cinéRÉSISTANCE #01 FAUSTO FORNARI Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana [1952]
1945-2015: un cambio di millennio e 70 anni di distanza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla Resistenza che cosa hanno lasciato nella memoria collettiva dello strano paese di segreti, rimozioni e persistenza che siamo? Che per anni non ha saputo raccontare la sua Storia recente nelle scuole, dove i programmi si fermano quasi sempre alla Prima Guerra Mondiale? Che ha permesso alla sua destra di mantenere un sostrato, mai defascistizzato completamente, di simboli, gesti, idee malsane, negazionismo strisciante? Ascoltando ⇨ le interviste di strada su che cosa sia il 25 aprile, il ventaglio di risposte assurde ci fa capire che alla fine non è rimasto poi moltissimo di quei momenti cruciali e fondanti. Mai abbastanza. Allora come raccontare all’oggi lo ieri? Negli anni ’70 tutto era politico, da il personale al voto ecumenicamente assolutorio degli esami universitari, ma oggi, passando dal tutto è arte, lungo tutti gli anni ’80 e ’90, attraverso un confuso periodo in cui le cose non furono più solo le cose, non solo pane e non solo frutta e non solo libri e non solo qualsiasi cosa, si è arrivati al dogma che tutto è narrazione, racconto, spesso per vendere meglio prodotti. Tutto si scrive da solo. Tutti scrivono, scrivono tutti. Scrivono anche senza scrivere. Parafrasando il ogni istante è già memoria di Bergson, oggi ogni istante è già narrazione. Non c’è più bisogno di operazioni transitive e di soggetto e complemento oggetto. L’universo è riflessivo, il presente si racconta da solo trascorrendo. E allora chi racconta il passato? Solo le testimonianze, quelle che ci hanno lasciato i protagonisti, gli ormai pochi soravvissuti, i documenti originali, un vastissimo archivio di fatti, storie ancora poco conosciute, in cui la parola scivolosa e infida della fiction prova a fare un passo indietro, con rispetto.
Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, uscito per Einaudi nel 1952, da cui il breve documentario di Fausto Fornari trae alcune testimonianze emblematiche per calarle nei luoghi e nel clima delle loro vicende, è un libro fondamentale per lo studio della storia della Resistenza. Attraverso le parole accorate ma lucidissime degli ultimi messaggi dei condannati, scritte in fretta, spesso su fogli di fortuna, incise con il temperino sulle pareti della cella, di fronte alla morte prossima, emerge il vero volto del popolo, operai, contadini, intellettuali, religiosi, donne, uomini, giovani, vecchi, che ha sconfitto il nazifascismo. Parole spesso minime, domestiche, con una grammatica elementare, di fede popolare, o alte di ideali politici, istruite, di profonda fede spirituale, insieme tracciano la commovente mappa di chi scelse e si ribellò, trovando nella morte, come nella vita, la dignità e il coraggio. Parole piene di futuro, di speranze per il futuro nel loro presente di sacrificio, nelle certezza che esso sarebbe servito a costruirlo questo futuro.
Il documentario di Fausto Fornari apre questo libro, legge fra le sue pagine, sceglie alcune delle lettere e cerca di incarnare le parole nei visi, nei luoghi dove si sono svolte le vite e le vicende, lungo i muri tetri delle carceri, i posti delle esecuzioni. Senza retorica, con un montaggio e una asciutta e poetica scelta di immagini tutto si radica nella storia, acquisisce quella tridimensionalità che si stampa concretamente nella memoria, indelebile. Non è facile restare con gli occhi asciutti ed è una commozione che non nasce da artifici narrativi, ma da una concretezza severa, dalla verità che ci parla senza filtri, ancora dopo 70 anni.
In una ⇨ interessantissia intervista sul sito ⇨ www.ultimelettere.it Fausto Fornari racconta la storia non facile del suo documentario, totalmente autofinanziato, in primo luogo la difficoltà ad avere i diritti da Einaudi, inizialmente diffidente sull’operazione:
Non mi fu facile, in un primo tempo, convincere Pirelli e Malvezzi a concedermi i diritti. Non riuscivano a capire come si potesse realizzare un documentario sulla base di sole lettere e mi chiesero se intendevo filmare i manoscritti.
Avevano ragione di fare la domanda.
