L’Orsa maggiore di Charles-Albert Cingria
di Ornella Tajani
«Una fosforescenza che corre», secondo Jean Cocteau, un autore dotato di uno stile «grasso e morbido, con qualcosa di monacale», per Jean Paulhan; ma anche «uno con l’aria di un clown, o di un prete spretato», nelle parole di Henry Miller.
Charles-Albert Cingria nacque a Ginevra nel 1883 da genitori le cui origini si snodavano attraverso vari paesi: «Io non sono svizzero – diceva -, sono di Costantinopoli, cioè italo-franco-levantino»; il padre era un «falso turco», la madre franco-polacca, la famiglia proveniva dalla Ragusa dalmata, repubblica filiale di Venezia.
Umbratile e libertino, nottambulo e mistico, iconoclasta e vagabondo, Cingria, sempre catalogato fra gli inclassables della letteratura francofona, è un autore semisconosciuto in Italia; l’unica sua opera tradotta in italiano è Gocciole alpine, edita da Tararà nel 2003 a cura di Cristina Costantini e considerata da Cocteau un capolavoro.
La Grande Ourse è un racconto lungo pubblicato per la prima volta da Gallimard nel 2000.
Poiché il manoscritto non è mai stato ritrovato, è impossibile stabilirne la data esatta, tuttavia si suppone che Cingria lo abbia scritto tra il 1927 e il 1929, per affinità con altri suoi lavori quali Les Autobiographies de Brunon Pomposo e il già citato Pendeloques alpestres, datati rispettivamente 1928 e 1929. L’edizione Gallimard si basa sul dattiloscritto che si trova presso la Fondation Bodmer di Cologny, vicino Ginevra.
Si tratta di una eccentrica composizione di frammenti, ricordi, pensieri e memorie di viaggio: dalla Costantinopoli d’infanzia alla Berna che festeggia il centenario di Beethoven, da Lucerna a Saigon, tra apparizioni di fantasmi, considerazioni filosofiche sull’autenticità e tabelle disegnate in cui sfoggia la sua precisione nella contabilità di una società che gestisce risciò, il narratore finisce, dopo sei anni di flânerie, col trovare la fede in un santuario del Cristo Re.
Attraverso quella che è stata definita una fiction démantibulée, cioè squinternata, fatta di digressioni e immagini di sogni, Cingria tenta di trascendere il quotidiano ed elevare l’ordinario a metafisico; come ha osservato Fabrice Gabriel, l’autore «trasforma la realtà in ciò che dovrebbe essere: un libro di metamorfosi».
Propongo qui di seguito la traduzione delle prime pagine.
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« Tutto il cembalo ma piano »1
– Beethoven
Quel grosso violino color pulce non è perfettamente al centro. È voluto: è una legge astronomica.
L’eccesso del nostro sordo lirismo è a due battenti. Sono l’Imperatore su una semplice sedia, in abito da città. Il Papa passa dalle prese al Concilio.
Tutti gli scanni sono soltanto semplici sgabelli o semplici banchi rivestiti.
La corte è piena di giovani che scalpitano – rinforzano le lance -, il cuore denso come il firmamento d’estate.
Il selciato è ordinario, già come quello della strada che ci sarà.
Un cardinale di tufo parla in greco a un busto. Il naso di un busto cade. Dei pavoni battono i minuti.
Andiamo!
Dopo aver cercato a lungo, nei miei primissimi anni, quale potesse essere il tempio dell’autenticità occidentale, non ero riuscito a capire che una lira non è quel gesso dai contorni di polvere che sporge da una statua e che i discepoli dei pittori imitano nel tratto pensando che un giorno, forse, andranno in Italia.
Avevo ingerito ogni falsa disciplina – discipline del visivo – e subìto una spinta alla durezza. Facevo dell’ironia stupida e, io che sono tutt’altro, mi abbandonavo a tutte le malvagità dello spirito. Soltanto dopo – non racconterò di quegli inutili viaggi al sole in cui mi anemizzai il cervello – capii che bisognava chiudere gli occhi e aprirli soltanto dopo aver dato ascolto alla mia bontà originale.
