Jihad 2.0: un’offensiva del Têt?
di Daniele Ventre
Sul macello terroristico di Parigi e sulle connesse minacce jihadiste molte parole per forza di cose si spenderanno. A tutti i livelli di esposizione mediatica, personaggi pubblici, opinionisti e bloggers e comune sentire si muoveranno, come già per Charlie Hebdo, sui ben noti binari di circostanza: il grido di dolore, il giorno dopo e la quotidianità devastata, i proclami da sciacallo dei politicanti razzisti, i contro-proclami equanimi degli intellettuali tolleranti, lo sguardo ambiguo e sospettoso sul migrante (specie se magrebino o mediorientale), il sacrosanto umorismo tragico dei vignettisti e quant’altro una società sotto attacco inevitabilmente esprime nell’adattarsi al tempo del massacro.
In un simile contesto, di fronte a un bollettino di guerra di centoventinove vittime, si è molto riluttanti a portare legna alla selva dei molteplici interventi più o meno profondi, più o meno raffinati, più o meno accalorati che si avvicendano in queste ore; in simili circostanze ogni urgenza comunicativa passa in secondo piano. L’unica forma di esternazione che al momento appare in qualche modo legittima è tentare, con tutti i limiti del caso e con la massima sinteticità possibile, un’analisi della strategia che gli attentati fanno intravedere. Ogni altra considerazione culturale o ideologica verrà tirata in ballo al mero scopo di evidenziare la funzione degli aspetti culturali nel contesto della strategia della tensione globale, con tutto il costo in termini di political correctness che una visione obbiettiva del problema imporrà.
- Tattica e strategia degli attentati.
In termini militari, la realizzazione della gragnuola di attentati di Parigi ha portato alle estreme conseguenze l’impostazione strategica degli attacchi che l’hanno preceduta dall’11 settembre 2001 in poi e segue uno schema e dei presupposti tanto semplici da valutare a cose fatte quanto efficaci e imprevedibili negli effetti, come ciascuno può banalmente constatare. Anzitutto, gli uomini che verranno impegnati nell’azione di guerra, sono condotti in prossimità dell’obbiettivo senza che il nemico se ne accorga, alla spicciolata, allo scopo di conseguire il massimo effetto psicologico derivante da un attacco a sorpresa; in secondo luogo i bersagli selezionati sono obbiettivi che col senno di poi si rivelano concretamente esposti o sensibili (lo stadio –dove pure era presente Hollande– o la folla di giovani in un quartiere culturalmente misto in via di gentrificazione), e tuttavia, nonostante tutti gli indizi di preallarme a medio e breve termine che si erano presentati, la scala di priorità degli organi di controllo e di difesa non considerava tali obbiettivi così nevralgici da ritenere opportuni interventi straordinari di presidio e prevenzione di eventuali attacchi; infine, per quanto possano essere preparati in teoria sull’effetto motivazionale dell’ideologia del kamikaze, i comandi delle strutture di controllo e difesa del territorio restano spesso psicologicamente spiazzati, in quanto hanno a che fare con una forza ostile con la quale non ha senso intraprendere trattative, essendo impossibile intavolare trattative con chi non presupponga di valutare le proprie azioni in termini di rapporto costi-benefici.
Si aggiungerà un ulteriore duplice corollario: nel caso specifico, le contromisure di intelligence preventiva si sono rivelate inefficaci perché spesso i jihadisti si servono di mezzi di comunicazione e di concertazione online non ortodossi e al momento difficili da afferrare (piattaforma online della playstation inclusa, per quanto possa sembrare grottesco); inoltre, rispetto alla struttura disseminata delle cellule terroriste, la catena di comando gerarchizzata e la struttura organizzativa di un sistema di difesa istituzionale mostrano un certo handicap sia in termini di prevenzione degli attacchi, sia in termini di reattività. Queste due circostanze strutturali permettono nell’immediato di massimizzare gli effetti delle procedure strategiche e dei presupposti che abbiamo appena delineato. Fatte le dovute proporzioni e salvando le differenze, sembra almeno in parte di assistere a un sorta di offensiva del Têt in versione jihadista.
- Terrore, bombardamenti, profughi e petrolio -condizioni geopolitiche di contorno e potenziali sviluppi.
