FABIO TETI “spazio di destot”, verso la nuova complessità
“Se leggo con piacere questa frase, questa storia o questa parola, è perché sono state scritte nel piacere (questo piacere non è in contraddizione con i lamenti dello scrittore). Ma l’inverso? Scrivere nel piacere mi garantisce – me, scrittore – del piacere del mio lettore? In nessun modo. Questo lettore bisogna che lo cerchi (lo «draghi»), senza sapere dov’è. Si è creato allora uno spazio del godimento. Non è la «persona» dell’altro che mi è necessaria, è lo spazio: la possibilità di una dialettica del desiderio, di una imprevisione del godimento: che il gioco non sia già chiuso, che ci sia un gioco.”
(Roland Barthes : da “Il piacere del testo” – Einaudi 1975)
Molto spesso in recensioni, saggi brevi e testi di critica letteraria i nomi di Deleuze, Barthes e Derrida ci cascano dentro, e abbastanza frequentemente come ornati che suonano a vuoto. Ahimè oggi si apre con Barthes, ma spero con i migliori intenti. Evocare sullo sfondo “Il piacere del testo” in relazione a “spazio di destot”, rappresenta la simulazione della prima e unica domanda da porsi rispetto a questo libro di Fabio Teti: «Perché un libro come questo dovrebbe darci piacere/godimento?». La risposta sarà per via indiretta, altre domande sorgeranno, alcune risposte senza domanda, alcuni percorsi.
Andrea Raos nella chiusa della postfazione a questo libro si augura che “Un giorno, spero, sparirà dalla faccia della terra il rito deresponsabilizzante e avvilente delle postfazioni ai libri di poesia, così che questi potranno una volta per tutte essere davvero letti come oggetti adulti, non di necessità tenuti sempre per mano da una presunta autorità superiore e benedicente.”
Abbiamo pubblicato questo intervento di Raos e non possiamo essere che d’accordo, d’accordo soprattutto col timbro della voce, critica verso le clientele, i parchi e i parcheggi della poesia. Tuttavia ci troviamo nella posizione di dover introdurre e presentare questo lavoro di Teti -rimasto finora colpevolmente inedito-, per la necessità di fare dei distinguo e di collocarlo minimamente, anche per coloro che non lo traviserebbero mai.
Fabio Teti, che per molti non ha bisogno di presentazioni (attivo redattore di blogs di scrittura di ricerca, poeta e anche inconsapevolmente fine critico), è una delle firme più promettenti e lucide della “nuova scrittura di ricerca”. Questa definizione di comodo, più che in passato (quando si parlava di avanguardia etc.), comporta non pochi problemi.
Cos’è la scrittura di ricerca (sperimentale?) oggi? Qual è?
Dal nostro punto di vista la gran parte delle nuove scritture (con tutte le differenze capillari che ci sono tra autore e autore) si informa agli stilemi del neo-oggettivismo: l’oggetto e l’oggettualità parlano da soli attraverso lo strumento piallato e autoannichilente di una parola limpida, scevra, comune. Parola che diventa minima e che nel flusso orizzontale e didascalico del reale può creare e crea dei battimenti, quindi dei momenti di reale tensione emotiva e intellettuale. Ci sono molti libri, che sono usciti da qualche anno a questa parte, di grande interesse, grazie ai Chapbooks di Bortolotti e Zaffarano, a Benway series di Michele Zaffarano, Giulio Marzaioli, Mariangela Guatteri, Marco Giovenale e ad altre pubblicazioni sparse su Vidya, Ets e Ikonaliber ad esempio. Grazie a chi si impegna a diffondere le nuove scritture, le nuove esperienze di ricerca letteraria!
