Pasolini, ragazzo a vita

pasoliniparisdi Gianfranco Franchi

Pasolini è diventato un totem, nelle patrie lettere. È uno dei due totem della vecchia Scuola Romana: oggi, forse, è diventato più carismatico e influente di quanto fosse mai stato in vita; tanto che forse ha finito per surclassare il totem primo, Moravia. Il professor Renzo Paris, l’irrequieto cane sciolto dei sessantottini, è sempre stato il biografo, e per certi aspetti l’irrisolto erede, del totem Moravia: un Moravia sentito come una figura paterna a rovescio, sentito come una misura di grandezza inconciliabile con certi aspetti del nostro tempo. Adesso, simbolicamente e direi inaspettatamente, Paris si mette a raccontare Pasolini: succede nel memoir Pasolini ragazzo a vita (Elliot, 2015), un libro di ricordi, di meditazioni, di evocazioni negromantiche e di pellegrinaggi laici, una restituzione di atmosfere rivoluzionarie studentesche e borghesone e borgatare romanesche, un saluto al totem pasoliniano che non sconfina nell’agiografia e non rimastica il pettegolezzo, non sprofonda nella paranoia e tendenzialmente non cede ai nostalgismi. Cosa s’è ricordato di ricordarci, Renzo Paris? Che non dobbiamo dimenticare che c’è qualcosa di Pier Paolo Pasolini che continua a fare spavento, e che dobbiamo sforzarci di tenere presente, quando rileggiamo i suoi versi, i suoi scritti corsari, i suoi romanzi giovanili, il suo incompiuto Petrolio. Non è soltanto la sua morte truculenta, maturata in un contesto allucinante, per dinamiche perverse: è la sua doppia anima, quella che il totem odierno sta finendo per oscurare e rinnegare, è il Pasolini notturno, aggressivo, prepotente, violento, quello che probabilmente aveva sconcertato il giovane poeta Dario Bellezza per il suo estremismo. Quello che probabilmente non aveva nessuna intenzione di essere raccontato o riconosciuto pubblicamente. Ma proprio nessuna. “Hai presente San Sebastiano, crivellato di frecce? Ecco, Pier Paolo oscilla tra la croce e le frecce”, spiegava Bellezza a Paris, prendendo una certa distanza dal suo mentore. L’adorato cugino Nico Naldini aveva parlato chiaro nel suo “Come non ci si difende dai ricordi”: “Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”. Oscillava tra la croce e le frecce. Oscillava.

