Le interviste possibili: Raul Montanari
di
Bernardo Zannoni
Ho iniziato a leggere il Regno degli Amici che avevo poco da fare; tenevo il telefono staccato, non avevo appuntamenti, non volevo sentire nessuno, tantomeno me stesso.
Siccome fuori c’era anche un ottimo sole, ho pensato bene di lasciarlo a chi avesse il sorriso abbastanza facile da festeggiarlo, il silenzio di casa mia era il più bello degli amanti.
È un libro che non si perde in fronzoli, in arcuati giri di parole, dopo due pagine si viene scaraventati nella già scialba Milano degli anni ottanta e nell’arsura della sua estate, le facce dei protagonisti emergono dalle parole e ti si incollano agli occhi così come le situazioni a cui si prestano.
Ha un ritmo veloce, compatto, regolato da una punteggiatura ferrea; ogni frase lascia posto all’altra così come un capitolo incalza il seguente, si viene costretti su due binari che non possono finire che nella riga successiva e in quella dopo ancora.
Se all’inizio si vive l’esperienza dell’amicizia tra un semplice gruppo di ragazzi, il ritorno a quel mondo segreto e pieno di scoperte che è l’adolescenza, la vera polveriera del romanzo è data dal personaggio di una ragazzina. Se infatti in un primo momento mi ero trovato più tra i vortici delle mie memorie giovanili che sulla storia in sé , il libro si riprende l’attenzione del lettore con un personaggio vivo, autentico, talmente genuino per come viene descritto, per come viene fatto parlare, muovere, agire all’interno della storia, che non si può non provare le stesse emozioni dei protagonisti. Lo stesso personaggio poi sarà il medesimo che spezzerà l’equilibrio della storia, che farà precipitare la trama in una lenta e dolorosa serie di eventi, che porterà ad un finale inatteso, clamoroso, ai limiti del surreale. Montanari con questo libro si dedica per la prima volta al mondo della pubertà, e se non in maniera delicata, lo fa in un modo tutt’altro che banale.
Rispetto ai tuoi libri precedenti, nel Regno degli Amici ti dedichi interamente al mondo dell’adolescenza. Perché hai scelto di far muovere dei ragazzi nella tua storia?
Anzitutto perché considero l’adolescenza l’età decisiva per la formazione dell’identità personale; penso che durante la pubertà ci si incontri con se stessi una volta per tutte, nasce il nostro vero Io, lo identifichiamo per la prima volta.
In secondo luogo perché è l’età metafisica: in nessun’altra stagione della vita ci poniamo domande così radicali su noi stessi, sul destino, sulla vita. Quando si è più piccoli non si ha la lucidità necessaria, mentre da adulti il nostro rapporto con il mondo è scandito da una molteplicità di minuzie che ci distraggono dal porci delle questioni fondamentali.
Per finire, l’adolescenza è anche il terreno di scontro fra l’amicizia e l’amore; la prima è basata sulla condivisione e sull’equità, il secondo invece ha una forza dirompente e si propone come sentimento di possesso esclusivo. Nel romanzo infatti, Demo vive l’amore per Valli clandestinamente, come un tradimento verso il gruppo, e questo porterà ad un evento traumatico che cambierà il tono della narrazione.
Rispetto ai personaggi e alla trama, appunto, si potrebbe definire il tuo libro come un’opera post-noir, ovvero il distaccarsi dalle figure tipiche del giallo per far vivere la storia a personaggi più ordinari. Quali sono i vantaggi di uscire da certi schemi?
Non sento un particolare bisogno di staccarmi dalle figure del giallo, perché dopo aver pubblicato qualche romanzo noir negli anni novanta, mi sono dedicato a tutt’altro. La critica però ha insistito a definirmi sotto quest’etichetta, e allora ho coniato il termine post-noir proprio per indicare un superamento del genere.
Il giallo, come tutta la narrativa del genere, presuppone l’eccezionalità già nei personaggi (detective, assassini…) oltre a seguire schemi ben fissati (enigma-indagine-soluzione…); io racconto storie di persone normali che si ritrovano a vivere situazioni d’eccezione, dove la violenza fisica è uno dei possibili sbocchi a rapporti che oltre un certo limite diventano ingestibili. Cosa rimane del noir? Quello che storicamente l’ha preceduto: la tensione narrativa, il gusto di incollare il lettore alla pagina.
Ecco, a proposito della violenza fisica, della tensione crescente nei tuoi racconti: perché fare sfociare una trama che si evolve sulle note di un amore giovane in tragedia? Perché hai scelto di far perdere l’innocenza di Demo con il sangue, piuttosto che con la scoperta del sesso?
Mi interessava che questa perdita dell’innocenza fosse collettiva e non individuale. Data la sua inesperienza e insicurezza, Demo vive la sessualità come qualcosa di attraente e al contempo di minaccioso, e sulla pagina il risultato di questo atteggiamento è una scrittura che rasenta il comico pur essendo legata a sentimenti profondamente personali del protagonista. Quando invece avviene il trauma è affascinante vedere la reazione del gruppo, il suo ricompattarsi intorno a quello che in fondo è il tradimento di uno di loro verso tutti gli altri. Oltre a questo ci sono dimensioni della maschilità e dell’adolescenza che sentivo il bisogno di mettere in scena: la violenza, la rabbia, il desiderio di vendetta che supera ogni calcolo delle conseguenze. Sono meccanismi narrativi che potevano scattare solo nel modo in cui ho raccontato gli eventi.
