La poesia di Viola Amarelli e l’escatologia del quotidiano – Il caso de L’ambasciatrice
di Daniele Ventre
Nella strana, umbratile e popolosa plaga della scrittura di versi è raro scovare delle opere che mostrino al contempo un’espressa autonomia di discorso poetico e una consapevole e selettiva padronanza critica dei mezzi d’espressione. In una di queste opere, rarae aves della nostrana respublica letteraria – oggi forse non meno eterodiretta e scassata dell’altra nostra repubblica – abbiamo avuto la fortuna d’imbatterci. A chi la accosti senza pregressa conoscenza dell’autrice, L’ambasciatrice di Viola Amarelli si presenta in una veste libraria tanto pregevole quanto giocosa: spessa e nera copertina cartonata, rilegata a grana grossa di verde, sulla quale campeggia la stilizzata immagine d’una rana. Il libro, uscito in appena cinquanta copie numerate, è una piccola opera artigianale delle “sarte utopiche” Francesca Genti e Manuela Dago. Ma di una tessitura tutt’altro che utopica, carica anzi di limpida concretezza, nonché della stessa ironia e dello stessa aura di lusus che ne connota l’apparenza materica, si fanno portavoce le pagine dei suoi versi, che si dipanano attraverso sette sezioni (più un’appendice finale, contrassegnata dal segno matematico d’infinito), declinando tutte le forme possibili del fare poesia, fra densità metafisica d’aforisma e immagine arguta sgranata in forma narrativa, fra maniera breve e poemetto disteso.
Al di là della sua forma esteriore di raccolta poetica, L’ambasciatrice (che trae il suo titolo dal poemetto centrale) si configura come un singolare e corposo romanzo dell’esserci. Come tale essa si apre e si chiude con uno spiraglio di teologia negativa calata nel sermo cotidianus, secondo una rigorosa composizione circolare. Incipit di questa struttura ad anello, la poesia difficile rivela sin da subito quella leggerezza tramata di giochi linguistici, risegmentazioni, bisticci, che nella poesia di Viola Amarelli costituiscono un tratto stilistico peculiare, una strategia comunicativa supralineam rispetto alla catena parlata, su cui pure ambiguamente fa perno, un effetto verbale impiegato a tempo debito con parsimoniosa pregnanza:
-Troppo difficile da dire
-E tu non dire
Un riccio rosso, rosari di sabbia
Le vene, l’arterie
L’avviene.
Alle due simulate voci interiori dell’esordio dialogico segue l’immagine dell’esistenza come intreccio di flussi, entanglement e pulsazione di sangue e sgranata sostanza terrosa, “L’avviene”, omologo dinamico eracliteo dell’il y a di un Lévinas in paronomasia e assonanza equivoca con “Le vene, l’arterie”, parola, quest’ultima, non a caso accompagnata da una forma apparentemente aulica, ma in realtà dialettale ed espressionistica, di elisione. L’allusione a questa metafisica dell’inesprimibile quotidiano, nell’apparente semplicità di un dettato volutamente librato sul limite del quietamente cantabile, si ritrova nell’explicit, non c’è altro, poesia costituita di appena due versi, un ottosillabo di andamento trocaico e un dodecasillabo, pur esso trocaico, formato da un ottonario e un quaternario graficamente divisi:
non c’è altro da capire
non c’è altro da sapere
questa luce
La raccolta, aperta e conclusa con questa variazione sul tema del limite del linguaggio, parrebbe dominata da questa musa del non dire-non sapere. Tuttavia non siamo di fronte a una poetica della vuotezza, dell’azzeramento chenotico: piuttosto, il non detto nasce all’interno di un duplice termine positivo: da principio la rinuncia all’intellettualismo del logos in favore di un pulsante slancio vitale, infine la luce meridiana del vivere in attenzione nel tempo, lontani da ogni eccesso di tematizzazione razionale. È fra questi due momenti che L’ambasciatrice si dipana come un’opera-mondo tascabile, ripercorrendo in parte e approfondendo la linea già segnata da altre opere precedenti dell’autrice, come Cartografie o Le nudecrude cose e altre faccende. Minimizzata la proliferazione del dire-capire, con tutto l’orpello esplicativo-retorico correlato, resta l’occhio aperto sul panorama del concreto, in cui si succedono le più varie figure, alcune ancora piene tra le righe di uno specifico peso simbolico, alcune invece tutt’altro che implete, contorniate come sono d’un’aura sottile di ironia in rebus e ridotte a gusci di maschere.
