Post
di Daniele Ventre
[Era la forma del giorno e l’età antonina e il severo
tempo moderno che fu del medioevo che è già.]
Post-elegia
L’informazione non vale granché: non ne vale la pena:
la frenesia dello scambio anche ci informa di sé.
L’informazione si fa verità di futurizione,
quello che guadagnerà già te lo trafficano
informazioni infinite, molteplici, vere altrettanto,
informazioni di ciò che di sicuro sarà.
Tutti si fanno maestri così, per coloro che sanno:
quello che sanno, però, certo nessuno lo sa.
Con il continuo ripetersi e sottolinearsi l’asserto
che d’informarti hai bisogno, ecco il bisogno t’è qui,
più del diritto a informarti, il più truce e atroce bisogno,
dogma di sua nullità che ti santificano.
Che se vorrai mercatare nel traffico d’informazioni
s’ha da trattarle per sé, s’ha da appropriarsene chi
le rappresenta, le crea, le spolvera, te le ripone,
te le riscrive, ne fa compra e mercato e le fa
interagire nel luogo e nel tempo in cui ti ritrovi
dentro la selva dei tuoi mostri, o spartisce con te
quel che rimane del nulla. E però nessuno ti spiega
quello che informa di sé, che informazioni e perché
poi te ne informi e che cosa ci sia e che cosa non sia
e di che cosa ti informi e se ti informi di te,
o se si informi di sé o di sé ti informi per forme
di serendipicità o se la semplicità
nel suo mistero non sia che imprimere forma su forma
con artifizio di nulla -e ti manipolano
ti manodoperano, ti manovrano senza mani.
E non è chiaro perciò quante ne circolino
informazioni inviate intorno al medesimo obbietto,
già d’ogni obbietto a sé iniquo, orbo di obbiettività,
e se la forma che avrai ricevuta s’orbiti a un punto-
e te lo chiedono già e se ne interrogano
se sarà tale o talaltra o altro o magari lo stesso:
dove diretto però, certo nessuno lo sa.
Post-in-scena
Nel mondo postmoderno la maggior parte
dei ruoli si rovescia senza passato
-futuro forse (quel che è poco tradotto,
lo si tralasci -se ne imprimano targhe
di lapide e di ferro -tombe di veri).
Ma il tuo futuro è ovunque tu ti rivolga,
fuorché domani. Gli orologi starati
misurano la storia zoppa nel tempo.
E l’oratore postmoderno non parla
d’oggetto -solo di parole -le sue-
non riferisce -riferisce a sé stesso:
di solo a solo -per sé stesso. Si plasma
di sé negli altri che nel broncio ripete
bambino. E sono postmoderno un po’ anch’io
Così ti inizio al gioco del postmoderno
Così mi inizi postmoderno per scherzo.
Non puoi non farci caso. Giochi talvolta
ad acchiappare cieco mosche su mosche
che si nascondono e non lasciano pegno.
E vince chi la dice tana per primo:
ma non ci sono tane -dunque le tane
le scavi tu da solo, ma per te stesso
ti fissi regole al tuo gioco -confini-,
l’immagine del mondo che immaginavi
per quello che ti cerchia quello che intorno
ti ha circondato da nemico -e ci perdi
ci perdo e tutti siamo e abbiamo la matta.
In questa forma nel post-mondo si avanza
nel gioco e verso il gioco -guardalo il mondo
per gioco e per post-gioco: certo è cambiato
non è lo stesso è uguale sempre immutato.
Si può parlare di ignoranza, d’inganno,
di presa di fondelli -di rassegnarsi
al segno senza senso significato
dell’insignificante. Guardi il post-mondo
tracciato sulla rete (senza) sistema.
Di questa rete i nodi -ricevitori
mittenti dell’informe -vengono spesso
al pettine non certo come capelli
di corpi ma per nodi dell’arbitrario
dell’arbitrato -l’arbitro t’ha fischiato
un fallo inesistente -sesso-non-senso
e senza sesso – ciò che informa l’informe
di informazione. Ti prenota il programma
per il teatro -ti post-nota epigramma
o elenchi di segreti sempre svelati
da Pulcinella sulla scena del tempo.
ti mette dentro le segrete non-cose.
