150 anni di Alice: Mio padre il Giabbervocco
150 anni fa veniva pubblicato Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Ho chiesto a scrittori, studiosi, appassionati di pensare un loro contributo personale per celebrare questo capolavoro del linguaggio e dell’immaginazione. I post si susseguiranno a cadenza irregolare fino all’autunno e saranno contraddistinti dal tag: 150 anni di Alice, presente anche nel titolo. Quindi: cominciamo! (NDF)
di Corrado Premuda
Non sapevo ancora leggere ma riconoscevo i libri dal dorso. Per dire la verità riuscivo a leggere lentamente alcune parole, come tutti i bambini che hanno imparato da poco, ma preferivo di gran lunga ascoltare le storie che mi venivano lette, guardando le pagine per gustare le immagini, i titoli in grassetto e l’avventuroso sfogliare della carta. Il libro di “Alice” era facilissimo da individuare nello scaffale: aveva un dorso più grosso degli altri (perché conteneva anche “Attraverso lo specchio”) e in copertina campeggiava la testa di un enorme leone che, felinamente infastidito, scrutava una leggiadra Alice in primo piano che portava un vassoio.
Ogni volta mi domandavo cosa c’entrasse un leone nella storia. Ma di quella domanda mi dimenticavo presto quando mio padre selezionava un punto del libro e cominciava a leggere. A lui “Alice” piaceva molto. Probabilmente erano i tanti piani di lettura ad affascinarlo e il nonsense della narrazione; ma di certo subiva il fascino della costruzione matematica del testo, dei riferimenti all’antimateria e alle teorie della fisica, delle possibili conseguenze dell’inversione temporale. Essendo una storia lunga e complessa, non me l’ha mai letta tutta: di volta in volta sceglieva un pezzo, ispirato da un personaggio, dal titolo di un capitolo, o dall’illustrazione che per prima colpiva la mia attenzione.
Seratinava e patti e pipistrani
sfarfagliando succhievano i tresetti,
sbufulavano tutti i baffigiani,
e stralunavan druci fra vottetti.
«Guardati, figlio mio, dal Giabbervocco,
che t’azzanna e t’artiglia atrocemente! …»
Questo è il punto del libro che amavamo maggiormente. È nel primo capitolo della seconda parte: nella Casa dello Specchio tutto funziona al contrario, anche la poesia che Alice sbircia nel libro è scritta con le lettere poste in modo speculare.
Nell’adattamento italiano di Alessandra Schiaffonati (autrice della traduzione integrale del testo di Carroll per le Edizioni Accademia, 1976), i neologismi sincratici di questa celebre poesia sono evocativi e spiritosi e io li trovavo, da bambino, proprio avvincenti. «Cosa vuol dire seratinava?», domandavo a mio padre. «Cosa sono i pipistrani e i baffigiani?» Lui rispondeva con calma, mescolando le informazioni che aveva letto nel romanzo con delle deduzioni logiche: «Seratinava significa che stava scendendo la sera. I pipistrani sono dei pipistrelli strani, i patti assomigliano ai tassi, mentre i baffigiani sono uccelli molto magri, col becco all’incontrario e grandi baffi. Sfarfagliare vuol dire volteggiare come una farfalla e sbufulare invece è sbuffare ululando…»
La parola che in assoluto piaceva di più a mio padre era Giabbervocco (il mitico Jabberwock nell’originale). Carroll, quando lo fa descrivere ad Alice alla presenza del saccente Humpty Dumpty, ne parla come di “una specie di drago al giulebbe con l’aggiunta di un po’ di mucca maschio”. Quel mostro ridicolo, che nel corso della poesia viene vinto e ucciso, colpiva a tal punto la fantasia di mio padre che, complice la sua autoironia, “Giabbervocco” era il soprannome che si era scelto. Parlare di sé come di un drago sfortunato lo divertiva molto, e per me lui era diventato, a quei tempi, il Giabbervocco.
