La creazione del lutto
di: Alessandro Garigliano
Non so se durante la lettura de L’invenzione della madre di Marco Peano (minimum fax 2015) mi abbia commosso più la storia o lo stile. Non starò qui a rimuginare se ciò che si racconta sia biografia o invenzione, e in che percentuali. Si narra in terza persona con una voce vicina, quasi complice, al protagonista ventiseienne che ha nome Mattia (l’unico in tutta la storia a essere nominato, mentre gli altri sembra godano di una sorta di sacralità grazie alla quale i loro nomi resteranno impronunciati). Dirò subito che ciò che più mi ha coinvolto e stravolto non è né l’esattezza delle parole né l’essenzialità dei periodi necessari a narrare il decorso terminale di una donna malata di diverse forme di cancro; ciò che mi ha coinvolto e stravolto è la capacità di sottrarre pathos senza sottrarsi, senza disinnescare il dolore spaventoso scaricando la tensione con l’ironia o usando artifici inadeguati.
Con quali parole racconterai la morte?
Sono innumerevoli gli scritti che hanno provato a raccontare il lutto con risultati più o meno riusciti – e forse lo stesso titolo del libro di Peano dialoga con un altro libro sulla morte: L’invenzione della solitudine di Paul Auster. Ma perché la morte costringe a dire con precisione il dolore? Ma perché la combinazione ridicola di caratteri deve librarsi priva di sbavature per razionalizzare anche le agonie più spaventose? Eppure in questo libro il nitore del linguaggio – qui considerato alleato – appare imprescindibile: non perché liberi dal male o lo esorcizzi ma perché rappresentandolo in questa forma lo fa riconoscere: lo rivela.
Con quali parole ti difenderai dalla morte?
Nel testo di Peano le parole sono incistate nella sofferenza. Il registro ondeggia calibrato dall’ironico al tragico, dal melodrammatico al beffardo. Tramite la lingua e lo stile si prova a contenere il dolore e a rilasciarlo senza pietà. Sono tantissimi gli episodi in cui Mattia, il protagonista, sfodera sadismo scagliandosi, con un compiacimento da vittima, contro gli interlocutori improvvidi, sempre in ritardo sul decorso della malattia. Allo stesso tempo, però, gli interlocutori mostrano tutta la loro superficialità, scandiscono rituali di cortesia squadernando tutta la miseria e la ferocia delle relazioni umane. Ma, soprattutto, Mattia vuole fortissimamente sottrarsi a qualsiasi tipo di relazione sociale. (Non so se quello che sto per dire mi farà condannare per spoiler): Mattia non continuerà gli studi, metterà fine alla sua intensa storia d’amore, e anche il legame più forte, ovvero quello con il padre, a lungo andare, secondo me, sarà logorato: tutto è, e deve rimanere, madre.
Con quali parole gestirai la morte?
Paradossalmente contro la burocrazia e le parole glaciali della medicina, nel romanzo si reagisce con parole che nella loro esattezza tecnica si susseguono recitando rosari. Non c’è cura e agonia che venga taciuta per pudore. Ma è proprio la manutenzione della morte a salvare dispensando alla fine un senso quasi, anzi no del tutto, esistenziale. E a un certo punto sembra che il narratore riesca a convincerci del fatto che ognuno di noi – abbia o meno fatto esperienza di dolori tragici – porti da sempre in grembo una madre morta (parafrasando un proverbio citato nel libro).
Con quali parole sopravvivrai alla morte?
Il passato non ha pietà del presente, lo trasfigura fino a immobilizzarlo; il futuro è annientato. Il figlio – al sicuro fuori età nel bozzolo dell’adolescenza – custodisce e ricostruisce con caparbietà il ritratto della madre affinché non rimanga nella memoria di chi le sopravvive un personaggio ma una persona. L’intero racconto – dove finalmente una trama non si sovrappone al narrato imponendo movimenti prestabiliti e pretestuosi, ma si stende e si annoda rappresentando alla perfezione una coscienza e il suo plot esistenziale –, il racconto, dicevo, prova a fare del presente un fantoccio, un pupazzo che mentre simula di correre in avanti, in realtà rimane ancorato al tempo in cui la madre viveva. Il Tempo non solo si curva ma si contorce fino a mettere in scena la metamorfosi, tristissima e dolce, di una madre che diventa figlia e di un figlio costretto ad assumere le sembianze di un genitore; le responsabilità si trasferiscono da un corpo all’altro: la morte fa regredire la madre – fino a farla sperare incosciente – invece al figlio concede, nella certezza del lutto, una forma matura d’amore maestoso sì ma disperato.
E però alla fine mi rendo conto che il Tempo, in questo libro, è stato annullato: il compito più alto della letteratura è stato magistralmente osservato. Fin dall’inizio il corpo della madre è un fantasma, viene inventato tramite i ricordi, le parole quotidiane e le epifanie: non si avrà mai nel testo la percezione di un’assenza possibile o effettiva.
È la mancanza che invece aleggia in ogni parola come fosse una colpa originaria.
[…] Segnalo anche questa bella recensione di Alessandro Garigliano pubblicata ieri su Nazione Indiana: https://www.nazioneindiana.com/2015/02/04/la-creazione-del-lutto/ […]
[…] di ALESSANDRO GARIGLIANO, “Nazione indiana”, 4 febbraio 2015 […]