Il treno della storia
[Ringrazio Nori e la Marcos Y Marcos, che mi hanno permesso di presentare qui uno stralcio di un libro molto bello uscito quest’anno e intitolato Si sente?. Tre discorsi su Auschwitz. Nori prende le mosse dalle celebrazioni del Giorno della Memoria, per una riflessione divagante intorno alla storia, e alle responsabilità di ognuno, all’interno di essa, dai carnefici del passato agli officianti di oggi dei riti laici della memoria. a.i.]
di Paolo Nori
E noi, come se fossimo tutti agli ordini di quella voce lì, quel giorno lì ci ricordiamo della shoah. E ne parliamo, siamo qua per quello no? E andiamo ad Auschwitz, che va benissimo, ma il fatto che non sia una decisione che ciascuno di noi ha preso per conto suo, ma che abbiamo risposto a una specie di ordine, e di permesso, a me fa venire dei dubbi.
Cioè è come se noi fossimo un po’ al servizio di qualcuno, che si può chiamare, adesso sono argomenti enormi, però siamo qua per quello, per parlare di cose enormi, oggi abbiamo il permesso di parlare di cose enormi, e allora, scusatemi, io lo uso, è come se fossimo al servizio di qualcuno, o qualcosa, che si può chiamare: la storia.
Che quando succede, nel presente, adesso è una banalità, uno quando è dentro la storia, non se ne accorge, della storia. È come uno che vive di fianco alla ferrovia, i primi giorni non riesce a dormire, ma basta poi poco, qualche settimana, dopo qualche settimana non lo sente neanche, il rumore dei treni.
Il rumore dei treni, per lui, non esiste. E così, per noi, la storia, la storia a noi contemporanea, noi è come se abitassimo tutti in un appartamento al settimo piano che dà su uno snodo ferroviario ma ci abitiamo da tanto di quel tempo che se ci chiedono «Ti dà fastidio, il rumore dei treni?», ci vien da rispondere «Il rumore dei treni? Che rumore? Che treni?»
Questo non vuol dire che i treni non facciano rumore.
E non vuol dire che a concentrarsi, a tendere l’orecchio, come si dice, non si senta, quel rumore, il rumore che il treno della storia fa in questo preciso momento che noi siamo qui.
Non so, io, per esempio, l’anno scorso, quando ho fatto questo viaggio, mi ero appena accorto di un rumore di un treno che c’era sotto casa mia già da qualche anno, ma che era un treno che io non avevo mai individuato bene, lo confondevo, c’è un traffico, come si sa, il traffico ferroviario, a Bologna, e anche a Borgo Panigale, che è il posto dove abito io, in periferia, ma c’è anche la stazione ferroviaria, a Borgo Panigale, e c’è anche la fabbrica della Ducati, ma questo non c’entra, oggi c’è un traffico, come si sa, di treni, sia regionali, che interregionali che intercity che eurostar adesso hanno messo anche l’alta velocità, la freccia rossa, che è un treno che una volta, io, arrivando a Bologna con un interregionale proveniente da Parma, l’ho trovato fermo in attesa di entrare in stazione gli siam passati davanti noi poveretti dell’interregionale, eravam d’un contento, su quell’interregionale lì, le soddisfazioni dei poveretti, che si pagheranno con gli interessi negli anni a venire per esempio col fatto che le prossime volte che ci toccherà andare a Roma, o a Milano, o a Firenze, ci saran solo frecce rosse o come si chiamano, che anche lì, la freccia rossa, che fantasia, con i nomi, la freccia rossa tra l’altro era il nome di un treno notturno di lusso che collegava Mosca a San Pietroburgo che lì, almeno, l’Armata rossa, la piazza Rossa, un senso ce l’aveva, qui meno, mi sembra, ma lasciamo perdere.
Ecco io l’anno scorso, dicevo, mentre stavo facendo questo viaggio, mi ero appena accorto di una cosa che durava da degli anni ma che io non avevo mai individuato bene per il suo verso.
Cioè io mi ero accorto che l’anno scorso, in Italia, c’era pieno di gente che quarant’anni fa era atea e comunista adesso eran diventati cattolici, avevo pensato.
Io, non lo so, ho pensato, se trovassi qualcuno che quarant’anni fa era cattolico e adesso è ateo e comunista, sarei curioso di andarci a cena insieme, con uno così, invece non esco mai di casa, praticamente.
