Off Site Art / Artbridge per L’Aquila #1
di Alessandro Chiappanuvoli e Veronica Santi
Foto di Claudia Pajewski
Attraversi rapidamente il viale alberato che costeggia il Castello, stai andando in Centro, nella piccola parte resuscitata, sfili Porta Castello e parcheggi l’auto su Via Castello. Se non fosse per l’intensità d’azzurro del cielo di questi giorni che attira i tuoi occhi, forse, non ci avresti fatto neanche caso per la fretta che hai di solito quando esci, e da quanto tempo sono lì affissi quei cosi, è la prima domanda che ti poni.
Possibile non li avessi mai notati? Stanno affissi sulla copertura bianca delle impalcature che rivestono i lavori di restauro di un vecchio palazzo, due grandi teli rettangolari, l’una esposta a nord, l’altra a est: la prima è l’immagine di un fiume cittadino ma la città attorno è come appena abbozzata, sfumata, è Berlino, una città che dovette essere ricostruita, come la nostra; la seconda è completamente nera, o così pare, perché giochi di luce ne solcano l’oscurità e un arcobaleno ne traccia appena i confini. Sulla cornice c’è scritto un nome, diverso per immagine, ma lo stesso simbolo all’angolo in basso: quattro quadrati in fila, tre neri, l’ultimo rosso. OSA c’è scritto in quelli neri.
Dovresti fermarti a Ju Boss, come fai sempre, ma non sai perché tiri dritto, sbuchi in Piazza Regina Margherita e anche lì, tra i rami spogli che increspano palazzi e cielo azzurro, vedi altre due immagini: un’accozzaglia di oggetti colorati che compone una figura in movimento e, poco più in là, un pesce dall’occhio languido poggiato su qualcosa di sferico. Quando ti avvicini capisci che si tratta di un kiwi. Altri nomi a margine, lo stesso simbolo. Possibile non li abbia mai visti, continui a domandarti.
T’infili nel Corso, a questo punto ne sei cosciente, è la curiosità che ti spinge e subito, alla tua sinistra, ne trovi altri tre, d’installazioni, sempre affisse sulla copertura bianca delle impalcature, altri nomi, stesso simbolo: un fumetto seppiato, quattro scene, sfilacciati fantasmi vestiti d’Ottocento, e provi inquietudine; nel mezzo, la foto di una metropoli, forse New York, sembra abrasa in qualche modo, una solitudine t’invade; e poi, cinque foto di persone che, L’Aquila come sfondo, si coprono il viso con un foglio bianco, «Racconterò, Sorriderò, Arriverò, Costruirò, Saprò», c’è scritto sui fogli.
Incassi la testa nel bavero del giubbotto perché non fa mai caldo come sembra e continui a camminare; quando, chi, perché, ora ti domandi. Percorri tutto il Corso stretto e arrivi ai Quattro Cantoni. Lì svolti a destra perché in fondo, in Piazza Palazzo, ne vedi altre di quelle immagini affisse. Ma sulla piazza non trovi solo le immagini sulle impalcature, tante e diverse e variopinte e sorprendenti e inquietanti: la foto di una mezza sfera tinta di colori sgargianti che sembra una pupilla; uno sfondo bianchissimo punteggiato da miriadi di quadretti neri, finestre, che è la facciata di un edificio; una sorta di mostro preistorico – che ti ricorderà il mammut conservato nel Castello – ma quando la guardi meglio scopri che invece è un’aquila che si alza in volo ed è composto da un collage di macerie; e ancora l’immagine dei piedi di una donna che dentro scarpe nere scendono una scala; tre monumenti aquilani incolonnati innestati con simbologie musicali inconfondibili, uno ha la lingua dei Rolling Stones e ti fa sorridere; una sembra una sorta di carta geografica a toni saturi attraversata da fiumi e spaccata da una crepa a forma di T; e un ippopotamo rosa fermo al centro dell’arena di un circo; è proprio davanti all’ippopotamo incontri anche una ragazza, slanciata, zigomi sporgenti, gli occhi da alieno innamorato, una fratta per capelli, che immobile se ne sta a guardare l’immagine e sorride.
Ti avvicini cauto e non potendo far altro chiedi a lei, cosa sono quelle immagini, chi le ha messe, quando.
«Sono sogni, visioni. Visioni che fanno sognare. Riflettere, confrontarsi. Incontrarsi. Passeggiare. Emozionarsi, sorridere e commuoversi. Ogni immagine che vedi è stata installata nel momento in cui il cantiere che la ospita ha inaugurato i lavori di recupero dell’edificio. Si tratta, cioè, di un progetto di arte pubblica che segue il ritmo della ricostruzione della città con l’obiettivo di trasformare il centro storico dell’Aquila in un grande museo all’aperto dell’arte emergente. Ogni anno, gli artisti emergenti sono chiamati a partecipare inviando le immagini delle loro opere, una giuria composta da critici curatori di fama internazionale seleziona le migliori proposte, le imprese di costruzione che decidono di partecipare al progetto espongono e installano nei propri cantieri le immagini stampate sui teli in PVC che coprono i ponteggi.»
Ti scuotono quelle parole, come non ti aspetti, come e più delle immagini stesse, e non sai che dire. Dietro un raggio di sole, guardi ancora il viso della ragazza e non c’è proprio nulla che puoi dire. Fai però per prender aria come se volessi comunque parlare ma è di nuovo lei che rompe il silenzio:
«Ci piace pensare che con l’arte stiamo cercando di avvicinare a queste impalcature i bambini, gli adolescenti, gli artisti, gli operai, gli universitari, le mamme e i papà, i nonni, gli anziani, i turisti. Che stiamo regalando una seconda pelle alla città, temporanea, non necessariamente facile da capire o seducente come lo spot di una pubblicità, ma che possa piuttosto innescare degli spostamenti, di pensiero e di relazioni, sociali e urbani. Ci piace pensare che scoprire le nostre installazioni porti anche a ri-scoprire una città…meravigliosa. Oggi. Ora. In questo presente.»
Eccoti: la bocca spalancata e le parole che non vengono. Abbassi il capo, come sotto un peso, perché ti senti spaesato, spaesato a casa tua, nella tua città. Ti affolli di pensieri, vuoi riprendere la tua strada, vuoi andare a bere, ma indugi, appena un attimo, e rivolgendoti a lei, a quella ragazza che non riesci più a guardare, un «grazie» sussurri; la tua gola impastata d’emozione.
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Per informazioni sul progetto: www.offsiteart.it
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