Dalle memorie di un insonne/4

di Giorgio Mascitelli

Non sempre giova una vita densa di contatti umani, apparentemente cordiali, ma in fondo superficiali; non sempre giova abusare del proprio successo in società, come se un mondo che soffre non esistesse; non sempre posso addormentarmi alle cinque del mattino, dopo essermi coricato alle due e mezza, per essere svegliato alle sette dalla sveglia.

Allora mi convenne tornare a un regime serale più domestico e sono ricorso di nuovo a quelle procedure di addormentamento dalle quali ho spesso ottenuto benefici indiscutibili. Per rinfrancarmi e prendere l’esempio, soglio pensare a esempi di sonni illustri e profondi in condizione difficili come quello di Frodo in compagnia del fido Sam e dell’infido Gollum lungo la strada segreta, erta e scoscesa che tramite il valico di Cirith Ungol porta a Mordor oppure come quello di Macbeth quando ospita nel suo castello il vecchio re. Talvolta, bisogna ammetterlo, questi esempi non hanno su di me l’effetto auspicato, ma io non mi abbatto e anche quando l’obiettivo finale non è raggiunto, valorizzo sempre i risultati intermedi.  A un certo punto mi ricordai o mi fu ricordato che un rimedio antico ma salutare e sempre valido contro l’insonnia è quello di una passeggiata di un’oretta prima di andare a letto.

Scegliere questo rimedio significava fatalmente entrare in contatto con il mondo dei padroni di cani del quartiere, che conducono le loro creature all’espletazione dei bisogni prima del riposo. Non che io avessi dei cattivi rapporti con loro, anzi si può dire che i miei rapporti con il mondo della cinofilia fino ad allora erano improntati a una forse non del tutto commendevole, ma complessivamente corretta indifferenza reciproca, tuttavia essi per me rimanevano gente strana disposta a sacrificare un’ora delle propria sera per consentire ai loro protetti di scaricarsi con ogni agio in qualsiasi condizione atmosferica. D’altronde, chi va con gli zoppi impara a zoppicare. Se fossi stato stitico per esempio, avrei senz’altro incontrato altre persone e vissuto situazioni differenti.

Non che io abbia mai sofferto di questo tipo di disturbo perché al contrario proprio in bagno ho trascorso momenti felici e, per così dire, ho sempre assolto alle condizioni prescritte per poter intonare l’inno del corpo sciolto, ma ho sempre sentito in nome della comun madre una sorta di affinità elettiva con il mondo della stipsi. Se un ventre da svuotare e una notte da colmare non sono in alcun modo assimilabili e, piuttosto, conducono a esperienze, provvedimenti e conoscenze del tutto diversi, e un bacile di prugne resta per me un bacile di prugne, esattamente come per il fratello stitico e soprattutto la sorella stitica una pastiglia di valeriana resta soltanto una pastiglia di valeriana, e non posso  davvero dire cosa sia per loro davvero un bacile di prugne, reputo, nonostante tutto, che le loro tribolazioni non mi siano estranee perché siamo uomini. Non so quali ostacoli incontrino sulla loro via, ma vedo al fondo la medesima angoscia che per mezzo di una notte di veglia o di una pancia gonfia ci è comunicata dalla precarietà del nostro stare al mondo.

Sì, laddove le persone serie che sanno già qual è la loro strada non vedono  che insonni o stitici, io vedo l’uomo.  Spesso, nell’accingermi a raccogliere queste mie memorie, mi andavo ripetendo che con esse avrei voluto erigere un monumento forse modesto ma di marmo imperituro alla veglia forzata, ora che scorgo nella penombra di una lampadina accesa tutta la notte sopra un comodino o dietro le scatole ammonticchiate di beveroni ricchi di fibre e purghe naturali e chimiche le fattezze dell’uomo, mi accontento di lasciare trascritto su ghiaia fugace, come si conviene al nostro tempo, qualche palpito non insincero.