Ecco queste cose qua, praticamente, son cose anche belle, a guardarle. Cioè ci son delle conversioni, in questi anni, che a guardarle da fuori, dall’alto, dal settimo piano, son stupefacenti.
Della gente che te mai e poi mai avresti detto che fossero cattolici, scopri che ti eri sbagliato, eran cattolici. Della gente che fino a vent’anni fa in tutti i cortei ti sembrava di averle viste sotto le bandiere del comunismo, improvvisamente scopri che non erano loro.
O meglio, erano loro, ma allora, adesso no. Loro prima sì, andavan di lì, ma adesso no, vanno di qua. Han cambiato treno. Cioè non sono loro, che han cambiato treno, sono i treni che sono cambiati. Però, aspetta un attimo. Questa metafora dei treni, alla lunga non so se funziona. Mi sembra che si debba cambiare. Che è una cosa che un po’ mi dispiace perché i treni a me sono dei posti che mi piacciono molto. Io sui treni tra l’altro, se devo dire una cosa mia personale che probabilmente non interessa a nessuno, com’è giusto che sia, ma io sui treni, ho pensato in questi giorni, mi ci innamoro.
Io mi innamoro in assenza, sui treni, quei momenti che non riesci a parlare e hai dentro la testa uno spazio che ti vien da pensare che sarebbe bellissimo, e poi subito dopo, Ma cosa vai a pensare?, ti vien da pensare, e sono momenti che tu, come si dice, sei cullato dal treno, e son dei momenti che non te li dimentichi finché scampi, come leggere un articolo di Šklovksij.
Però la storia, ammesso che esista, e noi ammettiamo di sì, diversamente dai treni, io sui treni non è che mi ci innamoro per via di una particolare proprietà di quel treno, mi ci innamoro per degli altri motivi che adesso proprio non è il caso di specificare e non mi innamoro del treno, mi sto ingarbugliando, quello che voglio dire è che la storia, diversamente dal treno, ti fa far delle cose.
È come se ti piegasse ai suoi fini, ammesso che la storia abbia dei fini. È come se ti desse degli ordini, mi viene da dire. Il treno è, come dire, il movimento, il vettore, ma chi ti obbliga a andare su quel treno lì, mi viene da dire, è la storia.
Facciamo un esempio. Che poi era l’esempio che avevo in mente l’anno scorso quando ho fatto questo viaggio qua che faccio anche adesso.
Io allora avevo appena finito di scrivere un romanzo dove uno dei temi principali era il rapporto tra intellettuali e potere, tra storia e letteratura, si potrebbe dire, e si faceva l’esempio di una celebre telefonata tra Stalin e Pasternak.
Questa telefonata risaliva al 1933, e riguarda un altro poeta russo, Osip Mandel’štam, che in quell’anno, 1933, aveva scritto una poesia contro Stalin che faceva così:
Noi viviamo e non sentiamo più il paese, / I nostri discorsi non raggiungon dieci passi, / E dove c’è posto per mezza discussione, / Ti parlan sempre del montanaro del Cremlino. / I suoi ditoni sono grassi come vermi, / E le parole giuste, pesi di ginnasta, / I suoi occhiacci ridono / E i suoi gambali scintillano. // E intorno a lui della gentaglia fine di collo / Si trastulla con corvées da mezzi uomini. / Chi fischia, chi miagola, chi singhiozza, / Solo lui mazzuola e dà spintoni. / Come ferri di cavallo dà via decreti su decreti / Nell’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in faccia. / Ogni tormento è per lui una pacchia, / E ampio è il torace dell’osseta.
Questa poesia non era stata pubblicata, non credo fosse possibile, né immaginabile, nel 1933, pubblicare in Unione Sovietica una poesia contro Stalin, però Mandel’štam sembra che andasse da tutti i suoi conoscenti e gliela recitasse. Andava da un suo conoscente, da Anna Achmatova, per dire, e gliela recitava, poi rimaneva un po’ lì a sentire il silenzio che c’era e poi diceva: «Se lui lo sa, mi fa fucilare». Poi aspettava ancora un attimo, e scoppiava a ridere. Poi salutava, andava da un altro conoscente e la recitava. Poi aspettava un attimo, e poi diceva: «Se lui lo sa, mi fa fucilare». E scoppiava a ridere. E così via.
