Musica delle sfere
di Sergio Pasquandrea
Monk non è niente male, a ping-pong. È proprio come quando suona il piano: la racchetta arriva quando meno te l’aspetti. Ti prende alla sprovvista. Il suo ritmo ti prende alla sprovvista, perché colpisce la palla all’ultimo momento. Il ping-pong ha un suo ritmo: ping-pong-pada-bong, boom–boom. Ma Monk non fa boom-boom, Monk fa bapp! Ti aspetta al varco. (Charles Mingus)
Il gran sacerdote del bebop?
Le poche volte che la critica dell’epoca si occupava di Monk, amava definirlo «il Gran Sacerdote del Bebop» (pare che la definizione risalga ad Alfred Lion, il manager della Blue Note). E in effetti Monk esercitò un ruolo decisivo nella nascita di quello stile: era il pianista fisso del Minton’s, godeva del rispetto di Dizzy Gillespie, Art Blakey, Miles Davis. Bud Powell fu un suo protegé e Kenny Clarke affermò di aver escogitato i suoi celebri controtempi sulla batteria (le «bombe», come venivano chiamate all’epoca) ascoltando il modo in cui Monk accompagnava al pianoforte. Brani suoi, come 52nd Street Theme, Epistrophy, ‘Round Midnight entrarono stabilmente nel repertorio dei boppers. Gli anni del Minton’s furono anche quelli in cui il suo stile raggiunse la maturità: se si confronta il Monk del 1941 con quello che nel 1944 incide alcune tracce insieme a Coleman Hawkins, si ravvisa chiaramente l’evoluzione da uno strumentista dotato ma ancora acerbo a un musicista già dotato di una propria spiccata personalità.
Sta di fatto, però, che quando a metà anni Quaranta il bebop esplose come la new thing del jazz, le copertine dei giornali furono tutte per Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Monk faticava persino a trovare lavoro e rimase, per almeno altri dieci anni, una figura misconosciuta, un musicians’ musician largamente ignoto al pubblico e snobbato persino dalla critica specializzata. Le prime registrazioni a suo nome furono realizzate nel 1947, quando aveva già trent’anni; ma bisognerà aspettare la fine del decennio successivo prima che la sua statura artistica sia riconosciuta in tutta la sua grandezza.
Ciò pone il problema del suo effettivo legame con il bebop. E a ben guardare, il suo stile maturo sembra avere ben poco da spartire con l’eccitazione cinetica e l’esacerbazione tecnica del bop. Vi si possono senz’alto individuare somiglianze: il gusto per la dissonanza e per le linee melodiche angolose, la predilezione per le forme AABA, con il tema esposto all’inizio e ricapitolato alla fine. Ma per molti altri aspetti Monk sembra l’esatto opposto del bop: dove i boppers esaltavano la velocità, Monk accentuava le pause, i silenzi, lo spazio vuoto.
Non si tratta tanto di “mancanza di tecnica”, della quale spesso Monk veniva accusato, quanto di una volontaria rinuncia ad essa. Invece di esibire la propria tecnica, Monk sembrava mirare a scarnificarla. «Certe volte suonavamo come fulmini per tutta la notte al Minton’s», affermò in un’intervista del 1965. «Poi mi sono stufato di suonare sempre veloce. Finisce che diventa una cosa automatica e alla fine non sei più capace di suonare diversamente». Durante un blindfod test per la rivista Downbeat, gli fu proposto un suo brano, Rhythm-A-Ning, eseguito dal quintetto di Art Pepper: «Sembravano assoli lenti accelerati (slow solos speeded up)», commentò con il suo solito humour sottile.
Stefano Zenni ha parlato efficacemente di «gesti del bebop […] isolati e resi iperbolici, così da rovesciare lo stilema in dettaglio idiosincratico»: e in effetti ciò che nel bebop diventa facilmente cliché – l’intervallo di quinta diminuita, le melodie zigzaganti, la frase iperveloce – in Monk viene adoperato come elemento di un’estetica che fa dell’assoluta originalità la propria condizione irrinunciabile.
L’angolo giusto
«Va indiscutibilmente evitata quella disgraziatissima posizione colle dita tese e rigide, tuttora prescritta da troppi insegnanti che meglio meriterebbero il nome di ciarlatani, vergognoso pseudo-insegnamento del quale ognuno di noi può oggi ancora constatare ovunque gli infelici e quasi sempre irreparabili risultati». Così s’indignava Alfredo Casella, a pagina 97 del suo – peraltro interessantissimo e tuttora validissimo – libro Il pianoforte.
