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Diario della baldanza

Davide Castiglione

Un’oncia di sprezzo sta alla base della grandezza. Da che pulpito: il mio. Solo se alla base dello sprezzo sta un fregio di umiltà tuttavia, quale è inciso nella tavoletta che dice della campana immobile in mostra nello spiazzo mattonellato dove l’aria arriva a fermare le corde vocali della fruttivendola. Perché noto questo? Perché sto camminando e solo per i prossimi ora quindici minuti potrò essere utile.

 

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Voi che siete per lo sbiadito amorfo, vi consiglio un giallo violento, un incendio elementare e primario. A me, qui dal counselling desk, la composizione sembrerà comunque migliorabile.

 

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L’arguzia retorica del controllore (sul treno i biglietti si pagano tre euro più quaranta euro) mi estasiò, ma poi il contenuto giunse in direttissima. La signora rumena seduta accanto a me aveva avanzato una debole obiezione; poi, dignitosamente, aveva lasciato lui solo a godersi quel teatrino, le luci connazionali e conniventi degli sguardi da ogni angolo del vagone su di lui.

 

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Il bimbetto fa una marcetta in cerchio, come se girasse sul triciclo, calcando l’affondo del piede sul parquet, come se facesse fondo in montagna. Mentre la madre esagera nel fingersi indaffarata nella stanza accanto, e io la aspetto per una fattura imprecisata, lui innalza e mantiene una nota quasi di soprano, un filo sonoro neogotico che ha dell’inquietante. What a nice voice dico a un certo punto con una sincerità sinistra. Per tutta risposta lui mi guarda un attimo, poi di scatto si volta seguito dall’onda del caschetto biondo, e riprende la sua nota.

 

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E abbracciala, pezzo di merda… niente di personale, però lei continua a tamburellare le dita sulla tua gamba, e ti cinge il fianco. Mentre più in là nel divano c’è uno con l’espressione simile alla mia, solleva gli occhi, non regge l’intorno, si rituffa nel bicchierino di whisky. Più in là ma ormai giù sul parquet intercetto lo sguardo perso e speranzoso del giovane francese che basta essere lì perché c’è una specie di perfezione in tutto questo. Lei non solo continua il suo contatto a senso unico, ma ti guarda come se fossi un modulo della NASA sceso in terra a miracol mostrare. Per tutta risposta tu fai una smorfia squadrata, ma forse è il tuo modo di volere bene.

 

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Dove è l’implosione non sono io. Mi espando infatti, in gesti ed escrementi disseminati anche nei nodi del virtuale. Ingegnatevi a far sì che sia tutto giuntura, poiché fa paura la carne, cattolici o meno. Lasciati andare, attraversare da tutto mi soffi tu addosso, e cosa ci faccio allora qui ai limiti del passaggio pedonale, ad aspettare che l’omino stilizzato non imploda, diffonda verde.

 

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Mi viene da difendere gli impasti di immagini e speculazioni proprio come tendo a perpetuare i miei geni in molte delle ragazze che fisso. O come un capocuoco sulle sue. Le stelline in brodo non mi recano nessuna affezione ma sì una mitologia ardua da espellere. Venivano in età meno che liceale mischiate ai cartoni animati delle otto, prima della tristezza metafisica di andare a letto senza essersi conosciuti. Dopo ancora la verifica di matematica che si replicava di sogno in sogno con leggere varianti, ma sempre la mia vertiginosa mancanza di preparazione spiazzava me ancora prima dell’insegnante e del foglio protocollo.

 

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Avrà scritto il suo nome una ventina di volte solo negli ultimi due giorni: i moduli, si sa. Democrazia permettendo, li forzerei al Modulo Unico. Non è la prima volta che il tempo impiegato a scriverlo, la spropositata estensione di tutti i suoi caratteri in fila, gli recano una nausea febbricitante, sofisticata. Però non appena il rito serale di Skype prende una piega vivificante, con l’amore ritornato iperbole e rumore e centrifuga dello schermo, ecco che io accampa moduli e link, ripara io dietro barriere di moduli e link. Soppesa un paio di rifiuti a parer suo opinabili, inserisco l’ennesima password ennesima. Il file delle password, i miei organisational skills.

 

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Era da tempo che desideravo comporre un trattatello su questi batteri inesplorati che poi sono i non-tempi (non-minuti, non-ore, ma più sovente non-misurabili). Essi si intersecano nei non-luoghi (che già conosciamo bene) e generano un non inglobante che è sostanza collosa e incolore, un non che anziché lottare contro placidamente impedisce. Una ricognizione affatto pionieristica li definirebbe agguerriti momenti di calo, di (cito) “accorta manutenzione del ridicolo”. Exempla: lo svitamento della moka in solitaria; l’imbambolarsi sulle cifre digitali degli annunci; il coordinamento in simultanea, manageriale, dell’apertura di una porta e dello spegnimento di una luce. Quest’ultimo esempio in particolare è furbissimo perché i non-tempi fingono di dimezzarsi a beneficio di chi compie l’azione, ma poi in realtà raddoppiano la frustrazione, spalleggiandosi a vicenda e facendo posto a ulteriori non-tempi che spingono come forsennati.
Ognuno può produrre i suoi, di esempi, così puoi li mettiamo tutti in un bel mega-database. Però trattasi di impresa non facile. Quelli che ho testé proposto sono infatti batteri macroscopici, mostri che quasi li vedi a occhio nudo. Se fossero meno ovunque, la vita creativa ormai ridotta al lumicino potrebbe inventarsi fluorescenze atte a catturare i non-tempi più subdoli – quelli il cui automatismo non reca irritazione ma solo un consolatorio vanto, per dire. Ma sarebbe come chiedere a Dante di descrivere l’Altissimo. A questo punto il mio gruppo di ricerca si scherma dietro un “ulteriori studi sono necessari ecc” e si rintana in un non-tempo fatto a propria immagine e somiglianza.

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