Dunque, fatalmente cominciai a prendere confidenza per via delle mie passeggiate serali con i passeggiatori di cani: la diffidenza era reciproca e i saluti brontolati e gli sguardi sbiechi. Dal canto mio, come già detto, non potevo che nutrire sospetto per chi trae piacere dal sacrificare le ore riservate al riposo o al diporto per consentire a un animale, una creatura, per quanto gli manchi solo la parola, di fare i propri sozzi comodi sul marciapiede in un silenzio imbarazzato e imbarazzante  come è del resto prevedibile in compagnia di una creatura priva della facoltà del linguaggio, impestando successivamente le suole di tanti onesti passanti.  Da parte loro, ammettiamolo, non poteva che suscitare diffidenza uno che per addormentarsi faceva una lunga passeggiata, una cosa che fa molto boy scout o proprietario terriero del secolo decimonono o poeta ermetico.  Certo non è che potessi diventare uno schiavo di Big Pharma in attesa, come un tossico, del nuovo sonnifero messo sul mercato per tranquillizzare i loro timori da borghesucci. Forse non avrò rapporti del tutto sereni con il vicinato, ma sono un uomo libero!

Infine l’abitudine, la Grande Ottimizzatrice, creò tra noi una situazione di fatto di mutua sopportazione, una sorta di modus vivendi o meglio videndi, visto che i nostri rapporti consistevano essenzialmente nel guardarci di sottecchi e subito dopo nello scambiarci saluti gutturali. Così pian piano, facendo ricorso al mio proverbiale spirito di tolleranza ( da bambino durante le colonie estive a Camogli presso i Padri Sefarditi mi chiamavano il piccolo Voltaire), mi convinsi che un uomo non deve essere giudicato per come trascorre il proprio tempo libero, anche se lo passa a curare che i suoi migliori amici espletino i loro bisogni; a loro volta essi si persuasero che non ero nient’altro che un innocuo stravagante col quale si poteva perfino scambiare qualche parola.

Addirittura un professore in pensione che portava il suo cagnolino al pascolo inverso prese a salutarmi chiedendo a che punto era la notte.  Se dapprincipio accondiscesi con simpatia al suo saluto come quello di uno che cercasse di vedere l’uomo e non l’insonne ( così  io del resto mi sforzavo di vedere in lui l’uomo non l’accompagnatore del cane), poi esso principiò a irritarmi perché mi parve una mancanza di rispetto, come se io fossi una volgare sentinella e lui un uomo preso da sofferenze interiori. Nulla di più falso, invece, perché ero io, con i miei tormenti che mi impedivano di prendere sonno, che con tutta chiarezza denunciavo una travagliata vita interiore, mentre lui era soltanto uno che portava fuori il cane affinché non gli cagasse in casa, a orari regolari, perdipiù, proprio come le sentinelle.  Le sue provocazioni divennero insostenibili, la situazione degenerò, lo sfidai a duello e lo schiaffeggiai.

Scegliemmo di incontrarci alle sei del mattino del sabato successivo in un prato presso la cascina Monlué, sarebbe stato più adatto qualche luogo nel parco della Villa Reale di Monza, ma lo scartammo sia per il timore di incappare in qualche pattuglia della polizia di stato sia di perderci. A lui in quanto sfidato toccava la scelta delle armi. L’unico problema furono i padrini, visto che lui aveva indicato altri due pensionati proprietari di cani; io purtroppo non conoscevo insonni affidabili per un incarico così delicato e poi francamente di restare ferito ( si era optato per un duello al primo sangue) davanti a uno che si metteva magari a sbadigliare mi rugava un po’.  Si decise allora che avremmo trovato i miei padrini tra coloro che andavano al vicino ortomercato per farsi ingaggiare come scaricatori di camion.

Confesso che quella sera tornai a casa vuoto e presi sonno con facilità, rinfrancato dal pensiero che la notte prima del duello avrei avuto tutte le giustificazioni per restare sveglio, come accade sovente a coloro che al mattino presto successivo avranno un duello.

Mi recai sul posto prescelto mezz’ora prima dell’ora stabilita, come è giusto per uno sfidante, aspettandomi di trovare lì per lo meno i suoi padrini. Restai per circa un’ora in compagnia delle sole zanzare che in quel luogo, un’ex risaia, non si peritano di sapere a quale punto siano la notte e il giorno.  Dopo circa un’ora il mio cellulare fu animato dal trillo che annunciava il ricevimento di un messaggio. Lo aprii e sul display apparve la scritta “Pirla!”.

(4,continua)

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