“Sade: il piacere della lettura deriva evidentemente da certe rotture (o da certe collisioni): codici antipatici (per esempio, il nobile e il volgare) entrano in contatto; […] Come dice la teoria del testo: la lingua viene ridistribuita. Ora questa ridistribuzione si fa sempre per frattura. Vengono tracciati due bordi: un bordo prudente, conforme, plagiario (si tratta di copiare la lingua nel suo stato canonico, quale è stato stabilito dalla scuola, le buone maniere, la letteratura, la cultura), e un altro bordo, mobile, vuoto (atto a prendere qualunque contorno), che non è altro se non il luogo del proprio effetto: laddove s’intravede la morte del linguaggio.”
(Roland Barthes – id.)
Lo spazio di Destot è un piccolo spazio nel polso circondato dagli ossi uncinato, capitato, piramidale e semilunare. Ma spesso, come in questo libro, viene utilizzato per indicare lo spazio fra ulna e radio. Il titolo è imprescindibile perché oltre a direzionare in qualche misura la lettura, sia in termini di contenuto che di interpretazione allegorica, ci permette di fare un balzo metaletterario e affermare che Teti -o forse più precisamente questo libro- appartiene di diritto alle nuove matrici delle scritture sperimentali, ma non con la marcatura che abbiamo descritto pocanzi, piuttosto a uno spazio ulteriormente divergente. Anche se l’autore non considera la sua opera un esperimento -citando Günther Anders “non sono esperimenti perché rimangono, cioè: perché hanno conseguenze”- ma solo scrittura, “spazio di destot” non solo è riconoscibile culturalmente come letteratura della disappartenenza, non incasellabile, ma, etimologicamente, il contenuto (anche se profanato) fa riferimento a qualcosa che nasce dall’esperienza e il procedimento compositivo attua la sperimentazione di nuove forme e soluzioni arrivando all’experimentum crucis 1 , dove la ricerca attraverso l’esperimento cruciale ha come risultato non il discrimine di teorie concorrenti, ma l’indicazione di una divergenza appunto.
Per esplicitare la differenza che passa tra “spazio di destot” e altri libri dell’area “sperimentale”, ci viene in soccorso un’analogia musicale. Mettiamo a confronto un pezzo di Brian Ferneyhough, “Flurries” 2 ad esempio (https://www.youtube.com/watch?v=1hNcxZlu7po)e “Strumming music” di Charlemagne Palestine (https://www.youtube.com/watch?v=bulibjyaQ0s). Lungi dall’essere una questione di qualità o di importanza, ci troviamo evidentemente in due ambiti diversi della contemporaneità: con Palestine si può parlare a grandi linee di minimalismo e comunque di una musica che si fonda su un bordone 3 , mentre Ferneyhough è un compositore considerato appartenente alla cosiddetta Nuova Complessità 4 . Ecco, con tutte le remore che nascono dalla necessità di etichettamento e dall’ipertrofia critica dei “neo-”: “spazio di destot”, a nostro avviso, può prendere a prestito quest’ultima categoria e indicare forse una nuova stagione della scrittura sperimentale: la nuova complessità.
“spazio di destot” non è un libro per tutti i palati, è un libro ostico, nient’affatto accattivante, ma proprio per questo importante; tanto più importante oggi, in un momento storico di massimo parossismo come il nostro, perché indica la necessità di riconsiderare il reale attraverso nuovi percorsi logici o illogici che riescano anche attraverso l’afasia a combattere l’afasia.
“spazio di destot” anzitutto è un libro concettuale, dove il processo di composizione ha una rilevanza sostanziale, pertanto può essere considerato a tutti gli effetti un oggetto d’arte contemporanea, sia in termini espressivi che critici: nella contemporaneità, contro la contemporaneità, oltre la contemporaneità. L’unico dettaglio che non lo rende oggetto artistico a tutti gli effetti è la forma libro (peraltro fortemente minata dal contenuto) che va a limitare le possibilità intermediali insite nel progetto. La stratigrafia che se ne ricava va dal grande meccanismo iniziale di destrutturazione di un ur-testo, passando attraverso software e lingue diverse, alla risemantizzazione dell’inconscio, al carattere enciclopedico di alcuni campi semantici, fino alla finzione metaletteraria.