Il dramma che a soggetto reciti sempre
si chiude per sé stesso come il suo dramma
nei nodi senza pettine e scapigliati
e si ripara e si rinorma nel caso
per come è necessario. Pone domanda
il nodo cerca un pettine e si fa storia
nel pettine creato ma per sé stesso
Si contravviene contraddice e disdice
e si pospone fatto postdemoderno.
Think imaginary
Quello che poi si traduce e si porta in linea di note,
quello che circola qui quello che può, che si sa
far circolare, è sapere -di che non si sa -ma è sapere,
l’intraducibilità che non si sa si lasciò.
Non ci si appella per esso in esso e per quel che tradotto
sempre che si tradurrà -sempre che t’occorrerà,
ecco che allora è realtà. Siamo in gabbia in copie di copie
e tu lo vedi, anche io t’ho ricopiato fin qui.
Ti garantisco perciò che il più del sapere che sai
sia traducibile sia banca di dati per sé
riproducibili. Tutti i riproduttori di scienze
abbiano poi le scansioni e le specifiche e i bit
per ritradurre le schede in linee sempre lineari,
codici di identità che si riallineano.
E non si offenda per questo il carattere del sapere-
brutto carattere ci ha, questo sapere di sé,
questo sapere perché -tuttavia così maltrattato
e maltagliato, così immaginato a metà.
E non accade così che trascritto il mondo divenga
immaginario per sua nera singolarità?
Proprio così l’alimento di fresco ora andrà surgelato
e tramutato di tono ordine e di qualità.
E se nessuno ha mangiato del fresco, ecco muore il confronto
e non c’è più verità, né leggerezza, né più
forma, se non il consumo di cibi oramai congelati.
Ordini un senso corretto e te lo servono al bar
con il caffè più ristretto del tuo preconcetto mutato
in consumata realtà e lo rimasticano
per ulteriore materia le bottinatrici operaie:
tutto ha perduto il suo senso orfano d’utilità.
Tutto si muta in oggetto di scontro -in soggetto di sconto
tutto si vende al discount. Quel che si sa, chi lo sa?
Chi sa di che? Chi saprà di sapere o di non sapere.
E della sua disgrafia l’analfabeta non è
certo -così ti nasceva il post-mondo, ovunque nascesse
per accidente da sé -non dopo il mondo, però.
Post-domus argentea
E grazie a dio si può fissare l’attimo
preciso in cui le architetture muoiono
moderne e in breve si post-architettano-
lo scrive il saggio nel linguaggio alchemico
dell’accademia. Architetture muoiono
in Marktwainland nell’anno del protempore
nel tempo senza tempi. Come muoiono
le architetture, come si trasformano
le morti in un linguaggio, che si slinguano
le morti, queste morti un poco tribadi,
un po’ sensuali, un poco pornosofiche,
linguaggio d’architetto scritto in linea,
da prima forse ancora con immagini
E tutto ciò che non si può trascrivere,
rimane tralasciato -s’ha ricorrere
a ciò che si è trascritto). Nuovo genere
davvero! Accadde prima con i rotoli
al tempo in cui li si è mutati in codice.
E se la fine si architetta restano
ragioni che a ragione si autoescludono,
consistono al trasmettersi, nell’essere
sostituite dal recording, restano
i calembours che in giochi le sistemano.
Monsieur Jourdan restò senz’altro attonito
scoprendo che per lustri fu prosastico
e non sapeva prosa. Un colpo simile
l’ha avuto l’architetto -forse il massimo
dell’universo no -senz’altro il minimo
del condominio che ci crolla facile
E certo architettare si considera
un buon tessuto in prosa (un po’ di simboli,
parole, frasi, un ordine sintattico
di segni, semi e sèmi, che ti segnano
metà linguaggi e per metà ti slinguano
puttane d’alto bordo filosofiche)
d’architettare si perdé la tecnica
l’archetipo l’archetto e l’archeozoico
e le archi-tette. Che non hai materia
o madre o dura madre -e si discorrono
discorsi universali. E ti strutturano
così valutazione d’una formula
universale che ti costruiscono.
