Da Versi Nuovi (2004). Terza parte
di Biagio Cepollaro
Da Nel tempo e dietro (2001)
ma come sorriso che risale
a galla vieni da noi
dal fondo dell’onda più alta
non come pensiero
che ciò che oggi desideriamo
è uscire un poco dall’ignoranza
e per questo chiniamo la testa
e per questo chiniamo la testa
I (il tempo, dopo)
*
servirà a qualcuno tanto dispendio
di parole?
farà luce dove prima era solo
buio?
a cosa altrimenti e perché tanto chiacchiericcio
stampato o mandato
in onda?
niente: bisognerà non ambire
a tanto
ai tanti: lo vedi da te come è affollata
la mente
e quanto in realtà vale appunto
niente
o forse è proprio questa la truffa:
valutare… valutare ancora cosa c’è
nella mente: ancora distrazione
e allora
cosa potremmo dire alla fine
diremmo sbagliando
che si perse molto tempo
non dovremmo dire nulla: ma detto
riconquistare silenzio
come se appunto non avessimo
detto nulla
o non fossimo stati noi
a dire
ma un si dice che era
nelle cose (come secolo
di storiche utopie che possono fallire
nel sangue o in ore
di televisione o semplicemente perché
il bene viene prima
di ogni sua materiale
condizione: e noi non fummo pronti
come specie
e se terra
nacque da stella nostra bellezza
non fu pari alla ferocia: la scimmia
che ci turba non c’incalza
ci precede)
così puoi vedere la vittoria
del capitale su scala globale come scacco
dell’intera specie come difetto
greve dell’evoluzione:
forse per questo
sempre più si biologizza il male e nasce
imbarazzo nuovo nell’apparente
neutro di scienza a fronte di incerta
morale
e allora se c’è del marcio
nella scienza marcio nella morale
dove trovare il bene? È che sin dall’inizio
compimmo errore di dare
peso e consistenza
al chiasso della mente e quella volta
che le cose sembrarono risponderci
ne ricavammo universale
presunzione
fino a dire legge
di natura
una fisica locale
ed era ancora angoscia
di morire o di sentirsi
astronauta a cui si stacca
il filo
che lo tiene
alla nave
né sopra
né sotto
né davanti né dietro
solo freddo
e aria
che manca
diremo : ringraziamo ancora
per come è andata
per i nostri morti
che furono troppo
solleciti
e per i vivi che non sappiamo
ancora salvare
dalla distrazione
**
e dovremmo noi ricordarci ora
e domani
che non fummo magnanimi
col tempo
che non solo perdemmo
-non pensandoci- le albe
viste dall’aereo
sul pacifico (e lo notava
contrito via e-mail Taro Okamoto
tornando a casa)
ma anche perdemmo -indurendo troppo
spesso la faccia-
l’occasione per sentirci agli altri
uguali
è vero ci premeva ansia
di non farcela ogni mattina
allo specchio
aggiustandoci i capelli ancora
arruffati dal sonno
dovevamo presto darci contegno
ripeterci come mantra
all’incontrario
di esser abbastanza forti
per non soccombere
e portare a casa parte
che sembrava giusta
(a torto o a ragione)
di tutto il becchime
e dovremmo ricordarci ora
e domani
di chi più vecchio ci accolse
e ci dette ascolto
mentre noi già pensavamo
di essere strumenti troppo
docili
e per troppo tempo dialogammo
solo con noi stessi credendo
ragioni
due o tre ossessioni
(quelli che per strada
parlano da soli
per protesi e auricolari
fanno ad alta voce
ciò che comunque faremmo
per impulso della mente)
mente satura ed esplosiva
stanza che scoppia
e che nessun trasloco
potrà prosciugare
che resta palude e pantano
che resta fetida
nella mente
l’aria
diremo. A noi ci parve
di scegliere e decidere
ma fu lo stato
della nostra mente
e le sue macchie
a vedere o a non vedere
noi dicemmo esiste solo purezza
della mente
che ancora così chiamiamo mistero
di queste galassie che procedono lente
a fare spazio
inventando cosa
nel niente
inventando insieme cosa e niente
***
e ogni giorno
nuovo è come terrazzo
della festa il giorno
dopo. forse da questo
lasciare andare ciò
che comunque è andato
senza rincorrere voci
che non ci sono più
senza tristezza per piatti
di carta accartocciati
e per le cicche
con la stessa nube
che illumina gli occhi
