Non luogo comune
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Non Luogo Comune è un cortometraggio che ha preso forma negli ultimi mesi. È la presa di coscienza di come il linguaggio possa diventare un corpo staccato dal contesto culturale di riferimento, farsi sintomo e metastasi di un processo di erosione dei complessi rapporti sociali che le società occidentali stanno affrontando.
Sul tema delIa migrazione, i media mainstream e i link sgrammaticati che scorrono sulle timeline dei social network offrono una panoramica apocalittica delle visioni di questo (nuovo) mondo mentre va configurandosi, trasmettendo in diretta e senza mediazioni l’alba di una weltanschauung istantanea, i cui caratteri essenziali si collocano a metà strada tra la paranoia e la paura di specchiarsi in quello che le nostre società cercano di tenere alla larga dal nostro specchio visivo: la povertà, la sporcizia, il caos. Questi totem cercano di ridefinirsi nel linguaggio comune con la creazione di mantra consolatori, le cui intenzioni sono quelle di tracciare i confini di un gruppo sociale, il nostro, delineato unendo brandelli di narrazioni identitarie senza basi storiche e civili. Si tracciano per tanto i confini di un non luogo, abitato solamente dall’Io e dall’attesa dell’invasore, come in un moderno western, o un film di guerra. Come film maker è stato interessante cercare una chiave per documentare questa scintilla, questa deflagrazione in slow-motion che dai tavoli dei bar agli schermi degli smartphone sta diventando un’interferenza comunicativa sempre più forte, una linea di rumore bianco che combatte per farsi spazio e diventare egemone.
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Regia: Bernardo Radi
Sceneggiatura: Alessandro Corinti
Montaggio: Bernardo Radi & Alessandro Corinti
Cast: Michelangelo Bellani
Musiche: Swans
Produzione: Pomodoro Produzioni
Belle sia l’idea sia la breve presentazione. E’ proprio vero, la sfilza di mantra retorici (il primo dei quali forse è “non sono razzista, ma”), ripetuta come una cantilena ipnotica e contagiosa, è usata come un’arma di definizione territoriale, per circoscrivere la propria zona e sbarrarne gli accessi. Il tutto sventolando autoconsolazione, finto buon senso e brandelli identitari inesistenti, come scrive Radi.
Questo mese è uscito al cinema La bella gente, un film di Ivano De Matteo del 2009 che non era mai arrivato prima in Italia. Protagonista è una coppia cinquantenne di sinistra, ricca, progressista, portatrice sana di buoni sentimenti; lei lavora in un centro contro la violenza sulle donne. I due decidono di salvare una ragazza ucraina in difficoltà, ma lungo il cammino finiscono oltre un punto di non ritorno: quel punto, cioè, in cui l’interesse personale impone la rinuncia all’arido stendardo di una solidarietà da parata.
Il film è una stilettata, mette in scena una decomposizione di valori ben calibrata e mira a denunciare non tanto il narcisismo della bontà, quanto piuttosto la scivolosità dei buoni sentimenti di protagonisti apparentemente pronti a tutto pur di aiutare il prossimo. E il razzismo si infiltra (come sempre) anche attraverso la lingua. Su questo tema forse il cinema è uno degli strumenti più incisivi.