Vere e proprie nature figurali sono in effetti quelle che balenano ne la candida, l’intatta, prima sezione che trae nome dalla seconda poesia:
Cuore bambino dove
la briciola diventa meraviglia
e l’orco resta ucciso grasso
e sciocco
la candida, l’intatta
noncuranza
in cui l’immagine del bambino interiore, apparentemente scontata, appare sottratta a ogni accostamento da ovvio memorandum letterario, ogni memoria razionalistica essendo obliterata in una embrionale dimensione narrativa, da morfologia archetipica della fiaba. La posizione di questi versi per come appaiono collocati, immediatamente dopo l’evocazione fondativa dell’avviene, ci indica che siamo ancora al primo mattino del mondo che l’opera costruisce: per questa ragione qui campeggia l’immagine del puer primordiale, l’Urkind creatore di tutto, una sorta di travestimento del Deus puer che gioca con assoluto candore a tramare la deriva destinale dell’essere. Allo stesso modo evoca la forma del femminile originario la quieta cammella, ritmata come filastrocca da battute ternarie (“due occhi d’incanto al suo cammelliere/la notte alle dune, due tette, si illuna” –e però si noti, nell’apparente semplicità, l’impiego del riflessivo “s’illuna”, di sapore dantesco) a cui segue, per immediata contiguità di trama d’immagini, terragna(“Movendo, metamorfosi di muta,/ serpe terragna fra quiete e polvere/ la cerca di/ gradienti verde.// Tutto dovrebbe essere/alberi ed erbe”), con il suo paesaggio ctonio da inconscio collettivo e la dissimulata corposità fonica dei suoi timbri, fra l’allitterazione dell’exordium, in cui gioca un ruolo anche l’ambiguità potenziale derivante dal duplice significato di “muta”, e l’iconica assonanza finale (“verde, essere, erbe”). In questa sequenza incipitaria della prima sezione, in cui campeggia, se si vuole, uno strano assoluto terreno, terragno, bambino – femminino, perfino il self portrait dell’autrice da giovane (“La puledra ferma al fieno/ Scarta al vento, si ombra di niente/ Imbizzarrisce, tenera e lontana”), con tutta la rete dei suoi rimandi sottesi e dei suoi ipogrammi appena sfiorati e ricacciati nel deliberato non detto, assume natura molteplice, e si configura come una sorta di cogito riorientato, un io-penso che si fa vissuto senza intellettualistiche mediazioni. Giocoforza allora, anche l’espressione verbale si restituisce alla sua dimensione d’origine, alla voce come presenza, come testimonianza e ordinatrice fisica di presenza. Né tale processo di ritorno all’origine della voce, quasi richiamata alla vita di un Vac vedico creatore, è in contraddizione con la poetica dell’inesprimibile di cui abbiamo parlato da principio: la voce poetica per come viene rifondata, diviene risonanza, tramata di figure di suono, risemantizzazioni, nuovi coni, parole macedonia o voci composte, che della poesia di Viola Amarelli sono un tratto distintivo: “risuona con l’aria, e l’acqua, terraventosa, non con gli umani…” (risuona); “vaneggiamenti ventriloqui variando, verba volant. virando versi, vesti, bestiari. le vergini vocali” –rigo di prosa ritmata, quest’ultimo, che evoca in tralice addirittura l’immagine delle muse, fra ironia, dimensione carnascialesca, proliferazione creativa. Nel frattempo si ingenera, nel retroscena di questa invenzione verbale, una sorta di contrapposizione di fondo, fra questa voce che risuona in un tutto che dovrebbe essere alberi ed erbe, e gli umani, e il loro voler a tutti i costi “capire” (prendere, catturare, distinguere per gramatica, tematizzare per logica): “tre cose mai capite: me, la matematica e gli umani”. Questi umani finiscono per incistarsi in uno strutturale processo di erosione (“rosi dal potere/ rosi dai vermi/ eroso il ghiaccio/ occhio terramonte…), in opposizione alla quiete del lasciarsi esistere senza concetto, senza angoscia (“non c’è nulla c’è/… un gigantesco, sereno, non importa). Così la prima parte de L’ambasciatrice sembra costituire una sorta di organon rovesciato, a partire dal quale comincia una nuova costruzione del mondo che prescinde da impalcature logico-concettuali e si fonda invece su un’idea di flusso vitale di esperienze, in cui i nomi-forma del dire/capire sono meri epifenomeni delle menti e del loro tessuto di segnali indicatori transitori (affetti compresi: “dolce, affettuoso e spaventato/ il nome-forma che era mio padre”).
