SENTIERI PARTIGIANI SUL MONTE GRAPPA (quattro testi sul dubbio della memoria)

di Giovanna Frene

 I. BRONZO DI AUGUSTO MURER

monumento ai denti digrignati, che non sono tutti uguali: ci sono
denti più digrignati di altri, la lirica di massa, informe, poltiglia:

 

denti paterni e superiori VS denti figliali e inferiori
denti allineati e solari VS denti aspri e intricati
– e non hanno identica Patria, o non sono per la Patria uguali denti?

 

a morsi, a frammenti mai ricomposti il basso striscia proteso in alto
legato sopra la porta stretta, estrema retta di coraggio,
retta anche la posta in gioco – sì, ma a quale tavolo?
non si ricorda una memoria, che è così con-divisa

 

anche così si rimuore e solamente
ma anche così il morire è sotto sotto
solo un morire

 

 

*
Morire per la Patria è sempre morire

*
“(…) e che il verdetto
non si misura allora
a peso di parole (…)”
(L. Cecchinel, Le voci di Bardiaga)

*
“Furono mandati a Mussolini centinaia di telegrammi, lettere, poesie da ogni parte del Reich”
(B. Mussolini, Storia di un anno)

 

 

 

II. A COLUI CHE PER PRIMO USCÌ, FERITO, DALLA GALLERIA DI FAMIGLIA

inizia da qui la fine del sentiero, con un colpo di fucile, ma a fine gara:
per il primo che esce dalla galleria un premio eterno, la lapide
invece è temporale, all’imbocco del tunnel sul Monte Frontal

…cambiarla, e non c’è occhio che non guardi più la tua vita, colpito busto:
una condanna verosimile seppellita come la bottiglia di un naufrago
sgomento di fronte all’effettivo costo di disvelare questa verità

che spesso è colpita anche nell’immagine, nella forra, in fondo
anche col segno è giusto perseguire ogni nero di qualcosa, tra fibbie
d’argento e orbite più scure della stoffa, che non ha mutato colore: non può

esistere pietà per tutti i morti perché uccisi
anche se il morire è solo il morire
le colpe strattonano solo i piedi colpevoli

 

[in memoria di Aldo Torresan , 19 anni . scrivo il tuo nome per ricordare il tuo essere]

[…]

 

 

Note per la lettura

 

L’anno del Centenario dell’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale è anche l’anno del Settantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, di cui la Resistenza rappresenta il nucleo etico indissolubile. Personalmente, ho riscoperto nel Monte Grappa il luogo dove i due elementi si fondono in una testimonianza inscindibile, e tuttavia per alcuni versi non riconosciuta come tale: il Massiccio che vide una parte della resistenza dell’esercito italiano dopo la disfatta di Caporetto, tra il 1917 e il 1918, fu teatro pochi decenni dopo del feroce rastrellamento nazifascista (settembre 1944), che culminò nell’aberrante impiccagione collettiva di Bassano del Grappa. I partigiani rifugiati sul Grappa (circa 1200 persone), che dovettero fronteggiare l’attacco di circa 8000 nazifascisti, erano sorretti dalla speranza che, come i loro padri non avevano ceduto all’urto degli eserciti tedesco e austro-ungarico durante la Grande Guerra, così sarebbe stato anche per loro. Naturalmente, nel giro di due giorni ogni resistenza venne sbaragliata, molti partigiani vennero uccisi sul posto o catturati, alcuni riuscirono a fuggire. […] Sulla sommità del Monte Grappa, per volontà di Mussolini negli anni del fascismo venne costruito un celebre ossario a forma circolare; più in basso, rigorosamente fuori dell’area sacra, venne inaugurato nel 1974, per volere dell’onorevole Gino Sartor, il “Monumento al Partigiano e alla Resistenza”, con una scultura di Augusto Murer, e su ideazione, tra gli altri, di Andrea Zanzotto. La piccola galleria sul Monte Frontal, davanti alla quale venne ucciso il partigiano Aldo Torresan – il quale, uscito per primo dalla galleria una volta che i nazifascisti vi avevano gettato una bomba a mano, venne raggiunto da una fucilata in pieno petto ­–, a Crespano del Grappa, si trova su un appezzamento boschivo di proprietà di mio padre; la vidi per la prima volta nella mia infanzia.  […]

 

 

 

–––––––––––––––

 

 

 

** La serie completa delle poesie è in corso di pubblicazione nella rivista Le Voci della Luna. Quadrimestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica, n.62, in uscita il 25 luglio 2015. Qui di seguito un estratto dall’editoriale.