“[…] quello che succede al linguaggio non succede al discorso: quello che «succede», quello che «se ne va», la crepa tra i due bordi, l’interstizio del godimento, si produce nel volume dei linguaggi, nell’enunciazione, non nel susseguirsi degli enunciati […]”
(Roland Barthes – id.)
Teti parlando di destot:
“Le due parti, ‘disfazione’ e ‘diversione’ nascono dal corpo di un medesimo testo, ossia un libro di poesie che scrissi tra 2004 e 2005, e di cui ho patito negli anni successivi tutta la falsità immanente alla postura là assunta. Dunque ho distrutto il corpo testuale originario dandolo in pasto ad un software di cut-up, e ne ho rimontato (per modo di dire) i frammenti secondo una logica puramente intensiva, sicuramente inconscia. Fin qui ‘disfazione’. Tuttavia il regesto della distruzione continuava a non soddisfarmi: bisognava non soltanto distruggere il falso, bensì renderlo daccapo produttivo, generante, ma di una generazione che sapesse prescindere dalla messa in campo delle intenzionalità coscienti, dell’iperdeterminazione. Anche qui è occorso in mio aiuto un détournement, diciamo così, tecnologico: ho ripreso di nuovo il testo originale, ho eliminato ogni versura, e l’ho dato in pasto al google traduttore, riportando il tutto in italiano dopo diversi passaggi tra le lingue. Successivamente, ho lavorato su questo nuovo testo, su questa doppia alienazione dell’origine e delle intenzioni e falsità ad essa coestese, mettendomi a scrivere sopra e dentro e tra le frasi ottenute, cercando di lavorare lungo la linea di frizione fra inconscio tecnologico (quello della macchina, dei suoi errori di traduzione, dei suoi mostri sintattici, dei significanti aleatori prodotti dai suoi logaritmi) e inconscio umano, personale.”
Dunque ci troviamo a investigare un doppio corpo patito -bipartito a cerniera con una poesia spartiacque- quello lirico dell’autore, della sua esperienza, che non è conclamato, anzi è per lo più epurato col sistema della desoggettivazione, ne rimangono echi distanti; e un corpo allegorico metaletterario che promana dal primo per stato di riflessione: il corpo della scrittura. Il processo di composizione ha come obiettivo primario quello della messa in crisi del mondo e della sua (tentata) ricostituzione. In questa prospettiva ci vengono in soccorso le concordanze semantiche che creano campi ben precisi: la nascita -viene da una morte inflitta al testo primigenio dall’autore- (vita, sperma, feto, placenta, utero, etc.); il corpo (labbra, tessuto, denti, pelle, ossa, etc.); la frattura (lama, frammenti, squarci, scuoiati, scoperchiato, etc.); la patologia e la morte – con tutto ciò che riguarda il campo medico e farmacologico- (cariato, barbiturico, congiuntiviti, emorragie, nepente, lidocaina, morte, etc.).
Questi 4 campi convogliano tutti, con diversi apporti quantitativi, nel macroinsieme della liquidità (sangue, infradicia, lattice, inoculare, amniotico, etc.). Seppure ci siano dei limiti di interpretazione, per via di suggestione potremmo considerare “spazio di destot” come una concrezione della teoria della liquidità di Bauman, dove la liquefazione degli stati solidi della convenzione letteraria porta, con la percolazione tra i diversi stati di aggregazione, al palinsesto di spazi diversi differiti attraversati in un tempo istantaneo che è quello della lettura. I sottoinsiemi che si intersecano in questa costruzione liquida sono 3 e hanno carattere enciclopedico, didattico-scientifico: erbario o campo che pertiene al vegetale (olive, roseabondi, limoni, magnolie, etc.); bestiario (serpente, asino, polipi, lucciole, etc.); lapidario o campo che pertiene ai metalli e agli elementi chimici (granito, cristallo, mercurio, carbonica, benzina, etc.).