Che mescono gli stili con le origini
Che della costruzione non è tipico
carattere non segna. In altri termini:
si tratta in vero di un processo simile
a quello in cui per verità si surroga
il farsi film. E questo ti valutano
secondo prestazioni di pornocrati
secondo il livellarsi della tecnica
orale e post-orale attori e cogito
e coito per sé stessi, utilizzabili
secondo volto e fama in più pellicole,
ti mescono e propinano la tecnica
secondo il performare delle macchine
da trucco e strucco. Nuovi film non filmano
né fermano realtà. Bisogna scegliere
i volti noti gli oligarchi eleggere
la qualità dei tecnici. Spettacolo
perfetto… e che magliette se ne vendono!
Tra le diverse realtà le singole
esprimono linguaggi d’ogni genere
però la forma resta la medesima:
è sempre si può dare che coesistano.
La società totalità (linguistica)
unita in ogni nodo t’immosaicano
per il linguaggio che d’insieme è tessera.
Post-logo
Si definisce d’etichette il post-mondo
con istruzioni che si cambiano sempre.
E l’etichetta che si incolla alla fine
segnò l’inizio. Verità sotto chiave
ed in sua vece l’ulteriore commento.
Se per errore si sospetta che bari,
in ogni caso non si gioca più gioco.
Le storie e le esperienze dimenticate
si mutano etichette. Per etichetta
si inscatola il sapere – quel che sapevo
non lo sapevo. Non esiste la cosa:
esiste solo il marchio per etichetta.
E l’etichetta non richiama sé stessa.
Rinvio si somma su rinvio. Ti derida
il sogno della tua realtà differisca
rimandi differanze. Circa l’essenza
non si domanda l’obbiettivo, davvero
postdemoderno. Verità quel che spesso
già all’alba imprime propagande e cartelli,
che poi nessuno vede. Gioco che giochi?
Ti giochi il tempo. Non c’è vincita. Il gioco
è di per sé sconfitta -tempo allo scacco.
Post-istoria/pre-isteria
Narra, la storia, dei nostri dintorni e di ciò che possiamo
scorgere, quel che possiamo vedere. E però nel post-mondo
post-demoderno e lyotardo non si è mai perduta una storia
non puoi far sì che la storia non debba anche tu con lo sguardo
scorrerla a volo di riga. E riguarda ciò che è accaduto,
come è potuto accadere -perché (di cui puoi tu pensare
che ci potesse accadere), è lo spazio per il sapere.
E se è possibile tutto (o niente), anche perde la storia
sfondo e realtà. D’ogni dove affluisce fine del mondo
e paspaspas de papa. Se qualunque azione ci importi
ecco che nulla ci importa, così come azione non fosse.
Ecco che allora il post-mondo è per sé la fine del mondo.
Forse la fine di un mondo era passo in quel meccanismo,
lo schematismo latente per quel che si regola a solo
e non spaventa nessuno. Al più per un po’ ti s’inceppa.
Ciò che procede, non può venire. Alla fine del mondo,
altri non può ricordare, non può stabilire il momento.
Dopo la fine del mondo è rimasto il nulla. Il Messia
giunto fra noi, ma nessuno poté riconoscerlo, ognuno,
può, se lo vuole, aspettarlo -un eterno ebreo musulmano
cristico -sua buddhità che ingrassò budino alla crema
Altro che gioco non fu. Quale gioco? Forse di lingua?
Forse di pornosofia? Non è gioco no, se davvero
anche la fine del mondo non sai se sia stata o non sia;
ma non ha senso neppure il parlarne. Dove e a chi mai
l’inosservata salvezza appartenne? E quale quel mondo
che ci pervenne alla fine? E che cosa infine è rimasto?
Chi lo staccò dalla spina? Una fine ancora s’aspetta.
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Un denso saggio di post-sofia imperniato sulla specularità ludica di tempo e forme, di linguaggi della critica e della consapevolezza, in un rimando ciclico mai cortocircuitato, se osservato con l’occhio spoglio, scientifico del verso indagatore.