Dialoghetto su tre libretti (di poesia)
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“Questo è l’accendino.”
“E questa è la sigaretta.”
Andrea Inglese vs. Andrea Raos
Parte prima. Andrea Raos
AI. Ricordo che mi passasti un fascicolo di fogli A4 stampati e quel fascicolo era Lettere nere. Ci trovavamo entrambi a Parigi, e allora mi sembrava un libro impregnato di tutto il bello e il brutto della città: la sua energia spesso anarchica e incontrollabile, le notti alcoliche, gli appartamentini da cui traslocavi con una certa frequenza, le pile di libri e CD che divoravi continuo, i personaggi completamente pazzi che sembravano darci appuntamento in ogni festa o bar dove sbarcavamo, le storie d’amore, che a Parigi andavano in pezzi con una teatralità tutta particolare… Oggi ti sembra che c’entri qualcosa quella città con Lettere nere (Milano, Effigie, 2013)? Forse sei riuscito a dissolverla sullo sfondo, a neutralizzarla quasi completamente?
AR. Sì.
AI. Ammetto di non aver capito Lettere nere la prima volta che l’ho letto, circa dieci anni fa. O meglio, non ho capito che non era soltanto un libro strano, bizzarro, in cui avevi rovesciato delle tue peculiari ossessioni, ma era un libro che preparava una strada, che scandagliava qualcosa di ancora ampiamente estraneo, per risultare dieci anni dopo molto più familiare. Lettere nere mi sembra scritto come dovrebbe essere scritto un libro oggi, per avere davvero forza e impatto sul lettore. Quando lo lessi la prima volta mi apparve come un affascinante esperimento, forse però fine a se stesso, esagerato… Oggi mi sembra che una minore libertà, per un libro che viene scritto nei dintorni della poesia, sarebbe uno spreco, un’occasione mancata. Chi avevi, in mente, quando hai iniziato a mettere tutta quella prosa? Credo che l’unico esempio per noi significativo allora fosse stato Esercizi di tiptologia di Magrelli, che era uscito nel 1992. Ti hanno sollecitato degli autori francesi allora?
AR. Generoso da parte tua dire di non avere capito il libro, ma con il senno di poi siamo bravi tutti. La realtà è che io per primo, all’epoca, non avevo la più pallida idea di cosa stessi facendo. Tutto ciò che avevo pubblicato allora era il piccolo libro uscito nei Quaderni curati da Franco Buffoni, composto da poesie tutto sommato “tradizionali”, e sentivo che, se lo avessi voluto, la mia strada per gli anni successivi era già tracciata. Penso che ricordi anche tu quanto, in quegli anni, le possibilità fossero assurdamente ristrette: in sostanza si trattava di decidere se scrivere in verso libero o in metrica regolare (da poco tornata di moda). Tutto il resto veniva da sé, nella felice rimozione di tutto ciò che non fosse da un lato il lirismo “eterno”, la più autocompiaciuta falsa coscienza, e dall’altro il babau ritagliato nel cartone del Gruppo 63. Si trattava, in altre parole, di scelte esclusivamente formali, ma fondate al tempo stesso su una completa incoscienza (anche nel senso di irresponsabilità) della forma stessa. Doveva arrivare Giuliano Mesa per far saltare questo nodo, ma non c’è spazio per parlarne qui. Di autori francesi contemporanei non sapevo praticamente nulla. Internet non esisteva, il tempo di andare per biblioteche o alle letture non l’avevo perché lavoravo, e soldi meno di zero. Ero diventato abbastanza bravo a fregare libri alla FNAC, ma non bastava. Semmai, andavo scoprendo quello che secondo me è alla base anche del loro lavoro: la bellezza della prosa non narrativa o “non finalizzata”. Se ti cito i primi esempi che mi vengono in mente, due libri abbastanza diversi fra loro come quello di Bloch sui re d’Inghilterra (o in generale tutto Bloch, tutt’oggi uno dei miei scrittori preferiti) e il memoriale di Althusser scritto dopo l’omicidio della moglie (che in Lettere nere è citato direttamente), spero si capisca cosa intendo.