Nel loro dipanarsi le diverse sezioni de L’ambasciatrice seguono così un principio di interna coerenza: dopo l’organon implicito de la candida, l’intatta, che abbiamo voluto analizzare più minutamente in quanto portatore, nella sua compattezza stilistica, delle ragioni di fondo del libro, viene la prospettiva en plen air del secondo capitolo di questo implicito romanzo di versi. Abolito l’organon logico distintivo del capire, asserito il gigantesco, sereno e cosmico non importa, il primo passo è riconoscere l’assenza dell’alterità potenzialmente negativa del nemico:
[…]
in fila le formiche invadono il terreno,
la zappa si conficca, le scompiglia
avanzano i più forti
tutto un presidio – io rimpiangevo i deboli
ho occluso i circuiti, bruciati i ponti
squarciati i by-pass, intorno c’è il deserto
nessun nemico –mi chino.
L’ipogramma costituito dalla famosa sententia conclusiva del Càlgaco tacitiano (…ubi desertum faciunt pacem appellant…), quale affiora nella chiusa di nessun nemico, viene rovesciato di senso: diviene l’espressione di un dominio interiore conseguito con fatica abolendo ogni comunicazione fittizia, in pro di un interno “vuoto” mistico che non è certo chenosi, e insistiamo nel ribadirlo di nuovo, ma piuttosto si configura come pienezza, abbandono e comunione con un nirvana prefigurato in corso di vita –e mai come qui le istanze buddhistiche dell’autrice sembrano fornire un grimaldello ermeneutico vittorioso. Sono queste le istanze che poco dopo, in lucreziana, affiorano con evidenza palmare: “qualsivoglia vita squagliando/fosse di gelsomino, l’aria ubriacata chiara,/ di stecco secco e storto, memoria tra le bacche,/ di cincia mattutina, cipria per piuma rossa,/ di uno vecchio idropico, la corsa da ragazzo,/ lascia una traccia invisibile inghiottita/sino alla prossima rinascita immersa nelle cellule/ le stesse forme diverse”. Torna ancora una volta la corposità fonica del discorso poetico (assonanze: “l’aria ubriacata chiara”, in un verso quasi mono-vocalico; allitterazioni e disseminazioni foniche a legare emistichi fra loro, da metrica medievale germanica: “di cincia mattutina cipria per piuma rossa”), ma la sua funzione fono-simbolica ridefinisce ora ogni tradizionale tessitura di suoni in un nuovo sistema, in cui i significanti si scambiano le reciproche componenti fonetiche, in una samsara verbale, un clinamen di atomi fonemici riaggregati, una armonia invisibile in cui gli enti in flusso eracliteo vivono la morte gli uni degli altri e muoiono la vita gli uni degli altri. Questo è il fondamento del teatro esistenziale che si manifesta del resto anche nelle strofe finali del testo en plen air (che dà nome all’intera sezione del libro) :
La vita è l’arte di essere perdenti, nulla di nuovo –dimentica
–si muore
L’istante che le frullano
le ali, d’un colpo la tortora che
plana e la farfalla enorme
candeggia questa luce, squaglia
crema, intanto che si scollano
etichette, si arrestano i pensieri
frullano insieme tutti –senti, i respiri
Fra la cripto-citazione del Qoelet (nihil novi) e l’immagine ingigantita dell’effetto farfalla e del suo caos sgretolatore-aggregatore, il processo tematico che L’ambasciatrice viene costruendo, dopo aver sviluppato la sua logica-ontologia fondata su un organon dell’immediatezza vitale, approda a una sorta di fisica fondata sull’accettazione dell’impermanenza come inevadibile dimensione d’esistere.
