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Jucci, «tra quegli anni» e «gli anni nuovi»

di Arturo Mazzarella
1964 jpg

Da tempo ogni raccolta poetica di Franco Buffoni costituisce una notevole sorpresa. Invece di confermare le aspettative dei suoi lettori abituali Buffoni preferisce incamminarsi, di volta in volta, lungo nuovi sentieri: ricorrendo a soluzioni formali e tematiche sempre diverse, sollevando interrogativi puntualmente più inquietanti. È accaduto così per Guerra (2005), Noi e loro (2008) e Roma (2009). Il medesimo procedimento si può riscontrare in Jucci, l’ultima raccolta poetica di Buffoni pubblicata di recente da Mondadori.
Questa volta, però, gli effetti di «straniamento» – direbbe Viktor Šklovskij – risultano ancora più radicali. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che Jucci si colloca nel paradossale punto in cui si intersecano, sovrapponendosi di continuo, il passato e il presente.
C’è un passato, infatti, nel quale è avvolta l’intensa esperienza sentimentale vissuta da Buffoni, allora ventenne, con una donna di nome Jucci, finita, dopo poco più di un decennio, con la sua morte precoce. Ma esiste anche un presente, sdoppiato in due segmenti: quello che appartiene all’io poetico e, sullo sfondo, le frequenti rievocazioni affidate ai due protagonisti di tale theatrum sentimentale. Intorno a questo intreccio di tempi e di voci, intorno alla loro irriducibile conflittualità, si snoda la presenza di Jucci: emblema di un passato -che non passa, che si protende e si incunea nel presente stesso, pronto a divorarlo se il presente non si difendesse attraverso i contraccolpi della memoria e del ricordo. Efficaci nella loro azione, ma anche pericolosi: perché inesorabilmente rivolti a dissolvere l’irripetibile singolarità di qualsiasi evento, il suo hic et nunc, in quei dispositivi costruiti per riportare artificialmente in vita ciò che morto.
Buffoni sa bene che il tempo perduto non potrà mai tornare, che ogni recherche del passato si svolge sempre all’interno della dimensione linguistica: là dove le cose sono svanite, per lasciare il posto alle parole. Se ne dimostra perfettamente consapevole. Basta leggere uno dei componimenti della raccolta intitolato, non a caso, All’àncora da ieri:

Le scarpe si sono stancate di portarla
In giro a tutti costi, i tacchi
Perforano l’asfalto…
Le piaceva l’odore di lago di laguna
Di erba tagliata di fieno
Il profumo di miele del fieno
Quando “farà temporale da qualche parte
Qui non lo fa mai”.
All’àncora da ieri invece per gli eventi
Da lei ormai io posso avere
Solo lati di piccole
Parole fiere.

In queste «parole fiere» si annidano le potenzialità distruttive possedute dal ricordo. In un folgorante aforisma di Parco centrale – tra le tappe della sua labirintica ricognizione dell’opera di Baudelaire – Benjamin definisce il ricordo una vera e propria « reliquia secolarizzata». Un’affermazione del genere, se interpretata in modo aderente alla concezione della temporalità delineata da Benjamin nel corso di tutti i suoi scritti, si rivela una sorta di ossimoro: l’epicentro, cioè, di un conflitto che viene a stabilirsi tra la «reliquia» – simbolo di un’assoluta metastoricità – e gli effetti divoranti prodotti dal tempo, da un divenire che, nel suo incedere, non ammette pause o soste di alcun tipo. Calandosi nella storia, la reliquia perde la propria aura sacra per trasformarsi in un frammento sfigurato dal tempo, per assumere i tratti di una «rovina» che allude al proprio originario vigore evocativo come a una preistoria dalla quale si è congedata una volta per tutte.
Un simile processo anima ogni verso di Jucci, opera in cui la dolorosa sfasatura tra i vari piani della temporalità si radicalizza ulteriormente, anche rispetto a Il profilo del Rosa (2000): la prima raccolta dedicata da Buffoni all’asimmetria formata dalla congiunzione dei differenti regimi temporali (basti pensare a Nella casa riaperta, il componimento che apre la raccolta). Adesso, con Jucci, però, l’asimmetria si dispone lungo i contorni di un lacerante circolo di opposizioni dal quale risulta impossibile all’autore stesso evadere, recidendo i legami che lo stringono a una molteplicità di antinomie. Ricapitolate da Buffoni, nelle Note che chiudono il volume, con parole taglienti nella loro imparzialità: «Oggi – scrivendo Jucci – mi trovo a rivivere giorno per giorno quel decennio, ma nella prospettiva esplicita dell’indignazione, dello sgomento e della pietà».
Le tre tonalità sentimentali – e intellettuali – richiamate da Buffoni appaiono del tutto divaricate tra loro: come possono esserlo l’indignazione del poeta nei confronti di se stesso, il suo sgomento rispetto al potere irresistibile, quanto insondabile, di Eros (dell’Eros protagonista del Simposio di Platone, mediatore tra l’universo degli dei e il mondo degli uomini) e la pietà provata per Jucci, non solo a causa della sua morte prematura, ma anche per l’impossibile compimento del loro rapporto, data la maturazione pienamente cosciente, da parte di Buffoni, della propria omosessualità.
Nell’intreccio di queste tre antitetiche disposizioni, che danno voce a una dissonante polifonia, scivola il ricordo. Come accade in questo esemplare componimento dal titolo La lunga nota medievale:

