Della serie: True detective

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Francesco Forlani

Con l’episodio Omega Station, trasmesso in Italia dieci giorni fa, si è conclusa la seconda stagione di True Detective. Si è trattato, a detta di molti, di una piccola rivoluzione nel mondo delle serie televisive, narrazioni che a torto o a ragione  sono considerate  come l’ennesima ulteriore nuova vita dell’immaginario romanesque. Sicuramente gli addetti ai lavori sapranno con parole migliori delle nostre, di semplici spettatori, in che modo e attraverso quali dispositivi narrativi, cinematografici, televisivi, questo passaggio di testimone  dal romanzo alla serie sia accaduto, sempre che questo sia realmente successo.

Ad ogni modo, grazie a un’amica francese, Sylvie, ho scoperto su Libèration, una lunga intervista a Chris Marker, vero rivoluzionario dell’immagine, autore di due capolavori come La jetée e Sans Soleil e mi ha molto colpito un passaggio in particolare:

“(…) Et mon besoin de fiction s’alimente à ce qui en est de loin la source la plus accomplie : les formidables séries américaines, style The Practice. Là il y a un savoir, un sens du récit, du raccourci, de l’ellipse, une science du cadrage et du montage, une dramaturgie et un jeu des acteurs qui n’ont d’équivalent nulle part, et surtout pas à Hollywood.”

Se fosse stato ancora in vita mi sarebbe piaciuto davvero sapere cosa  avrebbe potuto dirci di questa serie che è stata per me un vero e proprio coup de cœur. La forza dei personaggi, la scrittura, sia nei lunghi monologhi, di teatro senza teatralità, che nei dialoghi colti, il tipo di inquadratura, il tono, in verità assai cupo, senza essere apocalittico, estremamente umano nel percorrere tutte le zone d’ombra delle vicende raccontate, ne sono all’origine. Per quanto True detective abbia trovato molti estimatori tra i miei amici, semplici lettori o complicatissimi scrittori, ho riscontrato pareri discordi soprattutto sulla seconda stagione che per quanto mi riguarda ho trovato avvincente come la prima, anche se per ragioni diverse.

Così  ho ripescato su Télérama questa lunghissima intervista a Nic Pizzolatto , creatore della serie, poco dopo il grande successo ottenuto dalla prima stagione. Ho provato a tradurla per i non francofoni sperando di animare una discussione  che mi sembra di non sterile attualità.

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Nic Pizzolatto : “‘True detective’ est une série d’investigation… sur la personnalité de ses héros”

a cura di Pierre Langlais (23/04/2015.)

In che genere classificherebbe True Detective? Tra i thriller?

Questo è un po’ riduttivo. Si tratta di una serie investigativa… della personalità dei suoi protagonisti. Più vicino a quello che viene definito procedural drama, una forma di letteratura poliziesca, che non un thriller puro.

 Ha iniziato in televisione, scrivendo due episodi di The Killing, il remake americano della serie danese. Che cosa ha tratto da questa esperienza?

 Era il mio primo lavoro in campo televisivo. Prima di allora, ero professore universitario. La mia fortuna è che lo showrunner di The Killing permetteva agli sceneggiatori di produrre loro stessi gli episodi che avevano scritto. Il che mi ha permesso di formarmi sul terreno in modo abbastanza efficace. Due mesi dopo aver lasciato la facoltà, mi sono ritrovato in piene riprese, produttore del mio episodio, cosa che assai corrisponde alla mia visione della creazione artistica: gettarsi a capofitto nel lavoro, prendere le cose come vengono. The Killing mi ha insegnato tutto quello che so sulla televisione. Chi fa cosa, come funziona un’agenda, cosa vogliono gli attori, cosa si presume che faccia lo showrunner, etc. . È questa esperienza che mi ha dato la certezza che nel caso in cui avessi dovuto lanciare una mia propria serie avrei voluto averne il controllo assoluto.

galveston-210x300Lei è uno scrittore, ha esordito con la pubblicazione di un Polar, Galveston. Cosa l’ha spinta a mettere da parte la letteratura per fare della televisione?