Esistono numerosi filmati che mostrano Monk suonare (molti di essi sono disponibili su YouTube). Ebbene, ciò che salta all’occhio è la posizione delle mani: esattamente quella deplorata da Casella, «con le dita tese e rigide». Di più: Monk colpisce i tasti cadendovi sopra quasi in verticale, adoperando l’intero avambraccio, con un attacco aspramente percussivo. Siamo all’esatto opposto di quell’economia di movimenti che è l’obiettivo principale della tecnica classica, la quale ha come scopo – secondo le parole del pianista e didatta Gyorgy Sandor – di «imparare a sincronizzar[e i muscoli] nel modo che comporti il minore sforzo possibile», in modo da evitare gli «inconvenienti (tendiniti, borsiti, ecc.) che nascono da modi errati di studiare, quali il continuo abuso dei muscoli, il forzare e l’irrigidire e giunture, l’eccessiva pressione sulla tastiera».
Laurent DeWilde ha paragonato l’impostazione di Monk a quella di un vibrafonista, cogliendo così l’aspetto sostanzialmente percussivo del suo stile. E in effetti, se si volesse cogliere la matrice generativa della musica monkiana, essa sarebbe da ricercare da una parte nel suono, dall’altra nell’impulso ritmico, che è sempre netto, tagliente, assolutamente infallibile. Milton Stewart si è spinto oltre, sostenendo che nell’impostazione di Monk risalirebbero alla luce memorie ancestrali della mbira, l’antico «piano a pollici» africano, con il quale sarebbero rintracciabili precisi parallelismi esecutivi.
Nel caso di Monk, l’impostazione corporea è inseparabile dalla concezione timbrica. Il suono di Monk, anche come risultato di quella posizione delle dita così antiaccademica, è aspro, tagliente, e allo stesso tempo luminoso, come un brillante le cui sfaccettature riflettano e moltiplichino la luce. Brilliant Corners («spigoli brillanti»), titolo di una sua composizione, è anche una descrizione perfetta del suo suono.
Quel sound, del resto, fa parte di una più generale propensione monkiana verso la dissonanza elevata ad elemento strutturale. Intervalli dissonanti come seconde minori, none minori, tritoni sono da lui usati senza la preparazione e risoluzione che la teoria musicale classica riterrebbe indispensabile. Gli stessi accordi sono spesso disposti in posizioni (voicings, secondo la terminologia jazzistica) non ortodosse, studiate in modo da creare deliberati urti fra note all’apparenza incompatibili l’una con l’altra. In ciò, egli si riallaccia da una parte a una precisa tradizione stride (in James P. Johnson e in Duke Ellington, tanto per fare due nomi, si possono ritrovare tecniche analoghe), dall’altra a una più ampia concezione sonora tipica del jazz. Scrive Stefano Zenni:
Un pianista jazz concepisce tocco, armonia e colore fusi in un unico gesto. È un procedimento opposto a quello dell’interprete classico, che ricerca il tocco più adeguato per rendere le armonie di una partitura. Nel jazz invece domina una concezione olistica in cui non è possibile scindere la disposizione degli accordi, l’immaginazione timbrica e il tocco sullo strumento: il mondo percussivo e risonante di Monk e le vibrazioni tattili e sensuali di Bill Evans sono lì a dimostrarlo. La sintassi armonica del jazz è anzitutto un flusso di colori.
Del resto, proprio quegli aspri urti sonori gli permettono di esaltare gli armonici interni di ogni accordo, amplificandone la sonorità (come afferma DeWilde: «[nel]la musica di Monk […] crediamo sempre di sentire più note di quante ne stia veramente suonando. Dobbiamo continuamente chiederci: la suona veramente, quella, oppure ho semplicemente l’impressione di sentirla?»). Una tecnica che richiede un’assoluta padronanza del tocco e dei registri strumentali, e che fra l’altro gli consente di risolvere uno dei più annosi problemi del pianoforte jazz: la resa delle blue note. Monk usa spesso una soluzione peculiare, che consiste nel percuotere simultaneamente due note a distanza di semitono, rilasciandone poi una: l’effetto evoca in maniera straordinariamente precisa il bending, ossia quel modo di «piegare» le note tipico dei cantanti e dei chitarristi blues (uno degli esempi più chiari è il Just A Gigolo inciso in piano solo sul disco MISTERIOSO, Riverside 1958).
In altri termini, Monk impiega il tipo di approccio al pianoforte necessario ad ottenere il tipo di risultato sonoro che egli ha in mente. E lo fa in maniera assolutamente consapevole e pianificata. Del resto, fu proprio Bill Evans – pianista all’apparenza del tutto opposto rispetto a lui – ad affermare che Monk «sa esattamente che cosa sta facendo, dal punto di vista teorico: è organizzato, probabilmente, secondo una terminologia personale, ma comunque fortemente organizzato. […] Monk si accosta al pianoforte – e, aggiungerei, anche alla musica – come da un angolo, ed è l’angolo giusto per lui».
tratto da Breve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e nero, Arcana, 2015