 

 

L’arte è utile? La cultura può cambiare il mondo? La poesia serve?

Partire dagli interrogativi alla maniera di Jaar.

Marinella Polidori

 

“È responsabilità del poeta essere donna tenere d’occhio
il mondo e gridare come Cassandra, ma per essere
ascoltato questa volta.”

Grace Paley

 

Una realtà costellata di battenti chiusi la nostra, come nell’illustrazione di copertina; battenti dietro ai quali si intravedono i mille occhi dell’ostinazione più cieca, del giudizio aprioristico, del pre.giudizio appunto. Atteggiamento mentale non ascrivibile soltanto, come spesso si è portati a pensare, a situazioni culturalmente svantaggiate, arretrate, ma diffuso in larga parte in tutti gli ambienti, tanto che rintracciare sguardi curiosi e coraggiosi è impresa ardua anche nel nostro settore, dove capita che lo sguardo arrivi solo poco più in là della propria formazione, delle frequentazioni, poco più in là di orizzonti amici o amici di amici.

E’ l’atto dell’aprire che darebbe invece inizio al cambiamento, favorendo il contatto con l’esterno e ridimensionando quel microcosmo di certezze che mai abbiamo vagliato […].

L’arte migliore, l’arte che serve, in questo senso è allora quella che favorisce questo tipo di apertura e che partecipa, agendo, a quel faticoso e lento processo che chiamiamo cambiamento culturale, quel processo, appunto, che “cambia il mondo una persona alla volta” come afferma Alfredo Jaar. Proprio in riferimento agli interrogativi che questo artista politico si pone, abbiamo indirizzato le nostra piccola mappatura di buone pratiche, di pratiche artistiche utili, iniziando dalla scelta di una cornice iconografica significativa nella quale inserire altri esempi di arte, vorremmo azzardarci a dire, politica.

L’opera raffigurata in copertina è tratta da “Munnizza”, rielaborazione creativa di un’esperienza vissuta da tre artisti, Licio Esposito, Andrea Satta e Marta dal Prato, in una Cinisi invasa da giovani per il concerto omaggio dei Têtes de Bois nel giorno del trentesimo anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato. […]

Questo tipo di arte è indiscutibilmente utile e serve, non ce ne voglia Baudelaire, perché apre al cambiamento, favorisce la diffusione di una cultura in grado di sbrigliare la nostra umanità, di scuoterci dal torpore come direbbe Bachmann, perché alza la voce, “suona un campanello d’allarme” (Vezzali in questo numero), e non ci lascia “parziali” tra la vita e la morte, corresponsabili di un mondo buzzianamente di mezzo.

Ma i poeti, ugualmente, possono qualcosa per mettere alla luce questa dissociazione etica che si è attuata tra il dire ed il fare, per sminuire il valore assolutorio dell’indignazione?

Noi pensiamo di si.

Servono però strumenti e processi utili alla disautomatizzazione della parola, utili a riattivarne la sensitività nella sfera della comunicazione, come ricorda Franco (Bifo) Berardi. La poesia è utile e allora serve, se restituisce la parola alla sua funzione pienamente espressiva, comunicativa, se la libera da quella speculazione “informativa” che l’ha gonfiata a dismisura, se la sottrae a quella bolla semantica che ne ha svalutato l’unico valore reale, il valore di scambio, di comunicazione appunto.

E’ utile quella poesia che non segue i tempi svelti della produzione, che non si “festivizza” nel dopo lavoro, che non si consuma come qualsiasi spettacolo ma che sa progettare a lunga scadenza, un impegno in progress, una poesia che sa riappropriarsi di una funzione sociale, traducendo valori, necessità e denunce, entro un sistema simbolico fàtico, misurabile nella sua efficacia “retorica”,  nella sua capacità di dire “a” e “per” gli altri, restituendo al più forte tra i leganti sociale, la lingua, il suo reale valore d’uso. E’ utile quella poesia che aiuta il rinnovamento dei mezzi di comunicazione e diffusione, che sperimenta strade di scrittura collettiva, editoria autoprodotta, indipendente, coerenti con quella visione antiliberista che i più dichiarano di professare, a parole. […]

Arte “espansa, diffusa”, plurilogica, plurilinguistica, collettiva, fors’anche anonima; poesia che si fa laboratorio creativo partecipato […].

 

 

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