Previous article
Next article

Lo Scuru è un anfratto

DSC_0172di Alessandro Chiappanuvoli 

Lo Scuru è un anfratto, un antro, e parimenti è un pertugio, percorribile come un sentiero ma ineluttabile come una caduta, uno sprofondamento, una voragine oscura di cui pure se ne riconoscono i margini ma non il limite. È una lacerazione, inflitta con una lama becchettata, una ferita, e le mani sul manico del coltello sono, a sorpresa, due: quella dell’autore, Orazio Labbate, e la tua, lettore. Quel che ne segue è un lento scarnamento, un rimestare, uno spolpare quella ferita stessa, un entrare ed entrarsi dentro con dolore, oscuro e sadico. Ma Lo Scuru, indugiando ancora nella metafora, è primariamente, io credo, un angolo buio dove si comincia a vedere solo permettendo ai propri occhi di abituarsi, e di soffrire, poco o tanto dipende da te. Lo Scuru mi ricorda un quadro di Caravaggio, come La vocazione di San Matteo, quel gioco d’ombra incombente e di infima luce, quasi evanescente e che però esiste; e quella bramosia che ne consegue, forse sadica, fanciullesca, e che rapisce spingendo a scoprire cosa potrà mai esserci dentro quell’oscurità, dietro i giocatori ebbri, tra le loro gambe sotto il tavolo, nell’angolo buio alle spalle di Gesù Cristo.

E proprio la figura del Cristo, evocata ossessivamente dal protagonista durante tutto il romanzo, credo segni la linea di confine, ormai netta, tra quelli che sono stati per secoli i nostri universi di senso, esoterici e vitali, e quelli che viviamo oggi, vacui e incartapecoriti. Per me che ho letto Lo Scuru sotto Natale, lo scarto è stato rovinoso. L’inquietudine annidata tra le pagine e la potente rievocazione di un mondo che sembra così antico quantunque non ancora del tutto sparito, contrastano troppo con le lucine, i sorrisi di circostanza, la gioia ostenta, cui si è ridotta questa ricorrenza. Oltrepassando quel confine, perciò, Labbate pare quasi lanciarci un monito.

***

Razziddu Buscemi è un siciliano espatriato in America che giunto alla fine dei suoi giorni, come spinto da un bisogno fisico, da un desiderio di purificazione, racconta se stesso e la storia della sua vita, in un intreccio imprescindibile con la terra nativa, Butera, paesino rurale posto all’estremo meridione del nostro Paese. È un mondo magico quello che a tinte fosche dipinge Labbate, intriso di superstizione, di ritualità, di maldicenze e di omertà popolare, un mondo controverso, insomma: semplice e salvifico per chi accetta e si rimette alle regole culturali e religiose vigenti, oscuro e maledetto per chi, invece, quelle stesse regole sente di doverle mettere in discussione, di trascenderle, per raggiungere non già la salvezza della propria anima, ma la semplice consapevolezza del sé, la pace, o qualcosa di vagamente simile. La storia di Razziddu è un lento, inesorabile conflitto contro i suoi demoni, costantemente esposto alla mercé di forze solo in apparenza benigne e solo in apparenza malefiche. Il sacrificio sarà l’unica soluzione possibile, sebbene forse, non del tutto definitiva.

E al sacrificio è chiamato anche il lettore. La lingua, un misto d’italiano e di dialetto che s’inseguono e si completano riga dopo riga, non sempre aiuta la lettura, ma finisce poi per imporsi, con il seguire della lettura, come imprescindibile, come urgenza materiale, fino al paradosso di sembrare che non possa esserci vera comprensione, immedesimazione, altrimenti. Impegno e disponibilità chiede l’autore. Una volta sancito il patto però, le difficoltà iniziali restano sullo sfondo e il valore tenebroso dell’opera erompe dalla pagina. Una lingua – per chiudere da dove ho iniziato – che ci catapulta ancora sull’orlo del baratro, a danzare assieme all’autore che, come un giocoliere sfacciato, ci costringe a rimanere in equilibrio tra l’abisso dell’esoterismo e dell’incomprensibilità persino, e la magica architettura di una potente, quanto oscura, struttura letteraria.

3 COMMENTS

Comments are closed.

articoli correlati

La profonda provincia a Capalbio

intervista di Marino Magliani a Andrea Zandomeneghi MM Una cosa che di solito dicono agli esordienti - non un rimprovero...

Il mondo dei Buscemi: Suttaterra di Orazio Labbate

di Fabrizia Gagliardi Il perturbante è alterazione. Se assistessimo alla lenta e metodica trasformazione fisico-chimica delle rocce saremmo costretti ad...

L’amore a vent’anni

di Giorgio Biferali Guardavo mia madre, con gli occhi nascosti nelle mani, con davanti il piatto che si freddava. Diceva...

Elegia e distacco: spiriti e corpi celesti nel firmamento di “Stelle Ossee”

di Rino Garro Orazio Labbate con Stelle Ossee, Liberaria, 2017, colpisce il cuore del lettore attraverso una serie di racconti...

Infrangere i tabù è un tabù

di Francesca Fiorletta «Hai osservato così a lungo l’amore che hai finito per trovare una teoria per cui l’amore è...

Su “La stanza di Therese” di Francesco D’Isa

di Ornella Tajani J’ai de l’infini sur la planche J. Laforgue Si può vivere d’infinito, sfamarsi d’infinito, sulla terra e nelle sfere...
mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.