 “Io qui sto parlando di un uomo che, se era estetizzante e un po’ dannunziano nell’opera, nella vita era tutto il contrario, spaccato in due, il borghese diurno e l’amante notturno, travestito da borgataro, ‘ragazzo a vita’” – scrive Paris. Il borghese è il Pasolini cittadino, letterato di chiara fama e ripetuti scandali, incontrato da Paris nel 1966, quando lui era ventiduenne e il poeta friulano aveva più del doppio della sua età. “Non che il borgataro dei romanzi ‘Ragazzi di vita’ e ‘Una vita violenta’ non mi interessi. Mi piaceva di quei libri l’atteggiamento materno del narratore in terza persona, nei confronti dei suoi ragazzini”. Il Pasolini borghese aveva impressionato Renzo Paris per via dei suoi ripetuti silenzi, della sua esibita estraneità. “Di Pasolini ce n’erano almeno due, quello amicale e socievole della teppa di borgata e quello silenzioso dei salotti borghesi. Bellezza sosteneva che il salotto era l’ambiente borghese dove Pier Paolo recitava la parte dell’intellettuale, del poeta, del cineasta, del critico, dove, in giacca e cravatta, non si sarebbe permesso mai di uscire fuori dal seminato. Meglio tacere il vero pensiero che gli passava per la testa. E infatti tutti a esclamare: ‘Ma com’è dolce e buono Pier Paolo, parla poco e niente e invece…’. Tutt’altra cosa era Pasolini quando lasciava gli amici artisti e correva a cercare le marchette di Termini. E qui Dario rideva di gusto. ‘Quando lo vedo compunto a casa delle Madame Verdurin romane e poi lo confronto con l’omosessuale in azione, mi confondo e penso che sono due persone diverse, diversissime. La madre non dorme più, tutte le mattine lo aspetta, guardando se ha i segni delle botte sul corpo, le macchie di sangue sulla camicia”. Forse il totem sta oscillando. È questo che la nostra epoca trova difficile da decifrare, da accettare, da metabolizzare: questa schizzata ambiguità, questo comportamento autodistruttivo, questa metamorfosi etica ed estetica. Questa segreta cattiveria: si può dire che Pasolini menava? Si può accettare come idea che un poeta fosse così aggressivo e rude? Si può pensare che, come altrove ripete Bellezza, con i figli del popolo fosse, in quelle sue nottate feroci, “pedagogo alla rovescia”? Quando ero molto giovane – sono nato comunque tre anni dopo la morte del poeta Pier Paolo, e la sua assenza, a via Fonteiana e dintorni, si sentiva forte, lancinante, irrisolta – ho potuto parlare con qualcuno degli ex ragazzi di Donna Olimpia, nel quartiere Monteverde, per domandare perché di Pasolini mi sembrava non si potesse parlare troppo, nel quartiere, o comunque perché si faticava tanto a riconoscergli quella grandezza che certi suoi versi e tanti suoi scritti critici chiaramente raccontano. La risposta di quasi tutti loro, a parte uno, era nervosa, qualche volte proprio parecchio rabbiosa, molto simile, in certi accenti e per certi aspetti, ma con molta meno educazione, a quella che il poeta Dario Bellezza dava, negli anni Settanta, a Renzo Paris. Io questa cosa non sono mai riuscito compiutamente a metterla a fuoco. Non l’ho mai trovata possibile, non aveva linearità. La accetto, o meglio ne ho preso atto, ma non la capisco. “Pasolini ragazzo a vita” va spesso a sbattere addosso a questa risposta qui, come una falena su una lanterna: senza nessun intento di profanazione, senza nessun giudizio morale, si capisce, perché anzi questo libro è, sin dall’incipit, non soltanto un atto di profonda amicizia e di memoria, ma un’evocazione negromantica: Paris va sulla tomba del poeta, nel suo adorato Friuli, a Casarsa, e sulla tomba trova segni e simboli di chi cerca di richiamare alla vita uno spettro. È uno spettro carismatico, ma molto più complesso e contraddittorio di quello che potevamo sospettare. È un ricordo autentico, durissimo.

“La memoria è tutto, mi dico” – scrive Paris. “Ma ci sono nomi che non mi vengono in mente nemmeno sotto tortura. Ed era gente con cui ho passato diversi anni della mia vita, gente con cui ho condiviso le lotte. Quando incontro uno di loro in transito nel mio quartiere, svicolo. Poi mi accorgo però che anche quello sembra svicolare. Forse è dovuto all’idea dell’immortalità, di cui ci si nutre in gioventù. Con la vecchiaia quell’idea si frantuma e dunque crolla anche il nome di chi doveva rimanere eterno. Da bambini la vita era una pagina bianca tutta ancora da scrivere. Da vecchi quella pagina, tutta scritta, si cancella a poco a poco”.

Cos’altro c’è di notevole in “Pasolini ragazzo a vita”? C’è un discreto coraggio nello schierarsi, a distanza di tempo, con la stessa ostinazione e la stessa naturalezza, da certe parti. Ci si schiera con gli studenti contro tutto, ci si schiera con Nuovi Argomenti contro il Gruppo 63, ci si schiera a fianco di Laura Betti nonostante tutto (e soprattutto, nonostante “Qualcosa di scritto”, lettura che Paris tiene ben presente), ci si schiera contro Pasolini per la sua tirata reazionaria di Valle Giulia, ci si schiera contro i fascismi e contro i fascisti di ogni ordine e grado, con il lessico d’antan; ci si schiera contro la nostra epoca che sta trasformando il poeta Pier Paolo in un’icona pop, ridotta a due battute o giù di lì, a un amuleto, a un passepartout. Ci si schiera contro la degradazione della memoria, contro la corruzione della memoria. Ci si schiera contro l’ipocrisia di non ammettere che certi comportamenti erotici pasoliniani, certe sue amicizie ragazzine, oggi sarebbero considerate disastrose. Ci si schiera contro le semplificazioni cretine di intelligenze tanto complesse, e contraddittorie.

