Cinque domande sul bookpride

poster_def_donna_cornice2a cura di Giorgio Mascitelli

( Dal 27 al 29 marzo a Milano, ai Frigoriferi Milanesi in via Piranesi 10, si terrà il bookpride, fiera dell’editoria indipendente, promossa dall’osservatorioa degli editori indipendenti ( ODEI). Ho fatto qualche domanda allo scrittore Pino Tripodi di Doc(k)s, tra gli organizzatori, sull’iniziativa)

Il 27-28-29 marzo prossimi a Milano, si terrà il book pride, la prima fiera degli editori indipendenti, promossa dall’osservatorio degli editori indipendenti (ODEI) e organizzata da doc(k)s – strategie di indipendenza culturale. Si tratterà soltanto di una fiera, in cui sarà possibile trovare libri della produzione indipendente magari non sempre facilmente reperibili con l’accompagnamento di alcuni eventi culturali, oppure c’è un progetto più ampio?

Spero non rimanga solo una fiera. Si tratta di segnare una svolta importante nel processo di indipendenza culturale, di uno strumento – tanti altri ne dovremo inventare – per sopravvivere in un mercato, quello editoriale, che è oligopolistico nella produzione e semimonopolistico nella distribuzione. Senza culture, organizzazioni e strumenti dell’indipendenza culturale non sono a rischio solo tante case editrici; il rischio concreto è la distruzione della bibliodiversità. Il paesaggio urbano – con la distruzione metodica delle librerie indipendenti – già registra una forte riduzione della bibliodiversità. I media registrano una omologazione culturale senza precedenti. Ma anziché sollevare solite lagnette contro la barbarie, contro il libro spazzatura – riflesso della massificazione del junk food – è forse il momento di intraprendere pratiche di cooperazione con cui salvaguardare l’autonomia di ciascuno sviluppando l’indipendenza di tutti.

 

Come mai è stata fatta la scelta di non mettere un biglietto d’ingresso per la fiera?

In un mercato che si contrae anche per i morsi della crisi, far pagare un biglietto ci sembra eccessivo. Che un lettore debba pagare per poter comprare – è ciò che avviene in qualsiasi fiera – è inoltre un segno della protervia dell’organizzazione culturale ed economica dominante.  Bookpride non deve lucrare sui lettori, anzi li vuole aiutare ad emanciparsi dalla monocultura imperante, a diventare cooproduttori della comune indipendenza. Per fare ciò, per rendere possibile la più ampia partecipazione, abbiamo scelto di non far pagare il biglietto. BOOKPRIDE si finanzia con il pagamento degli stand degli editori. È uno sforzo economico che speriamo di sostenere. Non vi dovessimo riuscire, credo che nelle  edizioni dei prossimi anni dovremo studiare modalità di pagamento originali.

Negli ultimi decenni si è affermata una tendenza a considerare e a rivendicare, nel mondo dell’editoria, il fatto che il libro sia una merce come le altre, salvo per alcuni aspetti fiscali. Come si colloca il Book pride, rispetto a una tendenza del genere?

Ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla peculiarità della merce. Discorso su cui la cooperativa doc(k)s fa molta attenzione. Tanto che per indicare il criterio che ci ha indotto a  organizzare l’enoteca indipendente all’interno del bookpride abbiamo scritto “L’oggetto vero della produzione non è la merce, ma è la vita”. Il libro, in quanto oggetto di scambio e di compravendita, è una merce. Come ogni altro prodotto, nella misura e nella modalità in cui viene scambiato, è indice di devalorizzazione cioè di riduzione della vita a merce. Ma la coda può e deve essere presa dall’altro versante cioè dal fatto che ogni merce – nel processo di progettazione, produzione, distribuzione – costruisce delle modalità d’esistenza. In ogni merce è possibile vedere con chiarezza le forme di vita che sono messe in gioco. Ogni merce è lo specchio fedele delle relazioni sociali e produttive. Chi intende trasformare queste ultime non può fare a meno di ripensare tutto il ciclo della merce trasformando se stesso come soggetto di relazione.

Il libro in questo discorso assume un’importanza particolare perché, come ogni altra merce, ha la sua peculiarità. L’assurdo del mercato dominante è pensare ogni merce semplicemente come merce-denaro. Il mondo dell’editoria dominante è pieno di gente che pensa: non dobbiamo vendere libri, ma spazi; non dobbiamo produrre libri, ma prodotti; non dobbiamo produrre cultura, ma confezionare cose facilmente leggibili e vendibili. È pieno persino di professionisti del libro – manager, direttori di collane, editori – che vanno fieri di non leggere neanche ciò che pubblicano. Così fanno male alla cultura del libro, certo, ma anche alla sua economia. In questo disastro, occorre rivendicare la peculiarità del libro, una merce in grado di riflettere immediatamente il grado di cultura, di civiltà, di complessità dell’organizzazione sociale.

Alcuni degli organizzatori, tra i quali tu, vengono dall’esperienza di Critical wine di una decina d’anni fa sempre a Milano. C’è un filo politico e culturale che unisce queste due iniziative?

Certamente. Partecipando a quell’esperienza, a quella successiva di Criticalbook&wine e a DeriveApprodi ho avuto modo di conoscere alcune filiere produttive importanti. In esse, nonostante le profonde differenze, accanto ai processi di concentrazione, di omologazione, di svalorizzazione dei prodotti sono nati formidabili esperienze di resistenza grazie alle quali si producono le vere eccellenze della cultura materiale e della cultura libraria di questo Paese. Queste esperienze anziché concentrarsi vanno diffuse, anziché entrare in concorrenza devono riuscire a cooperare. Hanno fatto di tutto per rimanere autonome, è arrivato il momento di divenire indipendenti.

Gli editori hanno lamentato in questi anni una flessione di vendite molto marcata, che non puo’ essere spiegata solo con la diffusione del libro elettronico, né tanto meno con la crisi generale, visto che il mercato librario aveva un andamento tendenzialmente anticiclico. Pensi che in un contesto del genere ci sia spazio per un circuito dell’editoria indipendente?

Sì, a condizione che gli editori indipendenti costruiscano spazi di produzione, di promozione e di distribuzione alternative a quelle dominanti. Per la filiera del libro dovrà chiarirsi quello che è già lampante nella filiera del food & wine: chi desidera cibarsi di spazzatura, vada pure nel supermercato del libro, chi invece vuole che produzione del libro e produzione di cultura siano più assorellati si rivolga agli editori indipendenti. Ciò vale anche per gli autori, i quali saranno chiamati a scegliere. Senza sviluppo delle reti d’indipendenza, l’eccellenza dell’editoria italiana continuerà a lavorare gratis per i gruppi oligopolistici, come già fa.

 

 

 

 

 

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