I 4 punti cardinali di cui sopra sono distribuiti in una struttura labirintica.
Teti si appropria, attraverso destot, della metafora per antonomasia dello spirito di ricerca: quella del labirinto, ma labirinto inteso nella prospettiva mitologica e non post-moderna sanguinetiana. In effetti il testo non ha niente della digestione laborintica di materiali disparati e collazioni, è un’estremizzazione e un allontanamento vertiginoso da quegli stilemi che denunciavano lo stesso sistema cui appartenevano, e approda a un risultato desultorio e iconoclasta che spaventa e preoccupa lo stesso autore. La chiusa del libro è lampante: “e adesso?”; e lo svelamento della qualità della scrittura, che procede come una sinapsi onirica, con la frase:
“è sempre per essere vero, che
faccio il mio incubo. lui (io non lo so, tenere il
linguaggio del cuore e insieme la manipolazione)
sa come”
è altrettanto paradigmatica.
Parafrasando Kerenij: “nel labirinto occorre muoversi , puntando al centro per risolvere il problema e subito dopo cercare una via d’uscita per sfuggire alla logica stessa di quella ricerca”. Questo è il percorso che ha fatto l’autore e che ora il libro (non l’autore) chiede di fare al lettore: “la più profonda verità del labirinto è che occorre un sapiente interprete perché il suo nodo enigmatico venga sciolto, e tradotto in un filo”. Arduo. Il labirinto si rivela come luogo (nel nostro caso come spazio) ed emblema delle contraddizioni; un percorso apparentemente senza senso, ma dotato di un senso nascosto; percorso e senso che non possiamo prevedere ma solo scoprire. Neanche a dirlo, nel libro di Teti si tenta di spostare i limiti, l’idea del superamento delle convenzioni è genetica, il linguaggio come sistema di rappresentazione è messo a dura prova, perciò la forma non può più rimandare al reale in quanto tale, ma a ciò che non è ancora definito e che l’opera, nel suo svolgersi, lascia intravedere. Da ricordare al proposito ciò che scriveva Rimbaud nella “Lettera del veggente”: “se ciò che il poeta riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua […]”. La dialettica tra informe che diventa forma e informe che resta non formabile è una delle caratteristiche agoniche che si patisce in tutto il libro.
Se come dice Teti il processo rigenerativo del testo doveva prescindere dalle intenzionalità coscienti e dall’iperdeterminazione, in realtà ci troviamo di fronte a una partitura tutt’altro che indeterminata: certo il fattore aleatorio risulta costitutivo dell’operazione, ma trattasi di un’alea ben regolata che non prescinde dal risultato estetico e che porta, potremmo dire, a una superdeterminazione del fatto letterario, guidata dall’autore, ma alla quale il lettore partecipa totalmente, proiettato verso “n” possibilità integrative.
“Testo di piacere: quello che soddisfa, appaga, dà euforia; quello che viene dalla cultura, non rompe con essa, è legato a una pratica confortevole della lettura. Testo di godimento: quello che mette in stato di perdita, quello che sconforta (forse fino a un certo stato di noia), fa vacillare le assise storiche, culturali, psicologiche, del lettore, la consistenza dei suoi gusti, dei suoi valori e dei suoi ricordi, mette in crisi il suo rapporto col linguaggio.”
