Édouard Levé, Suicidio
di Francesca Fiorletta
Dire che tu ballassi non sarebbe esatto. Anche quando la musica ti avvolgeva, trascinando i corpi nel vortice del ritmo, non riusciva a penetrarti. Accennavi qualche passo, ma più che ballare era mimare il ballo. Ballavi da solo. Quando uno sguardo incrociava il tuo, sorridevi come chi viene sorpreso in una situazione assurda.
Questo è un libro che mima il suicidio, e che lo anticipa. Un libro che non racconta semplicemente, ma che è, esso stesso, una situazione assurda.
Edouard Levè, scrittore e fotografo, ha ricostruito con solerzia la morte di un amico, il suo gesto estremo e la desolazione sconfinata dei congiunti che resta appiccicata tutta intorno: nelle stanze vuote della casa-teatro dell’orrore, sul pavimento sporco che fu letto di un cadavere a bruciapelo, tra le pagine misteriose di un libro di fumetti, unico apparente testamento lasciato da un protagonista che si alimenta di un “tu” perenne, concreto, inalienabile.
Ormai ossidato nel ricordo, plasmato dalla memoria, fatto cenere con un solo sparo di fucile, il “tu” del romanzo-vita riprende forma e sostanza, corpo e sentimento, in una minuziosa indagine a posteriori su quella che fu la sua quotidianità, i suoi gusti letterari e mondani, i suoi passatempi e le sue idiosincrasie, lasciando al lettore un impressionante sentore d’assenza, di vuoto incolmabile, una profondissima impotenza al cospetto del divenire delle cose umane.
La prosa secca e sempre ben circostanziata, mai sopra le righe, anzi stigmatizzata quasi dalla paratassi stringente e ossessiva, ricompone e disvela, pagina dopo pagina, il carattere ambiguo e speculare delle due entità suicidali: l’”io” e il “tu” altri non sono che il prima e il dopo, l’aspettativa e la conseguenza, l’indecisione e la fermezza.
Ci divertivamo a ripetere il proverbio: Sfama un gatto per tutta la vita e ti lascerà in un sol giorno; sfama un cane per un sol giorno e ti sarà fedele per tutta la vita. Tu sei stato il gatto, io il cane.
Perché l’epilogo è ben noto, preannunciato già in quarta di copertina: Edouard Levè, dieci giorni dopo aver consegnato questo manoscritto al suo editore, si è tolto la vita.
Ma la questione è più complessa di quella che potrebbe sembrare, di primo acchito, una sorta di auto-proiezione. Il modo con cui Levè tratta il tema della morte, senza indulgenza, eppure con un velo di carezzevole tepore, è illuminante e sconcertante insieme.
Mi sono domandato spesso, dopo la tua morte, se quel sorriso, l’ultimo che abbia visto sulle tue labbra, fosse beffardo o se invece esprimesse la benevolenza di chi sa che presto abbandonerà i piaceri terreni. Non ti rincresceva lasciarli, ma non ti pesava assaporarli ancora un po’.
Siamo abituati – e chissà se ce ne stancheremo davvero, mai! – a un certo autobiografismo, che è (quasi) sempre votato al vittimismo, seppure miscelato con un piglio letterario estremamente vitalistico. Teatro-realtà della goffa stasi economica del precariato, analisi e autoanalisi di tutti i lutti familiari e i tormenti amorosi più brucianti, ricostruzione toponomastica del male di vivere che attanaglia i borghi e le cittadine di provincia di tutto lo stivale, isole comprese.
Qui siamo davanti esattamente al processo opposto: una meditazione precisissima sulla morte e, ça va sans dire, sulla vita, una scrittura che è, essa stessa, esistenza e resistenza, dolore e fastidio, meraviglia di crudeltà, ma anche saggezza tenace, documento onesto e sincero di realtà.
Nell’arte, togliere equivale a migliorare. Scomparendo ti sei perpetuato in una bellezza negativa.
Sarebbe bello vedere tradotti anche gli altri libri di Levé.