 Vengo dal sud della Louisiana, una zona molto rurale, e la televisione era per me la prima finestra aperta sulla cultura, sul mondo al di là dei campi intorno a casa mia. Mi sono sempre sentito vicino al mondo della televisione, il piccolo schermo ha sempre esercitato un fascino su di me. Dennis Potter [scrittore di fiction per la BBC tra gli anni ‘60 e 80, autore di The Singing Detective, ndr] è uno dei più grandi scrittori del dopoguerra. Intorno al 2003 o nel 2004, quando HBO mandava in onda contemporaneamente I Soprano, The Wire e Deadwood, mi sono reso conto che queste serie soddisfacevano il mio appetito di storie più dei romanzi contemporanei che leggevo. Sembravano più vitali, più viscerali, parlavano in modo diretto di ciò che stava accadendo nel nostro mondo. Allo stesso tempo, ho imparato che cosa sia uno showrunner, e il fatto che in televisione, lo sceneggiatore sia l’autore, colui che controlla la storia. L’idea che si possa lasciare il proprio segno in una serie come per un romanzo mi ha sedotto del tutto. C’erano così tante barriere sociali, geografiche ed economiche, tra uno come me e la gigantesca macchina che produce le serie che non pensavo di poterne fare un giorno. La mia speranza era che perfezionando la mia arte, la scrittura, dovevo poterla declinare in ogni tipo di media, che ai miei occhi si equivalgono. Per ora, i miei romanzi sono le mie serie.

True Detective, visto che stiamo ancora parlando di letteratura, è una serie che “si racconta” attraverso due narratori, i suoi due protagonisti. Perché ha scelto questa struttura?

Vuole dire della natura discorsiva, conversativa, di True Detective, e del fatto che gran parte della serie si limiti a inquadrature fisse su dei tipi mentre raccontano la loro storia? Che non succeda nulla, tranne due figuri che parlano alla telecamera? I personaggi sono tutto quel che conta per me. Ed è quello che intriga le persone quando guardano True Detective. Anche se sono convinti di essere interessati alla storia per sé, a mio parere, se vengono, è per Cohle e Hart. Il documentarista Errol Morris e il regista Mike Leigh per me sono quelli che catturano il più efficacemente, e sottilmente, i loro personaggi, con tutte le loro sfumature e contraddizioni. Mi riferisco in particolare alla pellicola di Errol Morris The Thin Blue Line, su un condannato a morte, accusato ingiustamente, in Texas. È un’opera che mi ha ispirato per la struttura di True Detective, e che mi ha fatto capire che si potevano dire molte cose con una inquadratura fissa su un personaggio che parla rivolto alla telecamera.Mi sono detto che se avessi usato questa cosa nella progressione naturale del racconto, avrei potuto scrivere una serie piena di monologhi. È la storia di personaggi che raccontano una storia. Ascolteremo quello che è successo, quello che dicono che sia successo, e che pensiamo stia per accadere. Del resto è una trama molto semplice, molto diretta, che non cerca mai di stupirvi con un impossibile rovesciamento della situazione .

truedetectiveMatthew McConaughey è vicino al Rust Cohle che aveva immaginato?

È esattamente il Rust Cohle che avevo scritto, compreso il suo aspetto. Ho scritto i primi due episodi di True Detective senza sapere da chi sarebbero stati interpretati i protagonisti, ma in seguito ho adattato il mio lavoro su Matthew McConaughey e Woody Harrelson. Per esempio, entrambi hanno una specie di virilità vecchia maniera del sud. Così ho provato a confrontarmi con questo, e a impregnarne i personaggi. La mia fortuna è che Matthew è riuscito a incarnare Rust esattamente come lo avevo scritto. I monologhi di Rust non sono alla portata di qualsiasi attore.

Dei monologhi di Rust sono state fatte delle parodie …

Alcune di queste parodie sono esilaranti! Stanno a dimostrare che la serie ha avuto un grosso impatto, e che Rust è diventato un’icona. D’altronde volevo che i miei due protagonisti fossero degli archetipi, in modo che dopo True Detective, qualsiasi sceneggiatore che avesse deciso di scrivere una serie su un paio di poliziotti ci avrebbe dovuto pensare due volte.

Tornando a monologhi, qualcuno ha detto che sono vuoti, chiacchiericcio senza fondo …

Si sbagliano. Alcuni americani hanno un problema serio nel prendere in considerazione le idee espresse senza ironia. Ecco, io non ho tempo da perdere con l’ironia. L’ironia è povera, adolescente è un modo maldestro di evitare di assumersi la responsabilità delle proprie opinioni, di proteggere se stessi. In certi ambienti intellettuali conviene pensare che Rust dica cose ridicole, ma in tal caso a queste persone direi che Schopenhauer scriveva cose assurde, come del resto Emil Cioran. Rust non è uno studente che delira mentre si fuma un cannone, esprime le idee di filosofi pessimisti e antinatalisti. Se i suoi monologhi hanno turbato o infastidito così tante persone è la prova che contengono qualcosa di giusto …

true-detectiveTrue Detective inizia nel 1995, anno di uscita sugli schermi di Seven di David Fincher, un film su un serial killer che un po’ ricorda la sua serie. È per questo che ha scelto il 1995?