(Roland Barthes – id.)
destot si apre con la prima sezione denominata “disfazione” (la medusa straccata a riva si scioglie al sole): un vero e proprio dies irae della parola, dove la totale o quasi assenza delle concordanze si scontra con il lettore in un fenomeno di glossopoiesi che ricorda a tratti il ritmo della lallazione infantile. In effetti ci troviamo nella fucina del romanzo, alla nascita, nei primi passi che ci porteranno poi alla seconda parte, la “via d’uscita”. In questa fase di genesi l’interprete (lettore) deve prendere coscienza della contraddittorietà che si produce tra un’organizzazione ritmica piuttosto omogenea e la grande resistenza che gli si para di fronte d’acchito con la polverizzazione della struttura lirica, del contenuto. Ma anche qui si produce un effetto molteplice (effetto doppler), in quanto la topografia serrata delle interpunzioni (virgole, punti, due punti) ci danno la vaga sensazione di ciò che fu: delle frasi ipotetiche cui questi lacerti appartennero. La logica moltiplicativa, diremmo quasi lynchana -attraverso la poesia centrale c’è un passaggio dimensionale come col cubo in “Mulholland drive”- subisce senza affievolimenti una percolazione nella seconda parte, la “diversione”, e innesca un percorso di riconoscimento: ci troviamo di fronte a miriadi di dejà-vu e dejà-ecouté e si ha la sensazione di ritrovarsi in quello che si legge, ma in realtà siamo in una dimensione parallela che dialoga solo per suggestione con l’altra. In questa fase le raffiche di parole in flusso equipollente (non ci sono mai maiuscole), si sedano in un andamento più disteso, seppure sempre sintatticamente a rischio. Ritmo e contenuto vedono diminuire il contrasto, con frequenti estrusioni che non portano a niente però, come nel vicolo cieco del braccio sbagliato del labirinto. Tuttavia questo respirare l’aria di uscita dal labirinto ci appare a lungo andare un miraggio: adesso l’allegoria metaletteraria di riflessione sulla scrittura, si esplicita rispetto all’ipotesi leggente. Laddove la “disfazione” designa un dato di fatto dell’opera, “diversione” è un termine che chiama direttamente in causa il lettore, che viene avvisato di una deviazione, di un cambiamento. E questo è giusto e senza inganno, ma nel gergo militare la diversione è una strategia per attirare il nemico in un punto e attaccarlo nella parte sensibile rimasta scoperta. Cosa vuole veramente Teti?
Nella prima parte, nel crogiuolo, l’autore fa riferimento al mito della caverna di Platone 5
, che non ritroviamo per niente nella seconda parte e che viene quindi a rappresentare il depistaggio vero e proprio dell’opera: in nuce si promettono il sole e la conoscenza, ma alla fine del romanzo rimaniamo prigionieri (della caverna, del labirinto) costretti ad osservare delle semplici ombre di forme che non sono neanche dei veri oggetti, oggetti che troveremmo invece fuori. Dunque rimanendo in linea con l’interpretazione dell’allegoria metaletteraria (l’opera che parla dell’opera), qual è il punto che Teti vuole colpire con questo movimento di diversione che porta a un apparente cul de sac? È proprio la comprensione, atto bifido che non coincide necessariamente con la conoscenza: l’intelligibile delle forme e degli oggetti che troveremmo fuori dalla caverna e che riusciamo a “capire” attraverso la ragione, non sono le forme e gli oggetti che interessano a Teti e che pertengono invece all’universo più sfaccettato della percezione. Per questo in apertura abbiamo parlato di opera d’arte più che di romanzo o poesia, perché in queste pagine vengono gettate le basi per una fenomenologia che non va verso il nitore della luce, ma dopo quel “e adesso?” che chiude il libro, ha la possibilità e il dovere di grattare il muro della caverna su cui si proiettano le ombre esterne, per trovare un’altra via d’uscita. E per questo ci sentiamo ancora di rimarcare che “spazio di destot” è un luogo che appartiene a uno spazio ancora “vagente” (che vagisce), quello della nuova complessità.
Il libro è pubblicato per le edizioni [dia•foria / Cinquemarzo e puo’ essere acquistato direttamente scrivendo a: info@diaforia.org.
floema è una collana di scritture sperimentali che nasce che nasce in seno a [dia•foria da un’esperienza in rete iniziata due anni e mezzo fa.