C’è una critica russa che si chiama Emma Gerštein che dice che nessuno dei conoscenti di Mandel’štam dubitava del fatto che se Stalin, il montanaro del Cremlino, avesse saputo di quella poesia lì di Mandel’štam, l’avrebbe fatto fucilare.
Quando poco dopo Mandel’štam venne arrestato, e quando si seppe che era stato condannato al domicilio obbligato in una piccola città, tutti pensarono che Mandel’štam era stato graziato, praticamente.
E pochi giorni dopo l’arresto di Mandel’štam, a Pasternak arriva una telefonata di Stalin. Pasternak va al telefono pensando forse a uno scherzo e invece al telefono c’è proprio Stalin, che gli dice che loro (il governo, probabilmente) stavano esaminando l’affare Mandel’štam, e che tutto sarebbe finito bene.
Poi Stalin chiede a Pasternak come mai lui, Pasternak, non si è rivolto a lui, Stalin, e non si è dato da fare per Mandel’štam. «Se io fossi un poeta» dice Stalin a Pasternak «e un mio amico fosse caduto in disgrazia, io avrei saltato i fossi per il lungo, per aiutarlo».
Pasternak è confuso, è comprensibile, non sa cosa rispondere, dice che non è che Mandel’štam sia proprio un suo amico. Stalin chiede «Ma è un maestro?»
Pasternak risponde «Ben ma, non è questo, il problema».
«E qual è il problema?» chiede Stalin.
Pasternak dice che gli piacerebbe parlare con Stalin, incontrarsi con lui.
«Parlare di cosa?» chiede Stalin.
«Della vita e della morte» risponde Pasternak, e Stalin dice «Credevo che lei fosse un grande poeta, invece è un grande mistificatore» e mette giù.
Adesso io di questa telefonata, non c’è naturalmente una sbobinatura, non c’è una registrazione, o se c’è non è disponibile, io ho fatto un riassunto delle molte versioni che di questa telefonata han circolato, le ho trovate in vari libri di memorie pubblicati in questi ultimi cinquant’anni, e queste versioni su certi dettagli sono discordi, ma sono tutte versioni di persone alle quali Pasternak stesso aveva raccontato la telefonata, e sono tutte concordi nel dire che Pasternak era molto malcontento di sé, delle cose che aveva detto e soprattutto di quel riferimento finale a parlare della vita e della morte, e che connetteva a questa telefonata il fatto di essere caduto in disgrazia presso Stalin (sembra che fino a pochi mesi prima Stalin considerasse Pasternak il principale poeta sovietico, e sembra che anche Pasternak avesse una buona opinione di Stalin, se è vero che pochi mesi prima gli aveva scritto, in una lettera pubblica, pubblicata sulla «Literaturnaja gazeta», che pensava a lui profondamente e accanitamente, come a un artista, prima di tutto).
Molti dicono che Pasternak piangesse, rievocando questa telefonata (Pasternak era molto sentimentale).
Ecco io poco più di un anno fa, ho sentito uno per radio, in Italia, che parlava di Sciascia, e diceva che Sciascia gli aveva detto che si era convinto a entrare in politica pensando alla telefonata di Pasternak a Stalin.
Una sera, aveva raccontato Sciascia, Pasternak aveva telefonato a Stalin e Stalin gli aveva chiesto «Cosa mi hai telefonato a fare?»
E Pasternak gli aveva detto «Per parlare della vita e della morte».
E Stalin, spaventato, aveva messo giù.
Allora adesso, io non voglio dire Sciascia, a me Sciascia per esempio quando scrive dei romanzi mi piace, e molto, è uno che è bravissimo per esempio a usar la punteggiatura, che non è una cosa facile, io adesso non voglio dire, a me però quando ho sentito questa cosa è venuto in mente Calvino, che negli anni cinquanta, quando era stato mandato dall’«Unità» a fare dei reportage dall’Unione Sovietica, aveva scritto che in Unione Sovietica la gente bevevan solo dei succhi di frutta.