E ogni tanto, a disorientarci parecchio, appare il Totem. “Lui non fumava neppure le sigarette, e io mi chiedevo come faceva a scrivere e filmare così tanto, senza una spinta. Elsa Morante si imbottiva di psicofarmaci, invece, per scrivere. Pasolini era, come Moravia, un igienista e un salutista di vecchio stampo. Voleva scandalizzare con le sue opere. La sua musa non lo abbandonò mai, neppure per un istante. Scriveva versi di getto, poi quelli che pensava di pubblicare li riscriveva più volte. Le sue gloriose terzine, con il passare del tempo, erano diventate pura prosa, come nella migliore tradizione del secondo Novecento. E la prosa era sempre più legata al diario delle emozioni provate nei suoi continui viaggi all’estero. Titolava ‘Comunicati all’Ansa’ i versi del suo diario di viaggio. Voleva sporcare di prosa la sua poesia, fino a renderla irriconoscibile, voleva renderla ‘pratica’”. Così.

C’è un’ultima cosa che vorrei riferire. Questo libro è così profondo, come scavo nella memoria e sondaggio nell’inconscio, che finisce per restituire frammenti intensissimi del movimento studentesco che fu; c’è una scena in cui Paris racconta di una biglia, scagliata dai neofascisti, che gli spacca gli occhiali, poco prima un banco ha spaccato la schiena a qualcuno, c’è nell’aria una normalità della violenza, delle ferite e della morte che sconcerta, c’è un freddo da guerra civile che per la mia generazione è irragionevole, mai sperimentato. Ma qualcosa è successo anche a me, mentre leggevo certe scene e ritrovavo certe considerazioni di Paris, certi strascichi polemici e così via. Ho rivisto papà. Mio padre, caro Paris, aveva praticamente la tua età, era del 1945. Si chiamava Sergio Franchi, studiava Filosofia alla Sapienza, aveva gli occhiali, somigliava a Mastroianni, si definiva vigliacco praticante ma aveva le sue idee. Nella sua adolescenza, e in giovinezza, era comunista. Era sessantottino, era dalla tua parte. Probabile che vi siate conosciuti. Leggendo il tuo libro, a un tratto, mentre pensavo al sangue – perché questo libro è pieno di sangue – mi sono ricordato una scena di quando ero ragazzino, tredici anni. Papà stava nel suo studio, un pomeriggio, circondato da buste e bustoni. Stava buttando via un sacco di cose. “Papà, che fai?” “Lascia stare”. “Dimmi che stai facendo”. “Non voglio, non è il caso”. “Cosa fai?” “Butto via cose che tu non devi vedere, cose che non dovrai mai trovare. E le butto adesso, che ancora non capisci”. “E che cose sono?” “Sono le cose del mio Sessantotto. Lettere. Giornali. Ritagli. Cazzi miei. Cose che tanto tu non potrai mai capire”. “Aspetta, dai…”. “Lascia stare. Non ti immischiare. Non ti riguarderanno mai. Tu non puoi capire”. C’ero rimasto male, me n’ero andato dietro la porta e ogni tanto tornavo a controllare cosa faceva. Smaniava, sbuffava, fumava come un turco e buttava via di tutto. Ricordo però un bastone nero che si apriva e aveva una strana punta acuminata. Ricordo un’agenda con su scritto “1968” con diverse macchie di sangue sulla copertina. Non ricordo altro. Non ho potuto guardare quelle carte. Non ho potuto aprirle, non mi ci sono mai potuto confrontare, di certe cose mio padre, Sergio, non ha mai voluto parlare. Non s’è mai laureato in Filosofia, la Sapienza la considerava un luogo di sventura, invecchiando è diventato borghese, ha lavorato per un accordo storico tra Democrazia Cristiana e comunisti, è stato sindacalista tutta la vita. Quanta complessità, quanto riserbo, quanti silenzi. Quanti rimpianti. Quanto sangue.

3 COMMENTS

  1. mi sembra molto bella questa coscienza e ammissione della difficoltà di capire il clima di violenza, assentissima purtroppo in tanti altri della stessa generazione …

  2. Grazie infinite, Giacomo. Ho cercato di essere più onesto e leale possibile, e cauto. Niente è più distante dalla mia generazione della confidenza con la violenza. E della quotidianitá della violenza.

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.