AI. Mi sembra che in definitiva quello che emerge come elemento unificante di questo libro, e che appare forse più evidente, ma anche più elaborato nelle Api migratori, è questa percezione dell’io, di un io fortemente chiuso, autocentrato, che si sporge continuamente su di una sorta di abisso cosmico. C’è una specie di continua corrente cosmica che strappa il piccolo petulante io dal continuo analizzare e sistematizzare. Di colpo prende senso il tuo manierismo estremo che deve realizzare questi sfondi vertiginosi, queste esplosioni, che premono ad ogni lato sull’io e lo nullificano. Quello che viene spazzato via sembra essere il quotidiano, la riconoscibilità degli oggetti, delle circostanze ordinarie, e anche per certi versi la storia…
AR. Tornando a Tradate dal Giappone per il funerale di mio padre, l’aereo sorvolava la Russia e ricordo che passai ore a guardare dal finestrino queste immense distese vuote, solcate da fiumi di ghiaccio che sembravano enormi serpenti addormentati. Così, la tua immagine della “corrente cosmica” mi piace molto. Lettere nere credo sia un lento slittamento dal guardare dal finestrino dell’aereo all’avvicinarmi ai fiumi ghiacciati, fino a diventare quei fiumi e poi chissà cos’altro ancora.
Il termine “manierismo” invece non mi piace per niente. Mi sembra che tu lo intenda nel senso di uno “sfoggio di tecnica”. Ma io delimito spazi – o, nei casi migliori, li invento – come se tracciassi una finestra nell’aria e poi guardo cosa vi passa davanti, attraverso, dietro. E al tempo stesso vengo a mia volta guardato, o attraversato, o ignorato, o mille altre cose ancora che non sempre sono in grado di prevedere e che di rado pianifico. Dunque scrivo per creare uno spazio adeguato a questo, non certo per dimostrare qualcosa a qualcuno – tantomeno a me stesso.
Quanto al “quotidiano” e alle “circostanze ordinarie”, non vorrai farmi credere che a te non è mai capitato, nel corso di un apericena come tanti, di veder spuntare delle piccole fiammelle da dietro a una fila di bambole poggiate su un mobile, a casa di una bulgara elegantissima e ciarliera… Sono cose del tutto ordinarie, dai.
In ogni caso, sulle figurazioni dell’io in poesia l’esperto sei tu e di questo, oltre che del tuo rapporto sottotraccia, mai vanamente esibito ma proprio per questo ancora più tenace, con la poetica di Gregorio Scalise, vorrei parlare con te nella prossima puntata di gammmatica. Se Agnese [editor de l’immaginazione – N.d R.a.D. / Nota di Raos al Dialoghetto] non ci manda al diavolo prima…
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Parte seconda: Andrea Inglese
AR. Ho l’impressione che il Commiato da Andromeda (2011) abbia rappresentato un punto di cesura molto forte nel tuo lavoro. Secondo me nel tuo lavoro ci sono un prima e un dopo il Commiato; e Lettere alla reinserzione culturale del disoccupato (Pequod, 2013, AKA Il Disokkupato) e La grande anitra (postfazione di Cecilia Bello Minciacchi, Oèdipus, 2013 AKA L’anatrone) mi sembrano appartenere indiscutibilmente al dopo, non solo per gli ovvi motivi cronologici. In te è stato vivo per molti anni l’apparente paradosso di un lavoro creativo incentrato principalmente sulla poesia e di uno critico incentrato invece sul romanzo – almeno finché l’elaborazione collettiva di Prosa in prosa non ha cominciato a far saltare gli argini. La mia prima domanda è un semplice invito a elaborare queste mie osservazioni sullo sviluppo del tuo percorso fino a questi ultimi due ultimi libri. Unica contrainte: prova a farlo senza citare Ponge.
AI. (All’assillo Ponge si è momentaneamente sostituito l’assillo Castoriadis. Spero di riuscire a citarlo almeno una volta.) Non so se abbia senso ricostruire una sorta di sviluppo, che faccia convergere l’attività di poeta e l’attività di teorico del romanzo. La passione che tutt’ora ho per il genere romanzesco e per le forme brevi di narrativa costituisce un’esperienza centrale nel mio modo di concepire la scrittura. Non potrei probabilemente dare tanta importanza a un testo poetico, se non avessi amato, e incluso nella mia visione del mondo, libri come Sotto il vulcano, Lolita, Corporale o L’uomo senza qualità. Credo nella specificità dei generi, non dettata certo da convenzioni puramente arbitrarie, ma credo anche in qualcosa dai confini più incerti, che da qualche secolo chiamiamo letteratura, e dentro questa cosa le scritture narrative, drammaturgiche, poetiche e anche saggistiche sono in costante dialogo.