Allora se consideriamo che in Russia, io ci son stato, ma non è necessario neanche andarci, basta conoscere il russo, si dice sempre che gli eschimesi hanno quaranta modi diversi di dire bianco, be’, i russi hanno quaranta modi diversi per dire ubriachezza, e dire che i russi bevon solo dei succhi di frutta è come dire che gli eschimesi davanti a casa han dei prati all’inglese e viene da chiedersi che bisogno c’era, di raccontar queste balle (e questa è, ufficialmente, una balla, anche Calvino qualche anno dopo riconoscerà che i russi bevevano, e che lui queste cose le aveva scritte così, per non far fare brutta figura all’Unione Sovietica).
Allora, la cosa che un po’ mi vien da pensare è questa qua: Stalin era un tiranno, come dice oggi la storia, Pasternak era un grande poeta, come dice oggi la letteratura, allora a Stalin oggi bisogna sputargli in faccia sempre e comunque, Pasternak sempre e comunque elogiarlo.
E, io non lo so, ma chi oggi la pensa così, secondo me sessant’anni fa avrebbe sempre e comunque elogiato Stalin e sempre e comunque sputato in faccia a Pasternak. Perché allora era quello che diceva la storia, e la letteratura.
E allora bisogna poi stare attenti. Cioè secondo me il rischio è di trasformarci tutti in strumenti. Delle belle vanghe. Belle luccicanti. Son molto utili, le vanghe.
Che adesso io non lo so, ma pensateci, c’è qualcuno di voi che nel 1940 si sarebbe preoccupato degli ebrei? Ecco, quei due o tre che se ne sarebbero preoccupati, ma preoccupati veramente, dico, son delle persone, gli altri, che siamo qui, siamo tutti delle vanghe. Perché quello che ci muove a andare a visitare i campi di concentramento oggi, quella cosa che sta in alto, e che ha istituito il giorno della memoria, nel 1940 ci avrebbe mosso in una direzione opposta e contraria e noi, esclusi due o tre, avremmo ubbidito.
Tra le braccia della storia, avremmo fatto il nostro lavoro docili e utili come delle vanghe.
Ecco. Sembra un’affermazione un po’ forte, alla quale si potrebbe obiettare «Ma cosa dici, io sono uno che penso con la mia testa». Beato te.
Perché quella cosa lì, di pensare, è una cosa che, oggi, ma probabilmente è sempre stato così, io non so per voi, ma per me è molto difficile. Io per esempio non ho la televisione perché altrimenti le cose che sento dire dalla televisione mi entrano dentro la testa e mi si piantano nel cervello come dei pali intorno ai quali mi si arrotolano poi i pensieri, allora sono vent’anni che non ho la televisione e questa cosa qua, di non avere la televisione, e di non leggere i giornali, io non leggo neanche i giornali, e di sentire poco la radio, io se riesco sento poco anche la radio, produce degli effetti stupefacenti. Io, questa cosa la racconto spesso, un po’ di tempo fa, quando è morto l’ultimo papa, io di questa morte del papa, e del successivo convegno di cardinali per eleggerne un altro, l’avevo saputo per via che nel bar dove andavo a far colazione, sotto casa mia, a Bologna, eran diventati tutti dei vaticanisti.
Un bar che fino a pochi giorni prima era frequentato da bancari, studenti, pensionati, commercialisti, idraulici, sarti, professori di ginnastica, tabaccai, ortopedici, musicisti, impiegati comunali, bidelli, avvocati, fisioterapisti, garagisti e bibliotecari, tutto d’un tratto, dans l’espace d’un matin, come si dice, era diventato il bar dei vaticanisti.
E discutevano fra loro, e si dividevano in fazioni, e c’erano i bene informati e i male informati, e c’era chi assicurava che il giorno successivo tutto sarebbe finito, e chi diceva che no, che per altri tre giorni niente fumata bianca, e facevano anche le facce, come se si sforzassero di ragionare, e era in tutto e per tutto quello che un mio amico chiama la recita del pensare.
Adesso come sapete una delle cose di cui si è parlato molto quest’anno è la crisi dell’Alitalia, e io, dieci giorni fa, il 17 gennaio, compiva gli anni mio fratello, sono andato a mangiare con la mia famiglia, che abita a Parma, i miei due fratelli e mia mamma, e i primi venti minuti che eravam lì a cena, non si è parlato altro che di trasporti aerei, e ne parlavano con dei termini, eran diventati come esperti di trasporti aerei, sapevano tutto, e, per me, sentirli discutere, era stupefacente, e dopo venti minuti ho detto a mia mamma «Mamma, te non hai mai preso un aereo nella tua vita, cos’è successo, hai fatto un corso?»