Il personaggio della ragazzina, Valli, ribalta completamente il senso dl romanzo. È una figura palpabile, viva, ammalia tanto i protagonisti quanto il lettore. Si nota che, rispetto alle descrizioni degli altri, non ti soffermi solo ai connotati e al carattere, scendi molto più in profondità. Ti sei ispirato a qualcuno? Magari ad un amore passato…
Per la verità mi sono ispirato ad un amore presente, Valli infatti è la mia fidanzata. Naturalmente non ha l’età del personaggio del libro, anche se la prima volta che l’ho vista aveva giusto un anno di più della ninfa della Martesana; ancora oggi il suo aspetto fisico ha dei tratti adolescenziali per cui non si fa nessuna fatica ad immaginarla pescare le tinche con la rete come nel romanzo. Come dice Stevenson, è rarissimo creare un personaggio dal nulla: di solito si copia dal vero oppure si combinano elementi di più persone reali. Un’eccezione a questa regola invece è Ric Velardi, figura decisiva comparsa anche in due miei libri precedenti; non ho idea da dove sia uscito, non assomiglia a nessuno che io conosca.
Un ultima domanda allora, Raul: nei tuoi racconti ci si imbatte spesso nella tematica del destino, nel dilemma della fede e sulla probabilità dell’esistenza di un disegno superiore dal quale è impossibile sottrarsi. Qual è il tuo rapporto con questi elementi?
Se ti riferisci a Dio, un sentimento di nostalgia. Per me, come del resto per la maggior parte delle persone, era molto più facile vivere quando avevo quella fede ingenua da bambino, che proprio all’affacciarsi nell’età di cui abbiamo parlato è crollata sotto l’attacco simultaneo dei primi dubbi intellettuali e delle tempeste ormonali. Io ho nostalgia di Dio, è un dolore indimenticabile arrivare a credere che non esista, un danno atroce. Per questo, fra l’altro, ho una speciale simpatia per chi è riuscito a mantenere questa fede anche nel mondo problematico dell’età adulta, sempre l’abbia fatto con intelligenza.
Se invece ti riferisci al destino in senso proprio, penso che lo scontrarsi del libero arbitrio con il fato sia una grande tematica narrativa, il tema topico della tragedia greca. Trovo che la narrativa sia molto superstiziosa: perfino quando il narratore, come persona, è devoto al rapporto causa effetto dell’universo newtoniano, spesso non può fare a meno di inserire nella storia anticipazioni, presagi destinati ad avverarsi, divieti la cui trasgressione conseguirà una punizione inevitabile. È normale per uno scrittore credere che esista un copione già scritto a lato delle nostre vite, perché è esattamente quello che lui crea per i suoi personaggi; non a caso in una pagina del romanzo Demo osserva: “anche i personaggi di un libro credono di essere liberi, in fondo”.
Notebook
di
Francesco Forlani
Due tre cose che mi piacerebbe dire a proposito dell’ultimo libro di Raul Montanari
Ci sono dei libri da camera da letto, da leggere al chiuso e altri da panchina, assolutamente da sfogliare all’aperto. La cosa non dipende tanto dal contenuto, né tanto meno dalla voluminosità, quanto dal ritmo, dal passo che lo stile dell’autore porta sulla pagina. Tale andatura si associa, nella maggior parte dei casi, a una vera e propria “diagnostica” del lettore. Se alla lettura al chiuso corrisponde il campo della malattia, senza fare distinguo tra anima e corpo, dando per scontato quanto tutti sanno già della loro assoluta adesione ad una sola e unica natura, a quella all’aperto direi che si lega il terreno della convalescenza.
Ho appena finito di leggere l’ottimo romanzo, il regno degli amici, su una panchina di fronte alla Dora, e quasi immediatamente mi si sono poste due domande. La prima, da cosa derivasse una così forte attenzione da parte dei romanzieri al tema dell’adolescenza e dall’altra se si potesse definire quell’età come “dell’eterna convalescenza”. Non voglio qui riprendere le magnifiche considerazioni di “baffone” Niietzsche sul tema, ma lasciare parlare i personaggi del romanzo, intervistarli quasi, inventando domande cui gli stessi rispondessero attraverso i tic, le fobie, le ossessioni di una consorteria tutta adolescenziale. Che cosa ci raccontano loro, senza dire, nella loro mutezza e mutevolezza dei corpi di fronte ai grandi cambiamenti della storia, a una mutazione antropologica tanto inarrestabile quanto inevitabile?
Molte, tantissime cose che la sincerità della narrazione, il rigore mimetico dell’autore, offrono al lettore attraverso un uso intelligente della composizione, l’alternarsi dei fatti con la loro elaborazione che l’io narrante inscena senza mai cadere nella tentazione dell’onnipotenza di tanti narratori odierni. C’è un luogo, la casa abbandonata, un tempo, l’estate dell’82, una storia che è quella di un ristretto circolo di sognatori costretti al risveglio da incubi che l’irrazionale violenza del male riserva loro mettendo a dura prova ogni più autentica purezza. Perfino l’anima sanguina in queste pagine, nelle rêverie dei protagonisti, come quando ai ragazzi sanguina spesso il naso, ma si diverte anche, inventa ipotesi di cielo pure quando tutto sembra avvolto nel mistero, nel buio senza stelle. Nella convalescenza c’è innanzitutto il ricordo della malattia, la paura delle ricadute, la ripetizione dell’esperienza del dolore e come ognuno di noi sa, la trappola mortale è non capire fino in fondo quanto l’epoca della malattia possa alla fine rivelarsi come la più breve e intensa parentesi di autentica felicità.