Forte sarebbe la tentazione di affermare che L’ambasciatrice, il poemetto centrale che dà il titolo al libro, con la sua atmosfera legata ai conflitti mediorientali costituisca l’etica a suggello di una visione del mondo, in una tripertita ratio filosofica da ellenismo. A tale tentazione è ovviamente opportuno non cedere, considerando la natura peculiare di questa parte dell’opera. Il tema politico è infatti soltanto uno sfondo necessario in cui si muove una storia tramata di tutti gli elementi già delineati nelle precedenti sezioni. Questo scenario da un lato è sicuramente un luogo figurale dove i mali della distinzione, dell’esclusione, dell’affermazione intollerante dell’identità e dell’attaccamento spadroneggiano con ferocia, dall’altro, tuttavia, è anche l’alveo del fluire, di vicenda in vicenda (attraverso una sorta di struttura a stanze capcaudadas con richiamo dell’ultimo termine e senhal della chiusa di una poesia nell’incipit o nel titolo dell’altra immediatamente successiva) delle figure femminili che si susseguono, ambasciatrice, madre, spia e bambina, con quest’ultima, specialmente, a rappresentare quell’ “umile mente gioiosa”, che finora il libro aveva delineato per scampoli d’epigramma. Così l’ambasciatrice – la donna, inizialmente non identificata – si muove fra le quinte del conflitto con cautela, come se ad ogni passo trattasse i termini minimi del suo stesso procedere, fra drusi, dromedari e droni, i tre elementi del paesaggio che la guerra consuma. Questa ambasciatrice di trattative perpetue avanza per quadri d’istantanea, sbozzati con un linguaggio secco da reporter, inverando all’estremo l’altro connotato, opposto complementare dell’invenzione verbale mirata, tipico dello stile dell’autrice: l’estrema concisione e l’ironizzazione degli ambigui limiti di ogni parola. Siamo di fronte a una figura femminile che, come l’io lirico di nessun nemico, avanza in un deserto di cammini combusti, alla storia si piega e per questo le resiste, a scherno sottile di ogni ostentato maschilismo politico, in terra islamica integralista e perciò elettiva di maschi: “Funziona –la maschera/del condizionamento. Tengo duro, sono/ femmina/ senza tempo di erezione”. La figura della donna resistente al teatro di guerra assume un connotato netto ne L’addetta delle pulizie, che si muove da casa, fra gechi e ramarri vita minimale del paesaggio desertico, fra vigilanti e perquisizioni, vita ordinaria del passaggio storico del momento,e a casa ritorna dove “l’aspetta la bambina”, protagonista a sua volta de La piccola. È, quest’ultima, il personaggio che l’autrice rende nella forma più pregnante, e ne fa simbolo del tipo di coscienza leggera che l’intera opera viene tratteggiando. Lo stesso andamento ritmico e sintattico della scrittura manifesta un deciso cambiamento di passo. Non più le istantanee fulminanti della sotto-sezione d’esordio, né la sequenzialità spezzata di animali cose persone de L’addetta delle pulizie. La bambina si muove invece in un paesaggio fiabesco, in cui per la prima volta compare l’acqua come spontanea immagine contraltare del deserto: l’acqua in cui la piccola vorrebbe allignare come rana, in una dimensione originaria di fluidità naturale senza confine, senza distinzione: senza le distinzioni, fra musulmani sunniti e sciiti, drusi, cristiani maroniti, che la costringono all’esilio e la fanno oggetto d’occhiuta sorveglianza. La rana diventa così, al culmine dell’intera raccolta, il simbolo della candida e intatta noncuranza che costituisce la dimensione originaria dell’esistenza nel fluido fuggire del mondo. Il poemetto si chiude, ancora una volta con una struttura circolare, dopo l’ episodio, anch’esso connotato da secca e recisa scansione sintattica, de La spia (che cerca, e deliberatamente finge di non avere trovato, la bambina protagonista e sua madre, ricercate per ragioni che volutamente non vengono raccontate,) con la sezione Le foto, tramata dei quadri e delle istantanee che nella vita della bambina si addensano, scatti di cellulare dell’amichetta rom o di teleobbiettivo da agente segreto che siano.