Allora, pensare, come dicevo, è una cosa difficile, e io quando trovo quella che mi sembra una manifestazione di pensiero, è come se mi si allargasse il cuore, e a me questo effetto lo fa per esempio la manifestazione del pensiero di un signore che si chiama Sergej Dovlatov, che è uno scrittore russo che in Russia non ha mai potuto pubblicare, e che è emigrato in America e lì gli hanno pubblicato subito un racconto sul «New Yorker», e Kurt Vonnegut gli ha scritto una lettera dove lo salutava come uno dei migliori scrittori contemporanei, e in America ha poi fondato un giornale, e è diventato uno scrittore conosciuto e stimato, e a un certo punto, sul finire degli anni ottanta scrive:
“Io non discuto. Lo stato sovietico non è il posto migliore al mondo. E laggiù c’erano tante cose spaventose. Tuttavia c’erano anche cose che non dimenticheremo mai.
Sgozzatemi, squartatemi pure, ma i nostri fiammiferi erano meglio di quelli americani. È una sciocchezza, tanto per cominciare.
Andiamo avanti. La milizia a Leningrado agiva più operativamente.
E non parlo dei dissidenti. Delle malefatte del KGB. Parlo dei normali, banali poliziotti. E dei normali, banali teppisti…
Se si urla su una via di Mosca «Aiuto!», la folla accorre. Qui ti passano accanto.
Là, in autobus, cedevano il posto agli anziani. Qui non succede mai. In nessuna circostanza. E va detto che ci siamo abituati in fretta pure noi.
In generale c’erano molte buone cose. Ci si aiutava a vicenda un po’ più volentieri. E ci si azzuffava senza paura delle conseguenze. E ci si congedava dall’ultima banconota senza tormentosi indugi.
Non sta a me criticare l’America. Io per primo sono sopravvissuto grazie all’emigrazione. E amo sempre di più questo paese. Cosa che non mi impedisce, penso io, di amare la patria che ho lasciato…
I fiammiferi sono una sciocchezza. Sono altre le cose importanti. Esiste il concetto di pubblica opinione. A Mosca era una forza reale. Una persona si vergognava di mentire. Si vergognava di adulare le autorità. Si vergognava di essere venale, furba, cattiva. Le avrebbero chiuso le porte in faccia. Sarebbe divenuta uno zimbello, un reietto. E questo era peggio della galera.”
Ecco. Questa è la descrizione di una società dove si sarebbe realizzato un altro male assoluto del novecento, il male sovietico, e è un po’ diversa dalla vulgata contemporanea, sia in un senso che in un altro, non che bevessero solo dei succhi di frutta, ma non è che fossero neanche tutti delinquenti, o schiavi, o coglioni e questa descrizione mi è particolarmente cara perché parla di quel posto così come l’ho conosciuto io, un posto popolato da uomini che ne avevano viste tante, guerre civili, pogrom, culti della personalità, atrocità, dissacrazioni, falsità, riabilitazioni, nuove falsità, autocritiche, nuove riabilitazioni, nuovi culti della personalità, e che non avevano ormai nessuna fiducia nei loro governanti, e in un certo senso, nella vita di tutti i giorni, che non è poco, perché tutti i giorni son tutti i giorni, si governavano da soli, e non credevano più alle voci che venivano dall’alto.
Adesso la cosa è cambiata anche là, sembra.
Capolavoro. La storia della telefonata me l’aveva raccontata Stanko Cerovic, la prima volta. Ma nel suo racconto la maggiore enfasi l’aveva messa sulla prima parte della telefonata, sul fatto che Pasternak credeva si trattasse di uno scherzo. E poi ricordo di aver pensato che Stalin fosse “migliore” lettore di poesie di quanto non lo fosse stato Lenin. effeffe
Troppe cose, anche diacroniche (Partenak e Calvino). I nipoti dei superstiti della Shoa bombardano senza ritegno una popolazione inerme con la scusa di qualche herzebollah sparuto…Paradossi che mutano…Arzigogolare, opinare su quanto è già stato con un Renzi trasformista, fantoccio, factotum…in times of quick tempo it is better to think slow, nevvero?