Sul piano geopolitico, le condizioni di contorno del conflitto con lo Stato Islamico non lasciano presagire quella soluzione rapida del problema che talora i comandi militari occidentali auspicano e prefigurano. I territori che lo Stato Islamico controlla sono ricchi di petrolio, contrabbandato con Stati che non sono troppo inclini al controllo di tali flussi di traffico, o sono addirittura conniventi, il che fornisce all’IS un gettito quasi illimitato di risorse finanziarie (ulteriori proventi vengono all’IS in misura minore anche dal commercio di quelle antichità che i jihadisti distruggono in parte a beneficio dei media, per poi fare commercio di tutto il resto che non finisce sotto le telecamere); inoltre, i bombardamenti della coalizione tendono a non colpire le installazioni petrolifere, così che la struttura economica portante dell’Is resta per lo più integra. Nello scenario che si configura, la connessione fra il dato dell’esistenza di uno Stato terrorista che ha a disposizione un duraturo gettito di introiti per finanziare la sua guerra del terrore e l’ipotesi di un’offensiva del Têt in versione terroristica, implica nel medio termine un’escalation degli attentati e la possibilità che in futuro più raffiche di attentati possano colpire a ondate di recrudescenza irregolari nel tempo più luoghi in più città europee in contemporanea, con l’effetto che tutti possono immaginare.
In uno scenario simile, mentre i governi minacciano vendetta e i mercanti d’armi e petrolio fanno i loro affari, le popolazioni civili, quale che sia la loro identità culturale di partenza, sono semplicemente oggetto di manipolazione, sia diretta, nel momento in cui sono forzate ad accrescere le masse di profughi e migranti fra cui il jihadismo può infiltrare i suoi miliziani, sia indiretta, nel momento in cui se ne plasma la mentalità in senso razzista, xenofobo o integralista. Per quanto attiene all’occidente, le esternazioni che imperversano nell’opinione pubblica sembrano al momento contribuire in un modo o nell’altro allo stato di cose. Le sparate alla Belpietro potenziano l’effetto alone socio-psicologico dell’azione dei jihadisti; peraltro l’affermazione banale per cui il musulmano comune non è un jihadista, e la riflessione generica della filologia sull’islam tollerante non colgono un aspetto tragico del problema. Al migrante, come al cittadino comune residente in loco, l’egalité, la liberté e la fraternité suonano come uno slogan vuoto: l’Europa dei mercati finanziari, delle politiche di austerità e della corruzione diffusa non ha proprio niente da offrire, al contrario dei proclami di una religione aggressiva portatrice di un messaggio salvifico e di concrete speranze di riscatto politico. Tolleranza e convivenza civile sono ormai prodotti ideologici diretti a un target esclusivo di consumatori elitari acculturati. Ma sappiamo tutti che né i migranti che potrebbero cedere al settarismo jihadista, né l’uomo della strada europeo che presta orecchio al razzismo, sono categorie che appartengono all’élite.
- Jihadismo e Unione Europea: effetto domino?
Gli effetti sul medio termine che gli attentati potrebbero avere sull’Unione Europea come compagine sono evidenti. Non è solo la partecipazione attiva di Parigi ai bombardamenti in Siria e l’azione in altri teatri di guerra ad aver innescato per ben due volte la recrudescenza di attentati jihadisti in Francia, per quanto questo possa presentarsi come il motivo più pressante di rappresaglia per un gruppo terroristico contro la popolazione civile di uno Stato repressore. La Francia è il Paese fondatore dell’UE con uno dei partiti populisti e xenofobi più forti e più inclini a perseguire fino in fondo la strada dell’abbandono dell’Unione, a fronte di un leader socialista che si è rivelato decisamente non all’altezza delle aspettative. Se l’onda emotiva montasse come i capi del jihadismo sperano che monti, il momento della definitiva radicalizzazione del conflitto etnico-religioso e la sperata sollevazione di almeno una minima parte della popolazione francese di religione musulmana contro la xenofobia dominante potrebbe determinarsi con la scadenza del mandato di Hollande. Per di più, se una Francia governata dal Front National dovesse infine abbandonare l’Unione, il conseguente processo di disintegrazione europea si misurerebbe solo sui tempi tecnici dei calendari politici dei singoli Stati. Così il definitivo avvento ufficiale di un’Europa divisa di democrature illiberali, dominate dall’egoismo sociale e dalla sanzione dell’ineguaglianza dei diritti, sarebbe questione di meno di un decennio, senza che ovviamente il grande riscatto politico e religioso della casa di Allah, auspicato a parole dai jihadisti, divenga molto più reale di quanto non sia oggi. Da questo scenario di guerra lo stesso mondo islamico uscirà ancora più oppresso, ancora più stigmatizzato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, e ancora più dilaniato e lacerato da odi e tensioni reciproche, se consideriamo il fatto che l’Europa occidentale è e continuerà a essere solo uno dei teatri della guerra di sterminio che l’IS ha dichiarato, dal medio oriente all’Africa orientale, a qualunque cosa si muova al di fuori dell’oscurantismo integralista di cui si fa portavoce.