Come abbiamo cercato di mostrare, le poesie de L’ambasciatrice sviluppano momento per momento questa tematica della vita “autentica” come espressione di limpida consapevolezza che attraversa di attimo presente in attimo presente un liquido flusso d’esistenza fra due inesprimibili termini di confine, saltellando come la rana dei sogni della piccola drusa, pozzanghera per pozzanghera, nuvola dopo nuvola. È la stessa traccia che il lettore viene condotto a seguire ne il sale delle diete, in lungo il viaggio e nelle Stanze amorose, sezioni in cui la forma breve prevale, insieme a un tono diffuso di ironia, talora affettuosa talora pungente: tono pungente che diviene a tratti sarcasmo in io scrivo te metapoetica tranche dove, fra tanti tipi di poeti e di poetiche che vengono ironizzati, l’autrice consegna una dichiarazione espressa di dettato stilistico:
Io ho questa lingua, ereditata. La torco, la smonto, la brucio. Rimbalza, reingoia, la lingua già amara. La spezzo, si spezza, paterna, conata. Il mondo è parole, a cambiarle il mondo si cambia. Una rosa è una rosa è una rosa. Roseggia. L’ortica orticheggia. E risana.
Di questa lingua defilata, scomoda, sanatrice, di aggregati lessicali, di poesia dal tono prosastico e di prosa battuta, scandita, è intessuta l’opera di Viola Amarelli, che, movendosi con autentica leggerezza e senza impalcature, gioca e ci invita a giocare con la trama del mondo.
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umbratile è appena diventata la mia parola preferita.
grazie,
Andrea
si ombra di niente….
brava Viola, bravo Daniele, as usual; bella recensione
Viola, ogni volta che m’imbatto in qualcosa di tuo, non mi riappacifico affatto con tutto questo carrozzone dei poeti di oggi – perche’ sei una poetessa autentica, e non fai che rimarcare la differenza fra chi vive la poesia e chi ne fa uno sterile atto letterario. Complimenti, Viola, di cuore.
Come affermava Susan Sontag: “In most modern instances, interpretation amounts to the philistine refusal to leave the work of art alone. Real art has the capacity to make us nervous. By reducing the work of art to its content and then interpreting that, one tames the work of art. Interpretation makes art manageable, conformable”. Complimenti Viola, io non commento, io vivo la tua poesia e questo è quanto.
Illibro di Viola va letto, di forza, così come merita ed esige la levità di cui Daniele ci dice. Non l’ho ancora fatto, lo farò e lo faremo almeno in cinquanta, mi auguro.
Daniele ha illimpidito e disillividito la sua scrittura sulla poesia, mi pare. Bella notizia, che avvicina la sua prosa riflessiva alla qualità della sua poesia.
bravi entrambi, ambo, amendui, insomma.