Sabato 19 settembre, Fabio Teti presenta il suo libro nell’ambito di Multiversi. Tutti i dettagli a questo link https://www.facebook.com/events/1041450162539973/
Fabio Teti è nato a Castel di Sangro (AQ) il 17/12/1985. Vive e lavora a Roma, dove nel 2012 si è laureato in Lettere moderne con una tesi sulla poesia di Giuliano Mesa. È stato redattore di «gammm.org» e «puntocritico.eu»; collabora, dalla fondazione, alle attività di «eexxiitt.blogspot.com». Suoi testi sono comparsi in diverse riviste, lit-blogs e web-zines tra cui «Semicerchio», «Nazione indiana», «L’Ulisse», «Allegoria», «alfabeta2», «l’immaginazione». In traduzione inglese, è presente sul «Journal of Italian Translation» (2012) e nell’antologia online «FreeVerse – Contemporary Italian Poetry» (2013); in traduzione franscese, in «Nioques» (2015). Nel 2013 ha pubblicato, all’interno del volume antologico Ex.It. 2013. Materiali fuori contesto (Tielleci, Colorno), le prose di sotto peggiori paragrafi e, per La Camera Verde di Roma, b t w b h (frasi per la redistribuzione del sensibile), uno dei cui testi è stato esposto, nel maggio 2014, al MACRO di Roma, nell’ambito della mostra collettiva se il dubbio nello spazio è dello spazio, a cura di Nemanja Cvijanović e Maria Adele Del Vecchio.
NOTE- c’è qui un suggerimento diretto al titolo del libro, sia per quanto riguarda il risultato formale, esperimento cruciale e crocefissione di un possibile ulteriore sviluppo in questo senso, sia per il contenuto che promana da una materia patita, con l’evocativa, seppure in parte fuorviante, identificazione dell’io poetico con la crocefissione.🡅
- fermento, agitazione, si riferisce al titolo di una poesia di A.R. Ammons, poeta americano, e in particolare al suo verso conclusivo «ma il movimento insidia il significato con il significato»; Ammons dichiara anche: “la poesia ci conduce alle fonti non strutturate del nostro essere, all’ignoto e ci riporta ai nostri strutturati io rinfrescati”.🡅
- effetto armonico o monofonico di accompagnamento in cui una nota o un accordo sono suonati in modo continuo🡅
- caratterizzata dall’estensione delle caratteristiche formali costruttive del serialismo, cioè del preordinamento in successioni stabilite, dette serie, di uno o più parametri musicali (altezza, durata, intensità, timbro). La musica di Ferneyhough in genere richiede enormi sforzi tecnici da parte degli interpreti (talvolta le sue partiture sono talmente dettagliate e complesse che risulta quasi impossibile una realizzazione totale di quanto vi è scritto). Nella sua personale filosofia compositiva, lo scopo di ciò è quello di liberare la creatività dell’interprete, il quale dovrà decidere su quali particolari concentrarsi, e quali altri verranno invece tralasciati. Paradossalmente l’eccesso di informazione, di notazione, crea un margine di indeterminazione e aleatorietà, caratteristica che ritroviamo, mutata di segno, anche in “spazio di destot” soprattutto in ragione delle modalità compositive, ma che finisce poi per andare nel senso dell’enorme sforzo dell’interprete, che nel nostro caso veste i panni del lettore.🡅
- lebbra sbobina, le scaglia, platone, caverna
non vuoto crepuscoli, spiega, soliloquio, caverna
la e di metamorfosi, crepuscoli in lavanda,
solo, così che nodo la crepuscoli sbobina, le spiega
ombre, mi sopra, i non e la suono del stomaco,
vuoto, spiega gastrica, lebbra sulle. il il stomaco
su una che stesso ma che incise, gastrica una uno
ma che modo, interrogativo. congiuntiva, scaglia
ma che stesso, stesso nodo sulla, il congiuntiva,
il congiuntiva, ombra platone, caverna s’una cornea,
sull’altra no🡅