo, gigantesco, refuso. un vizio inveterato e un irrisolvibile equivoco. per quanto riguarda, poi, i poeti che non ci piacciono… sono quelli che ci irritano, e dunque gli stessi che ci piacciono.
nella risposta precedente dimenticavo di precisare che il refuso ‘l’ontogenesi >L<imita la filogenesi' va capovolto per assumere il significato che gli attribuisco.
senza capovolgimento non ha senso (un qualche significato ce l'avrà di certo anche così com'è, il refuso; se ci si vuole togliere lo sfizio, lo si trova…)
Ed ecco appunto che da un refuso ho imparato come l’unico modo per sfuggire ai limiti delle griglie genomiche sia fare errori. O almeno credo.
l’errore è tutto non solo in questo caso. 65 mln di anni fa un asteroide grandetto impattò il pianeta terra. errore e disgrazia. estinzioni di massa. ma quello era il mondo dei sauri e l’evoluzione aveva preso, forse, un vicolo cieco. errore e disgrazia selezionarono mammiferetti più piccoli di un topo, da cui si sono evoluti balene e pipistrelli, opossum e giraffe.