Una lira non ha altra forma prima di quella che ci manifesta; non vuole altro cielo prima di quello che crea; è come il nostro vestito dal colore sobrio, che ci piace perché è utile, ma soprattutto perché è decoroso. Un violino è attuale e decoroso. Ha un passato ma è antiarcheologico – questo è importante – perché, dietro un aspetto sobrio, non è un’evoluzione ma un essere e, come dire, una presenza reale. Lo amiamo allora come un pittore quando desidera dipingere (quando non può far altro che dipingere). Quel legno che suona, e su cui la pittura è utile, è insuperabilmente scelto e ben scavato, e trascina gli dèi senza che ci sia bisogno che questi ultimi abbiano dei nomi; subito, dovunque, quando l’archetto nuota; e allora quanto ci si conosce meglio, non è vero, fratelli miei: non tutti (non i malvagi), ma voi che avete questi posti.
La tartaruga, che noia a pensarci! E anche quella favola di Mercurio e di una caverna e di Giove e i suoi buoi. Lì c’è davvero di che morire, e bisogna vivere. Ma il violino è così senza pensarci: una presenza dall’aspetto sobrio. Apollo viaggia in incognito. Una mano è in contatto col fuoco centrale e tutto il delirio delle stelle. Sotto (che importa questa redingote da pazzo) c’è un cuore torrenziale.
Voglio soltanto una cravatta bianca e una bombetta, e camminare a piccoli passi senza preoccuparmi di niente. Sono un signore. Voglio passare il più inosservato possibile. E soprattutto non voglio che si dica di me che ho del brio, né che mi paragonino a chi ha o non ha brio (me ne frego del brio). Piuttosto: essere perfettamente decoroso; dire scusi quando si sale sul tram; essere serio; ridere soltanto in rarissime occasioni; articolare sempre soltanto cose intere; non dire nulla d’inesatto; essere morale e molto fermo. Tacere? No, perché se è sistematico, diventa, in compagnia di gente senza ritegno, una grossissima impertinenza. Al contrario, parlare, ma con misura e un certo distacco se si ha a che fare con degli avversari o delle signore.
Ero stato fotografato con un’aria tremenda, e pensavo che fosse il mio destino: questo a tre anni (avevo un collaretto e un cagnolino, e una lunga carabina a due canne; il fotografo mi aveva sistemato col tutto su una poltrona e uno sfondo) e, allora, a pensarci, e anche perché ero circondato da altri bambini viziati e dispettosi e perché mi prendevano in giro o lo credevo io, ero diventato selvaggio.
A volte avevo talmente voglia di fare pipì che non riuscivo ad accendere una candela. Mentre l’accendevo, la spegnevo.
Questo per il mio quinto, sesto, settimo anno.
Una volta avevo ingoiato un chiodo. « Un chiodo come?… » Mi avevano mostrato delle minuscole punte. « No, un chiodo così ». Li avevo trascinati tutti verso un armadio dove c’erano quei chiodi di ferro che servono ad appendere gli abiti. Era uno di quelli che avevo ingoiato e poteva anche fare nove centimetri. Era successo mentre ci giocavo, come fanno tutti i bambini che mettono in bocca tutto quello che trovano; ed era partito d’un colpo, senza che me ne accorgessi, per una debolezza abominevolmente complice dell’ugola, e l’avevo poi sentito scendere. Avevo pure aspettato tre ore prima di parlarne. E così dopo, quando l’avevano ritrovato – aveva fatto un piccolo rumore secco nel vaso – il dottore che era un po’ scroccone e che era a tavola proprio quel giorno si era fatto delle grandi risate. « Un chiodo così! Porca miseria! Ma lo sapete che solo in tre casi su mille non ci si perfora l’intestino!… Ecco un ragazzo destinato a grandi cose. »
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1. In italiano nel testo