A debita distanza

Prosegue la pubblicazione di interventi sul tema “scrittura non assertiva”. Il primo intervento di Mariangela Guattteri è qui, quello di Marco Giovenale qui, quello di Andrea Inglese qui, quello di Michele Zaffarano qui.

di Italo Testa

Dicono che l’asserzione sia il gioco linguistico centrale. Forse non l’essenza del linguaggio. Forse il linguaggio è fatto di molti quartieri. Ma l’asserzione, il gioco degli enunciati dichiarativi, tenderebbe a occupare il centro di questo spazio. E la poesia, o quell’insieme di pratiche che chiamiamo poesia, sarebbe inevitabilmente assertoria. E così i poeti. Apofantici. Come tutti.

Di quella non assertività che avrebbe luogo in poesia.  Che avrebbe a che fare con la nostra lotta contro il linguaggio, corpo a corpo con i suoi limiti costitutivi.

Asserzione: che le cose stanno in un certo modo. Con forza assertoria: con una pretesa di verità.

Non assertività: una promessa, forse mai esaudibile, di ciò che chiamiamo poesia? Un’espressione, figura del paradosso: la pretesa di andare, con il linguaggio, oltre il linguaggio. Non essere in un determinato modo.

Sganciare, lasciar fluttuare, far vibrare appena forma constativa e attesa di verità.

Chiamatelo pure autosabotaggio. O smobilitazione. O libero gioco.

Il problema di una forma di intelligibilità non assertoria, o di un’esperienza possibile dal contenuto non proposizionale. Dopotutto, sembra esattamente la questione aperta dalla terza Critica, dalla critica del Giudizio.

Non assertività: non un criterio di demarcazione tra diverse forme, o tendenze, del fare poesia. Che potremmo considerare tutte assertive. O tutte non assertive, al limite.

Non assertività: neppure un criterio di demarcazione tra poesia e altre pratiche, linguistiche e non. La galassia del non proposizionale: vasta, sfuggente. Le gradazioni della forza assertoria: in-definite.

Potremmo forse parlare di strategie non assertive? Di strategie che fanno gioco sulla tensione non assertiva del fare poesia, piegandola in qualche direzione? Potremmo così descrivere diversi tassi, differenti gradi di adesione all’assertività o, per converso, di sua sospensione?

Un gradiente di sospensione del giudizio. Dove non si tratta di annullare, ma di forzare la forma constativa e/o deviare la pretesa di verità.

Pratica parassitaria. Stare nell’asserzione prendendone le distanze. Sua forma estrema: l’asserzione pura. Considerare Holan: verità della nuda forma constativa.

(O si parlava solo di comportamenti assertivi, di stili psicologici?)

 

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.