Habitat – Note personali # 3
di Alessandro Chiappanuvoli
interventi di Emiliano Dante
Vedere un film sull’Aquila a sei anni dal terremoto con tutto ciò che nel frattempo è stato detto è masochistico, questa l’opinione comune. Il film, però, è di un regista aquilano che conosco, Emiliano Dante, allora, mi faccio coraggio e vado, lo proiettano nell’auditorium di Renzo Piano, sfondo rosso e acustica perfetta.
(Più sfondo rosso che acustica perfetta: mancavano i subwoofer all’amplificazione. Poca cosa, se si considera che abbiamo proiettato in 15/9 per adattare la proiezione a uno schermo fatto a cazzo.)
Il film s’intitola Habitat – Note personali e parla della vita all’Aquila nel periodo post emergenziale: Progetto C.a.s.e., M.a.p., autonoma sistemazione, anni 2010, 2011…2014. Emiliano ha già diretto un altro film, Into the blue, ambientato nelle tendopoli, che vidi a suo tempo e mi piacque, o meglio, lo trovai tollerabile, degno, diverso dalla gran parte delle testimonianze, spesso di scarsa qualità e obiettività, dal retrogusto vittimistico o beceramente speculative.
(Into the Blue è un film fatto in tenda, in tre mesi, per dimostrare a noi stessi e al mondo che eravamo vivi. Anche se non era per niente retorico nei contenuti, era comunque un film di punti esclamativi. Habitat è stato fatto in cinque anni, quindi è per forza di cose molto più meditato. E meditabondo. È un film di punti di sospensione e qualche punto interrogativo.)
Di là del masochismo e della sovrapproduzione culturale, credo, però, che di questa catastrofe molto ancora debba essere raccontato, e compreso. Orbe vittime di parole, penso me e gli aquilani.
Su come cambia la vita di un cittadino senza città e su come cambiano non solo le abitudini, quanto gli schemi mentali, le emozioni persino è puntato l’occhio della telecamera, ripercorrendo la vita di alcuni compagni della tenda 3 nel campo di Collemaggio, quell’estate, e del regista stesso. Qualcuno è andato via, qualcuno è restato. E chi è restato per lo più non vive dove viveva prima, ma si aggrappa ad altre mura, ad altri posti, lontani dai propri ricordi.
Nello spazio disgregato in cui si è sciolta L’Aquila ci si muove in auto, il tempo passato tra periferie di capannoni e immondizie ai bordi delle strade è moltiplicato. I progetti C.a.s.e. sono lontani dal centro e un Centro per il tessuto urbano non c’è più, si vaga sempre da un margine all’altro, di rotonda in rotonda, naufragando.
Le immagini scorrono in tonalità di grigio, non c’è colore in una città così; assurdo sembra, infatti, riprendere i colori, perché? quali? di quale vita? Il bianco e il nero, invece, meglio rappresentano, quasi confortano, nel paradosso che ormai siamo ormai, sembriamo più veri.
(Wenders lo fa dire a un suo personaggio, in un suo vecchio film. Io non credo che il bianco e nero sembri più vero, credo che sembri più ciò che desidero esprimere. L’Aquila in sé ha colori saturi, puri, intensi. Sono i colori della forza e dell’indifferenza della natura, sono i colori del terremoto: non possono essere anche quelli del terremotato, di chi quell’indifferenza l’ha subita.)
E tetri sono i Progetti C.a.s.e. da cui Emiliano parte per poi raggiungere i suoi amici, luoghi asettici sono, “non-luoghi in una non-città”, apostrofa. L’impianto scenografico voluto dal Governo, passare dalle tende alle case per offrire una sistemazione più dignitosa ai terremotati, crea un effetto contrario, perverso: a perdersi è la realtà, e la dimensione del vissuto, l’attesa del ritorno alla normalità in uno stato di alienante precarietà diventa uno iato senza tempo. E la dignità che dovrebbero donarci quelle case, invece, ce la strappano, tolgono noi l’essenza di ciò che siamo, di quel che abbiamo passato, del nostro dolore: per essere dignitoso non devi sembrare ciò che sei, un terremotato.
(Devi dissimularlo, come qualcuno dissimula l’età o la calvizie. È uno dei passaggi più veri del film, secondo me, ma anche più difficili da capire, per un certo tipo di persona. Per molti il terremoto è solo una questione di case e di edilizia, non di storia e di esperienza. Ma la questione dell’autenticità dell’esperienza è centrale nel nostro periodo storico, così come la capacità di accettare il dolore per elaborarlo. In una situazione come la nostra è davvero importantissimo, molto più importante del resto. Almeno dal mio punto di vista, affrontare il terremoto con l’idea di farti vedere il meno possibile le macerie di casa è una follia.)
Cos’è questo buco con la periferia intorno, si domanda il regista, e cosa tutti questi frammenti sparpagliati, questi frammenti d’esistenze, frammenti che più si prova a rimettere assieme e più si sbriciolano tra le mani? È rubando, però, pezzetto pezzetto alla sua vita e a quella dei protagonisti che qualche straccio di significato sembra emergere, resistere all’entropia, al caos, alla distruzione emotiva che segue inesorabile quella materiale, e non un vuoto, ma una mancanza appare L’Aquila: la mancanza di passato, di certezza, che porta alienazione nel presente e disperazione, se si volge lo sguardo al futuro.
Accettando l’oblio, stringendo ciò che resta e ci resta, seguendo il flusso del vortice abbracciati al poco che possiamo stringere tra le braccia, accogliendo il fallimento della vita, la sua fragilità, la nostra, la sua inevitabile parzialità e incompletezza, pare suggerire Emiliano, si può forse difendere almeno se stessi, il proprio piccolo spazio, e solo così coltivare quelle semplici, piccole speranze, essenziali alla vita.
(Non vorrei che si pensasse che dopo cinque anni ho trovato una morale ombelicale e un po’ intimista al tutto. Credo che nella parzialità si trovi l’antidoto a gran parte delle stronzate retoriche di cui ci siamo sommersi sin qui, questo sì. Credo anche che nella parzialità si trovi un senso profondo del vivere all’Aquila – che è un posto in sé parziale e frammentario, sia fisicamente che socialmente. Paradossalmente, quindi, l’adozione di uno stile frammentario è parte del processo di adattamento al nostro nuovo Habitat.)
Si resta, quindi, per senso di colpa o di appartenenza, ci si chiede infine, a tentare di ricomporre i frammenti delle nostre esistenze e i cocci della nostra città? E quale senso di colpa, quale appartenenza? Si resta per ridurre l’entropia, dice il regista aquilano, per resistere comunque, è inevitabile, sembra. Si sopravvive, si deve.
Il film è stato presentato al Torino Film Festival 2014. Per saperne di più www.dansacro.org