Materiale d’importazione ~ da DUDE MAG
di Eric Lundgren
Il database dell’editore deve essere vecchio di decenni, perché mi hanno chiamato in ufficio.
«Abbiamo un manoscritto», hanno detto.
«Naturalmente», ho risposto. «Ne avrete sì, ne avete sempre».
«Ci serve una prefazione. Possiamo farle avere un manoscritto con le macchie di caffè originali».
M’interessava, purtroppo.
«La mia prefazione sarà fuorviante», ho avvisato.
«Lo sappiamo», ha risposto l’editore. «Sappiamo tutto di lei».
«Il manoscritto è arrivato in buona forma», ho scritto alcuni giorni più tardi, «ma non lo aprirò prima di qualche tempo». L’editore ha speso 15 dollari e 90 per far arrivare il pacchetto la mattina dopo, erroneamente convinto che questo avrebbe velocizzato la stesura della prefazione. Ma io sono un uomo ostinato e improduttivo. Per pura noia ho rotto il sigillo. Le macchie di caffè erano semplici tracce. Il ms. misurava otto pollici per undici, ed era stampato su carta quasi trasparente. Il font: quattordici punti. Il carattere: Linotype in Fairfield, che, ho letto, «mostra le qualità sobrie e assennate di un mastro artigiano il cui talento è votato da lungo tempo alla chiarezza».
Ho fumato le prime cinque pagine dopo aver bloccato la porta dell’ufficio con la mia toga dottorale.
Ho sputato catarro sulle successive cinque pagine.
Ho fatto alcune pagine a pallini, che ho sparato su ignari ricercatori dalla cannuccia di una penna.
Ho fatto aerei di carta, che sono scesi fluttuando, divagando continuamente, fino a colpire le gambe degli studenti che si abbronzavano nel parco.
Ho mangiato qualche pagina che aveva l’aria di essere cruciale.
Ho attaccato quel che restava del testo al muro, con lo scotch, modificando la disposizione fino a trovarne una gradevole. Ero pronto a scrivere la mia prefazione.
La prefazione “speckiana” o “speckesca” – la prefazione orribilmente fuorviante – è uno sviluppo recente nella mia interminabile carriera. La svolta nel mio stile può essere datata con precisione – 12 maggio 1970 – il giorno in cui, per via di un grave errore amministrativo, mi è stato assegnato un posto di ruolo presso questo istituto. Prima di quel giorno, non ero stato che un autore di prefazioni mediamente fuorvianti. Nelle mie prime prefazioni, ad esempio, notavo il ricorrere di certe parole, “qui” e “lì”, per esempio, che poi collegavo dubbiamente a una pagina di Freud aperta per caso sulla mia scrivania, notando magari, in un inciso, che il padre dell’autore o autrice era stato spesso assente durante la sua infanzia probabilmente traumatica. Le mie prime prefazioni mi sono ora repellenti. Erano fuorvianti, ma solo per trascuratezza. Era principalmente colpa della forma, ma anche la mia incompetenza come scrittore aveva un ruolo.
Nell’inverno del 1969, un editore mi mandò un libro. Lasciatemelo dire francamente, quel libro avrei voluto scriverlo io. Mi fu chiaro sin dall’inizio, stavo leggendo il libro che io stesso avrei potuto scrivere, se non fossi stato uno scrittore di prefazioni. Era il libro verso cui le prefazioni mi stavano portando, o forse il libro che le prefazioni impedivano. Feci alcune false partenze nel vecchio stile, mai tanto consapevole della mia povertà letteraria. Mancai diverse scadenze. Urlavo ai miei studenti e maltrattavo me stesso.
Dopo qualche mese, sotto minaccia dell’editore, escogitai una soluzione che considero tuttora la summa del mio stile dell’epoca. Ritrascrissi il libro parola per parola, intitolandolo «Prefazione, di John Speck», e lo mandai all’editore.
«Non possiamo permetterci di stamparlo», dissero.
«È l’unica cosa buona…» cominciai —
Ma non ascoltarono.
Ottenuta la cattedra, mi divertivo cercando di farmi licenziare; e non tramite mezzi convenzionali, come le molestie sessuali, ma grazie alla pura e semplice incompetenza del mio lavoro. Nelle mie prefazioni anagrammavo i nomi degli autori. “Andrea” diventava “andare”; il libro di Andrea parlava dunque di viaggio, e mi sentivo anagrammaticamente giustificato ad “andarmene” per la tangente, allontanandomi dal libro verso altri argomenti. Anziché scavare nella biografia di un autore, correlavo il libro alla vita di un altro autore. Alcune mie prefazioni erano invettive contro i ricercatori dell’università, altre encomi di cioccolato, tabacco e allucinogeni che consumavo mentre scrivevo. Erano prefazioni fuorvianti, tutti concordavano. Nondimeno, la mia casella di posta era più piena che mai. Ogni volta che il mio nome compariva su un libro, l’università
mi mandava una cadente composizione floreale, come se una parte di me fosse morta. Le mie prefazioni cominciarono a valere un certo prezzo; qualcuno sosteneva persino che fossi diventato un creatore di narrazioni a mia volta. Ricevetti premi, le mie prefazioni furono raccolte in un libro al quale partecipai con l’ennesima prefazione fuorviante, e altri presto cominciarono a gettare le loro lucine e decorazioni accademiche sull’albero appassito del mio lavoro. Il mio curriculum scoppiava. L’università mi chiese di diventare Professore Illustre di Umanistica e Moralità. Declinai. Tentai nuovi stratagemmi. Nel mio corso di Realismo Moderno non mostrai altro che episodi di reality show al rallentatore, senz’audio, con Wagner per colonna sonora. Ai ragazzi però non dispiacque! Gli piacevano i miei corsi! Sui moduli di valutazione scrivevano «La pipa del professor Speck ha un buon odore» oppure «Il giorno che il cappotto in tweed di Speck ha preso fuoco è stato clamoroso».
Un ricercatore mi prese da parte. «Ehi, Prefatore», disse, «perché non te ne vai in pensione e basta? Odi l’accademia, e poi cos’hai ormai, centotré anni?».
«Sono sul punto di arrivare a qualcosa», dissi.
Forse avete delle domande sul libro tra le vostre mani – perché esiste, cos’ha da dire sulla vostra anima.
Temo di non potervi aiutare.
Fuorviare non è quel che avrei voluto fare da principio. Un tempo aspiravo a qualcosa di meglio, ma quella speranza iniziale svanisce sempre più nel profondo della nebbia delle mie prefazioni. È nella natura del mio mestiere guardare sempre avanti, verso un mondo sul quale posso fare commenti ma nel quale non posso mai entrare appieno. Continuo a vedere barlumi in lontananza, ma non sono più sicuro di cosa significhino – se non siano, per esempio, i fantasmi proiettati sui miei occhiali da questa lampada.
Ecco tutto.
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“L’ultima prefazione” di Eric Lundgren è tratto dall’ebook
un ebook di 14 racconti selezionati dall’omonima rubrica di DUDE MAG
A cura di Daniele Zinni
con illustrazioni di Fabio Pistoia e copertina di Bruno Bonamore
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