AR. Il “paesaggio” del Disokkupato è immerso in una luce attonita, in cui è ricorrente lo stupore dell’essere ancora vivi dopo la catastrofe: “Eppure esisto // in questa svagata salute, ancora una volta, / facendo fede ai miei polpacci, / ai due calcagni, alle unghie che crescono, / io esisto: [p. 7]”, oppure “Sono guarito troppo, non faccio / che continuare, sotto i tuoi occhi, a guarire: [p. 22]”, o ancora “non destinato, dunque / all’amore, se io ben ricordo / (della morte il ricordo è buono, dell’amore / molto meno) [p. 17]”. Per inciso, in questi ultimi versi, mi piacerebbe anche sapere cosa intendi di preciso con “ricordo della morte”. Più in generale, io vedo il Disokkupato come un passo verso il distacco dalla “poesia” (distacco segnato già dai titoli di questo libro e del successivo, non poco strampalati per la media nazionale) e in direzione di strutture formali inquiete, molto lontane dalla concentrazione estrema di un libro come La distrazione, che tutto è meno che distratto…
AI. In effetti a partire da due libri scritti (soprattutto) in prosa, Quando Kubrick inventò la fantascienza (2010) e Commiato di Andromeda (2011), vi è stata una svolta. Questi testi hanno scardinato qualcosa anche nel mio modo di concepire la scrittura poetica. Li considero dei gesti di libertà, in qualche modo irriverenti, ma non nei confronti dei possibili lettori, ma irriverenti nei miei confronti innanzitutto. Ho bruciato e sfigurato un po’ di idoli interni, di super-io stilistici. Ho avuto bisogno di passare in modo più risoluto dalla parte dell’idiozia. Tra i tanti libri che mi hanno aiutato in questo senso, uno ha avuto un ruolo un po’ illuminante: Toute ma vie j’ai été une femme di Leslie Kaplan. Forse ho trovato il mio modo di praticare quello che gli amici di GAMMM hanno spesso definito “la non assertività” dell’enunciato poetico. Quando ho terminato le Lettere sentivo perfettamente di aver perso per strada quella compattezza e quella concentrazione, che mi sembravano i maggiori obiettivi raggiunti con La distrazione. Una specie di sottile ma abissale scarto ironico distanzia ora il soggetto dell’enunciazione dai suoi enunciati. E uno dei temi dominanti delle Lettere è poi l’impossibilità di “dire la verità”, non solo in senso assoluto, ma semplicemente rispetto a noi stessi, alla piccola nostra biografia. E anche se sapessimo dirla, la verità, essa non ci servirebbe a nulla. Questo è quanto sperimentiamo, almeno, nelle vicende a volte strazianti delle relazioni amorose. Concludo sui versi “(della morte il ricordo è buono, dell’amore / molto meno)”. Intendo dire che tutti abbiamo in mente la nozione della nostra mortalità. Ce l’hanno inculcata contro la nostra inesperienza e la nostra presunzione di eternità. Le nozioni relative, invece, a un destino d’amore – qualsiasi cosa ciò voglia dire – appaiono paradossalmente un dato interno – un “ricordo” – meno certo e chiaro.
E adesso arriva il DOMANDONE
A.R. Nell’Anatrone, invece, non tanto qualcosa che non è più poesia e non è ancora prosa (come nel Disokkupato e nella sua appendice, Le circostanze della frase), quindi non tanto una questione di come dire quanto, mi sembra, una più generale sfiducia nei confronti del discorso “autentico”. Non che tu ci abbia mai creduto senza riserve, non ti faccio così ingenuo, ma io nell’Anatrone vedo impostata una radicale sfiducia nella possibilità del discorso lirico: i tre inverosimili personaggi, del tutto non comunicanti, nessuno “vero”, ma anche nessun cedimento alle cazzatine da raccontatori di storielle e alle loro raccapriccianti maschere di carnevale; un verso pericolante e una prosa in macerie – l’assurdità di quei quadratini… -, l’apparizione in estremo del “continente spettrale” che resta lì come una minaccia cosmica… Nei dettagli del libro non entro perché c’è Cecilia Bello che li mostra nella postfazione – per inciso: che sensazione di sollievo, un critico letterario a cui non è indispensabile spiegare proprio tutto. Però vorrei dire questo: io sempre più spesso, ormai quasi tutte le mattine, mi sveglio mosso dalla sensazione opprimente, acidula come latte cagliato, di avere sbagliato davvero tutto nella vita. E questo mi muove sbandato come un manichino che rotola giù dalle scale. È qualcosa di così sottile da non sembrare quasi nemmeno dolore, e che del senso di permanente catastrofe che era normale fino a qualche anno fa in parte è l’eco e in parte nemmeno questa – uno spalancarsi su un abisso nuovo, del tutto muto e quindi ancora più spaventoso. Forse anche perché in qualche modo indipendente da ciò che nel concreto è stato fatto ed è accaduto. Forse è a questa ineludibile “prova del reale” e del tempo che corrode che l’Anatrone si sottopone, con tutti i rischi del caso. Forse è anche questa la radice della difficoltà di cui mi parlavi, nello scrivere adesso il libro su Parigi. Forse l’Anatrone è questo impossibile. Che ne dici?