anche noi partecipammo a sociale
rimozione
del dolore e della tenerezza
a noi che in antico fu affidata
memoria
fummo i primi per due righe
di giornale
a dimenticare
che non si trattava di affermare
questa o quella verità
ma di essere nel giorno
diversi
e invece al semaforo
suonammo più volte
il clacson
appena verde
e in casa fummo gelosi
degli spazi facemmo notte
e giorno ronda
intorno a nostro accampamento
a difendere tempi
e oggetti
che altrimenti avremmo dimenticato
(come solo ci riuscì in quei mezzi
abbandoni quasi umani
che nominammo ignari
vacanze)
e fummo sordi ai più vicini
e fummo ciechi all’evidenza
e mille facce ci passarono davanti
che non vedemmo
mille voci ci cercarono
che non ascoltammo
e ora tutte quelle facce e tutte quelle voci
fanno ressa davanti ai cancelli
della mente
e ora che siamo usciti
di casa lasciandola al disordine
esitanti facciamo il nostro bagno
di folla nella folla dei visi
e delle voci
la terra comincia dalle nostre case
il cielo comincia dai nostri occhi
e francesco via e-mail mi dice
che azione crea spazio
e penso alla danza che lo ricama
e penso a dimenticare i nomi
ai fogli bianchi sempre nuovi
e ai visi e alle voci fuori dalla stanza
e all’aria e al tempo che rimane
che il tempo che resta
non aggiunge più nulla
che questo tempo ci farà
muovere sul posto
che abbiamo fatto cose
nell’ignoranza
e ora queste cose
ci fanno sorridere
o vergognare ché queste
cose non sono più cose
ma movimenti alla cieca
e colorati accecamenti
****
diremo che abbiam visto
e non abbiamo visto niente che in tutta
la storia ne scorgemmo
solo quattro con certezza
di supernove e allora brillò
per due anni il Granchio e venti
giorni quella che oggi diciamo
nebulosa e Lupo e l’onda
più vicina che ancora spazza
forse iniziò nell’anno che dissi
a piero una prima poesia e veniva
da stella trenta volte più grande
del sole mentre fissavamo il fondo
del bicchiere finita la birra
disimparammo a leggere e leggemmo
solo parole
disimparammo a scrivere
e scrivemmo solo parole
disimparammo a guardare
e vietammo l’imprevisto
disimparammo ad ascoltare
e facemmo del mondo un nulla
ricordate lodi
ci fecero esultare
e come allora chiudemmo occhio
su chi lodava
(in cuor nostro
a nostra volta lo lodammo
sedendoci comodi
e terrorizzati sul divano
con nostri fantasmi)
è così banale il meccanismo
della gloria
come quello di far danaro
proprio ieri pino diceva
che chi pur avendo necessario
non si sente ricco
non gli resta
che sbattimento all’infinito
dell’accumulo
e suggeriva sorta
di pietà per questi avidi
a cui le cose
non bastano mai
come in film di woody allen
quando attore conclude
battuta in arguzia:
poverini quelli, additava, fanno sesso
ché non sanno fare arte
eppure sia pure in breve
raggio da giovani il mondo per noi
era più largo
potevamo per ore stare su scoglio
e lasciare alle mattine loro luce
(giulia chiama meraviglia
questa improvvisa slabbratura
del tessuto del mondo
che lo rivela)
e forse non era altro il segreto
di questa scena che lo starcene
in silenzio nella parte
che non conta
un pò di polvere
mista a ghiaccio
in coda
di cometa
(come ieri andando a trovare
ragazza che suona violoncello
neanche ha cominciato
che d’un tratto musica non era più
importante e l’arte in quel momento
era lenire dolore
a destino squadernato)
e questo fu forse riprendere
a guardare
e questo fu forse riaccogliere
imprevisto su altra corda
riprovando l’aria
la terra comincia dalle nostre case
il cielo comincia dai nostri occhi
e folata più forte
di vento scompiglia
in questo momento duna
nel deserto
ma quella
che si alza vorticosa
e quella che resta appena
smossa
è sempre la stessa
sabbia
(non sapremo mai dire
che è abbastanza)
(….)
Da Versi Nuovi, Oedipus Ed. 2004
[Annotazioni di lettura di Giuliano Mesa e Giulia Niccolai sono reperibili rispettivamente nel numero 20 e 26 de il Verri. Si possono leggere anche qui . L’intero libro in formato pdf è scaricabile qui. B.C]