Ma voglio quegli anni o gli anni nuovi,
Mi sorprendo a chiedermi: un
Tuffo nell’ignoto o la strategia del noto?
Da capo rivivendo quel nostro decennio
Con la testa di oggi,
O ritrovandomelo intatto da stordire?
Si ripresenta la fuga dal padre
Perdutasi nel nulla verso oriente
Dopo che conventi e osterie
Bordelli e sacrestie
Mi ebbero accolto e scacciato
Nutrito e denunciato.
Poi apparisti tu, Jucci, e io…
Fammi almeno risentire
La tua lunga nota medievale,
Con quella in mente
Voglio trasmigrare.

L’operazione corrosiva portata avanti dal ricordo si dimostra, a questo punto, un procedimento parziale, che non esaurisce le potenzialità contenute nell’atto di rievocare il passato. Insieme alla consapevolezza di un’assenza, di un vuoto radicato in un tempo perduto per sempre, il ricordo ha la funzione, infatti – come indica con particolare pregnanza La lunga nota medievale –, di custodire il passato, sottraendolo al ritmo progressivo del divenire, alla sua nichilistica proiezione verso un futuro che non sembra mai conservare tracce di ciò che sta alle sue spalle.
La «reliquia secolarizzata», per tornare all’espressione di Benjamin, sarà pure un ossimoro, segnerà una drastica cesura tra passato e presente (tra «quegli anni» e «gli anni nuovi»), ma si rivela, tuttavia, l’unico tramite per raffigurare il passato, per salvarlo dall’oblio al quale sarebbe naturalmente abbandonato. Per questo Buffoni chiede a Jucci di fargli risentire le note di una musica lontana. Sa bene che si tratta di una richiesta inesaudibile. Ma sa anche che è il solo modo per sfidare il tempo, per arrestare l’impeto devastante del suo fluire.

La foto di Franco Buffoni del 1964 è messa a disposizione grazie al suo sito www.francobuffoni.it (hj)

1 COMMENT

  1. Più che “straniamento” parlerei di una “ragione corale” – dove le persone del coro sono i protagonisti di ciascun assolo, ciascuno con la sua spigolosità asimmetrica protratta fino all’indistinto. Che le prospettive del passato e del presente convergano in una giuntura ‘sconcertante’ questo è indubitabile, e non c’è parola che appaia troppo risolutiva rispetto al suo essere disarmata. Mi sembra molto utile il richiamo all’immagine della “reliquia secolarizzata” – Jucci è come un osso che non ha fatto il callo nella mente e che per questo sa prestarsi ancora alla ‘fede del presente’, dimostrando la viviscenza della fine, con la sua ostinata, “disperata vitalità”. Sono pensieri che si rincorrono pensando ancora questo libro e leggendo questo scritto. Un libro importante, di quelli che, personalmente, avrei voluto leggere da tempo e che oggi è sotto i nostri occhi.

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