Assolutamente no! Volevo che la serie si estendesse su un tempo sufficientemente lungo in modo che si potesse osservare un reale cambiamento, o la mancanza di un’evoluzione nei personaggi. I figli di Marty dovevano avere il tempo di crescere, per esempio. Nel 1995, abitavo ancora in Louisiana. Ci ho vissuto lì fino ai ventidue anni. Così mi sono sentito a mio agio nella descrizione e nella costruzione di questo universo

Due parole sullo stile, l’atmosfera di True Detective, compreso il fatto che alcuni abbiano definito la serie come “cinematografica” …

Lo stile della serie deve tutto ad Adam Arkapaw, il nostro direttore della fotografia [anche direttore della fotografia di Top of the Lake, ndr]. Non è merito del regista Cary Fukunaga, né tanto meno il mio. In quasi il 90% delle scene, abbiamo utilizzato attrezzature e format televisivi convenzionali, e sono persuaso che la gente sia rimasta assai sorpresa dalla realtà degli elementi di scena della Louisiana, si siano sicuramente convinti del fatto che avessimo creato un posto magico, quando poi non abbiamo creato assolutamente nulla! Non abbiamo quasi mai costruito dei set! Inoltre, non credo che si possa dire che questo è un film di otto ore. So che le persone pensano di fare un complimento quando dicono che una serie è “come un film”, ma in realtà è riduttivo. In America, le serie sono indubbiamente superiori al cinema da almeno dieci anni a questa parte. Permettono di fare cose inconcepibili per il cinema. In True Detective, ci vogliono tre ore per arrivare a conoscere i personaggi, capire chi siano, le loro contraddizioni e i loro valori. Ben prima che l’azione, la suspense della serie cominci per davvero! È impossibile per il cinema. La versione grande schermo di True Detective inizierebbe con il quarto episodio!

Le teorie più strampalate sono circolate su Internet mentre mandavano in onda True Detective. Come l’ha presa tutta questa agitazione?

Non me ne sono immischiato! Dopo il secondo episodio, ho lasciato Internet. Non voglio né moderare, né controllare, né tantomeno partecipare alle discussioni intorno al mio lavoro. Il mio ruolo è quello di fare la serie. Punto. Una cosa però l’ho imparata ed è che se dodici milioni di spettatori seguono una serie, ci saranno quasi altrettante esperienze e interpretazioni. Ho anche capito che se si scrive un’opera con un sottotesto, si rischia di non essere capiti correttamente. Comunque sia, io non voglio rinunciare al sottotesto. Una parte del pubblico si lascerà andare in interpretazioni deliranti? Lasciamoli pure nei loro deliri. È una delle conseguenze del successo della serie.

Nella serie, Rust Cohle ha delle visioni. Capitano anche a lei quando scrive?

Non nel senso religioso del termine, in ogni caso. Non sono un tipo religioso. Soffro di una forma blanda di sinestesia, che era molto più forte quando ero bambino. Prima di diventare uno scrittore, ero un pittore. Quindi, penso ancora molto visivamente. Vedo delle immagini prima che diventino parole. La Louisiana, dove sono cresciuto, è un posto allucinogeno. Sono sempre stato attratto da artisti dotati di visioni metafisiche. Per esempio, c’è molto William Blake in True Detective. Non credo che ci sia un mondo soprannaturale, ma penso che gli esseri umani abbiano accesso a certe cose che non possiamo spiegare razionalmente.

Conta di tornare al romanzo?

Uno dei problemi della televisione e del cinema è che costano cari. Allora bisogna autocensurarsi, porre dei limiti. Quando si scrive un libro, non è necessario scendere a compromessi. Ci può essere un tempo, in un futuro non così lontano, in cui la televisione o il cinema potrebbero andarmi stretti, dove avrò bisogno di tornare alla libertà e alla semplicità delle parole su una pagina.

Che cosa ci può dire in merito alla seconda stagione di True Detective ?

Non sono sicuro di poterle dire granché. Sul versante della scrittura i primi due episodi sono pronti. Ci sarà sicuramente da iniziare il casting a maggio o giugno. La storia si svolge in California, ma non nella California che si è abituati a vedere in tv o nei film. Ci saranno tre personaggi principali, e sono già molto eccitato, affascinato dal loro linguaggio e dalla loro personalità. Speriamo di iniziare la produzione in autunno, in modo da mandarlo in onda probabilmente per febbraio 2015.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017