Fino ad allora, infatti, i documentari, in genere, erano costituiti da una serie di immagini, più o meno in movimento, riproducenti facciate e interni di chiese, di fabbriche, di scuole, di ospedali.
Oppure i mestieri, la fabbricazione di prodotti.
Ripeto, in genere, freddi, noiosissimi album di foto.
Poi, dovetti convincere Giulio Einaudi, intelligente, coraggioso editore, ma freddo come il più freddo dei piemontesi.
La difficoltà in genere in quegli anni a parlare di Resistenza, in un clima di guerra fredda, di desiderio di dimenticare e di rimuovere:
Devo necessariamente generalizzare e semplificare. Dopo la fine della guerra, la ripresa dell’espansionismo sovietico porta alla guerra fredda.
Gli italiani del Nord, in parte divenuti antifascisti sotto i bombardamenti aerei o sui fronti di guerra, o nel disgusto e nel terrore delle violenze naziste davanti ai loro usci di casa, nelle privazioni e nei lutti, si dividono fra coloro che si dichiarano amici dell’Unione Sovietica e con essa si schierano e coloro che avversano la non improbabile presa di potere dei primi, nel timore di perdere, insieme ai propri beni materiali, anche la appena ritrovata libertà.
Anche a causa della sinistra di allora, che ne aveva dato un’interpretazione troppo di parte, e della stessa ANPI, che non mancava di esprimere simpatie filosovietiche, la Resistenza non è più vista, con unanime favore, come espressione di un popolo intero ansioso di pace e di libertà.
Togliatti, che alla Resistenza non aveva partecipato, fiuta la situazione e dice agli ex partigiani di stare buoni, che la Resistenza era stata un intermezzo, esaltante fin che si vuole, ma effimero.
Al Sud, dove non v’era stata, praticamente, soluzione di continuità fra la guerra lontana da casa e gli sbarchi alleati, si era passati, nell’endemica situazione di miseria e di sottocultura, dall’euforia bellicista all’euforia della pace americana. Le drammatiche giornate di Napoli non bastano a cambiare una sedimentata realtà.
Al Sud, allora monarchico e conservatore, la Resistenza, sconosciuta, era un trascorso del Nord da dimenticare.
I romani avevano duramente sofferto, ma la città liberata continuava ad esser retta dagli alti e bassi burocrati di sempre, immobili come statue fra nostalgie del recente passato e timore di un futuro incerto.
In tutt’Italia, con la rinuncia ai processi di epurazione e di esproprio dei beni accumulati illecitamente, la classe dirigente era sempre la stessa.
La società, come scrive Parri, “rimane, così pigramente ancorata, in tanta sua parte, ai retaggi del passato”.
Poi il successo alla Mostra di Venezia e, come da copione, la mancata successiva distribuzione:
Ma il clima politico e morale era tale, a quei tempi, che nessun distributore se ne volle occupare.
Nemmeno il presidente della più importante casa di produzione e distribuzione di cortometraggi del tempo.
Mi pare fosse la Documento film, chiedo scusa se ricordo male. Questo signore, guarda un po’, era Medaglia d’oro, ovviamente vivente, della Resistenza.
Molto gentilmente mi liquidò così: “Lei ha molto talento; mi faccia cento film su qualsiasi argomento, glieli compro tutti a scatola chiusa. Ma la Resistenza, no. L’argomento è finito e nessuno ne vuole sapere più”.
La vicenda stessa del film, quindi, ci apre uno spaccato significativo su quello che è stato il nostro dopo guerra, pieno di speranza, di attese, ma anche di non capacità e volontà di avere uno sguardo oggettivo sulla sua storia e di conservarla per le generazioni future.
[citazioni da Ultime lettere di condannati a morte e
di deportati della Resistenza italiana
http://www.ultimelettere.it, on line dal 26 aprile 2007
INSMLI, visitato giovedì 23 aprile 2014.]
Segnalo uno strano refuso nel testo dell’articolo, dove Fausto Fornari diventa Franco Fornari.
Alla famiglia appartiene Maria Luisa Fornari, madre di Giacomo Ulivi, fucilato a Modena il 10 novembre 1944, la cui lettera-testamento, con il noto appello all’impegno per la “cosa pubblica” è stata ricordata anche nell’ultima intervista del presidente Mattarella.
Grazie mille della segnalazione.
Ho corretto.