In genere ricordo che gli adulti tendevano a correggere le mie storpiature nell’uso della lingua. Anche mio padre lo faceva ma ogni tanto assecondava la mia voglia di inventare parole. Lui era l’unico che mi leggesse “Alice” e si perdesse insieme a me nei meandri insidiosi e affascinanti di quel mondo assurdo governato da regole illogiche o buffe e da personaggi che nella maggior parte dei casi non hanno, agli occhi degli adulti, molte caratteristiche edificanti.
Io amavo farmi condurre da lui tra le spiazzanti filastrocche. Le porte dietro cui si muove Alice e che varca, dopo aver tentato di curiosare dal buco della serratura cambiando nel frattempo la sua taglia e diventando minuscola e gigante, erano come le porte con doppie maniglie – una ad altezza di adulto e una ad altezza di bimbo – della mia scuola materna alle quali mi accostavo sempre con trepidazione se ero da solo, sperando e temendo che dall’altra parte si aprisse un altro mondo.
Storpiare i nomi, o inventarne di nuovi, era diventato uno dei miei giochi preferiti. Le storie che inventavo, e che qualche anno dopo avrei cominciato a scrivere sotto forma di temi non sempre apprezzati dalla maestra, erano popolati da pentole e suppellettili di cucina che si animano e preparano il pranzo da sole, o da lumache combina-guai e pigri vermi con bombetta e sigaretta impegnati in avventure da giardino.
A causa del Giabbervocco e di quel promettente “Seratinava…” è l’aspetto linguistico in “Alice” quello che preferisco. Lei pone un sacco di domande ai diversi personaggi che incontra: quasi mai le risposte soddisfano davvero la protagonista, e il lettore. E allora a quelle domande Alice dà una sua interpretazione, e così fa il lettore. Che grande libertà, per un bambino, inciampare in un libro così e trovare un adulto che lo accompagna nel suo salto nel buco. “Alice” è un testo che va letto ad alta voce, magari coinvolgendo generazioni diverse, perché, nella condivisione, i giochi logici e verbali e le innumerevoli sorprese della lingua svelano con ironia le assurdità e le incoerenze della vita adulta. Questa scoperta avviene proprio grazie alla protagonista, dotata di quella capacità, tipica dei bambini, di osservare la realtà con perfetto candore.
La “budesprussione” è un male leggero, un’indisposizione, mentre la “slozia” è una forma di pigrizia cronica, la voglia di non fare niente. Ecco due neologismi inventati da mio padre per minimizzare i miei capricci infantili; qualche anno fa ho deliberatamente rubato queste due parole, e tutto il bagaglio di implicazioni personali che comportano per me, per inserirle in un romanzo (dal titolo eloquente: “Prematurità”). La lettura di “Alice” è una palestra per la creatività, diventando compagni di gioco della protagonista è inevitabile farsi prendere dall’entusiasmo di donare un nuovo nome alle cose: chi è che azzecca il termine più calzante? Non ha importanza, tanto come nella corsa di comitiva, non c’è un solo vincitore: vincono tutti. Di recente ho tradotto dal francese un romanzo surreale e fantastico scritto dall’artista Leonor Fini, Murmur. Fiaba per bambini pelosi, e per trasformare in italiano alcuni giochi di parole e rendere al meglio certi nomi inventati sono ricorso a quel laboratorio costante di scrittura creativa che sono le avventure di Alice con il prezioso carico di immagini identiche e diverse della realtà.
Forse per sdebitarmi del regalo ricevuto da mio padre quando ero piccolo, ho cominciato a regalargli, in occasione delle classiche feste del calendario, edizioni insolite e originali del libro di Lewis Carroll. L’ultima versione in ordine di tempo è illustrata da Tove Jansson, la mamma di Mumin, altra grande passione che mio padre è riuscito, senza fatica, a trasmettermi. Mio padre, il Giabbervocco.