A cui segue il RISPOSTONE
A.I. Nella Grande anitra, la sfiducia di cui tu parli, e che era già presente nelle Lettere, si è in qualche modo cronicizzata. Ma questa specie di scetticismo e sfiducia non mi ha portato verso lidi “sublimi”, come se bisognasse sfuggire alla volgarità e alla menzogna attraverso un lavoro certosino, esoterico, sulla parola. Al contrario, mi aperto la strada del buffonesco e della narrazione. Sorrido, quando in Italia si parla di poesia narrativa, perché mi sembra che si voglia alludere a una poesia che presenta personaggi, le cui vicende si svolgono nel tempo, ecc. Questo va benissimo, ma risponde a una concezione molto ristretta di quanto si può intendere per narrativa. Naturalmente ci sono tanti esempi che vanno in altre direzioni. Uno che mi viene in mente è un libro molto bello di Mariano Baino, che s’intitola Pinocchio (moviole), uscito per Manni nel 2000. Anche lì vi era una riscrittura, magari post-moderna, ma di quel post-moderno critico di cui appunto parlavano all’epoca gli animatori della rivista Baldus. Per me, introdurre una dimensione narrativa in poesia non significa introdurre semplicemente personaggi, episodi, temporalità, ecc., significa introdurre quello spaesamento dei tempi e delle voci, che si ritrova in Beckett, l’idiozia che si ritrova in Gombrowicz, l’attitudine anti-mimetica di un Robert Pinget, ecc. Insomma, il continente è vasto e multiforme. Nello specifico, poi, La grande anitra presenta una situazione vagamente narrativa, che è incapace però di svilupparsi appieno. Vi è una sorta d’intoppo. Ritornando sulla questione della verità, intesa come “verità lirica”, ossia quella capacità del soggetto che enuncia, di produrre un enunciato che, in qualche modo, faccia senso rispetto alla sua esperienza, riscattandola dall’insensato, o dal banale, ebbene l’introduzione di tre voci, tre personaggi e tre conseguenti libri spiazzano qualsiasi tentativo fare corpo, come soggetto che scrive (parla) con uno qualsiasi degli enunciati del libro. In tutto questo, ciò che m’interessa di più è semmai la “verità architettonica” , ossia l’intenzione che guida la messa in opera dei personaggi, dei singoli libri e dei dispositivi di scrittura che li hanno prodotti. (Detto al volo, è poi qui, in questa articolazione tra “enunciati” spersonalizzati e “architettura” che nasce dall’intenzionalità dell’autore, che andrebbe ripensata la questione dell’oggettivismo in poesia, di cui finalmente si comincia a parlare oggi.) Fondamentalmente l’Anitra è un continuo cortocircuito tra utopia, distopia e contro-utopia. È una sorta di esperimento su questi materiali culturali che hanno portata antropologica e storica. Certo, un piccolo esperimento, nulla di saggistico o di pretenzioso, ma è un confronto con questi sfondi collettivi, che influiscono comunque sulle nostre singole vite e soprattutto sulle nostre psicologie spicciole. I tre personaggi del libro, in fondo, sperimentano tutti i paradossi di una fuga dal mondo, che può essere regressiva o rivoluzionaria, ma sono assillati da questo situarsi altrove rispetto alla realtà attuale.
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[Salvo il DOMANDONE e il RISPOSTONE, il dialoghetto è apparso nella rubrica “gammatica” su “l’immaginazione” n. 279, gennaio / febbraio 2014, e n. 280, marzo / aprile 2014]
meravigliosi (x2)
quoto fiorletta
Compare Mariano, così che pennuto è quasi chiamato da pennuto. Se la funzione Ponge è superata, ti risupererà.
insomma, per forgiare il libretto giusto dell’opera nutrendovi di geroglifici avete fregato pure Anubi nella città della luce
https://www.youtube.com/watch?v=QrzGpVOPcTI
Dopo la mia giornata di lavoro, con la scarsa intelligenza che mi resta, sento l’importanza del dialogo.
E’il paesaggio della poesia.
Il poeta è nel centro della vita artistica.
Leggere una poesia è toccare al cinema, alla danza, al fumetto.
Quando si scrive la poesia si scrive il corrente, la vita selvatica.
Vedo la poesia come stato selvatico. Visione personale.
La poesia di Andrea Raos mi sembra (nella mia lettura) una poesia della catastrofe umana.
La poesia di Andrea Inglese mi sembra più politica o sociale.
Forse mi sbaglio.
Grazie per il dialogo. E’un bel regalo.
ma che belli!!
[…] https://www.nazioneindiana.com/2014/10/01/dialoghetto-su-tre-libretti-di-poesia/ […]
https://www.youtube.com/watch?v=wI57fNapXpI
BELLISSIMI!
Ai prossimi EMA? ;)
clap clap clap
(un anatrone quasi disoccupato)