Un peu d’Humanité
Stéphane T. , 49 anni, fa parte delle decine di spettatori presi in ostaggio dai terroristi per servirsene come scudo umano e comunicare con le forze di polizia. Racconta lo shock dell’attacco, il comportamento dei terroristi e l’assalto finale. E la difficoltà di rendersi conto di essere al cuore della tragedia. Il telo di soccorso è ancora lì, all’ingresso del suo appartamento, su un piccolo sgabello. Finirà in uno scatolone, insieme agli abiti indossati in quel terribile 13 novembre, che sarebbe dovuta essere una serata di festa per un appassionato di musica. Stéphane T. , 49 anni, informatico, racconta l’attacco al Bataclan e la presa di ostaggi da parte dei terroristi prima dell’assalto finale.
Un soir au Bataclan
Era la prima volta che vedevo gli Eagles of Death Metal in concerto. Ho una rubrica su una webzine rock, Rock n ‘Concert, e avevo ricevuto un altro invito per andare al Festival des Inrocks che si teneva a La Cigale. Ma con il fotografo della rivista, abbiamo scelto il Bataclan … L’atmosfera era magnifica, il cantante davvero carismatico, divertente. Ero sulla balconata di sopra, di fronte al palco, quando ho iniziato a sentire rumori, un po’ sordi dal basso. Ovviamente non ho capito subito cosa stesse succedendo. Davanti a me, qualcuno ha detto: “Penso che siano petardi, sento odore di polvere”. Ma non erano petardi …
L’attaque
In quel momento, vedo il chitarrista della band che smette di suonare e corre via in fretta dietro le quinte. La gente corre lungo i lati, le grida aumentano. Comincio con il nascondermi, e poi mi dico, no, bisogna andarsene via. Prendo la mia roba e mi dirigo verso la parte posteriore del palco, dove le porte conducono alle scale che raggiungono il piano terra (su un foglio, ha iniziato a disegnare la piantina del Bataclan – ndr). Mi dico che passando di lì mi potrò salvare. Ma poi penso che se vado giù, corro il rischio di trovarmeli di faccia, e beccarmi una pallottola. Ritorno sulla balconata, ce sono altri quattro o cinque ad aver fatto in questo modo. Ed è lì vedo i terroristi per la prima volta: tutti e due con kalashnikov. Saranno saliti dal retro del palco. Al piano di sotto, avranno sparato per buoni quattro o cinque minuti, ricaricando le armi più volte. Sopra, sparano alcune raffiche, ma di minore intensità. Si tratta di singoli spari. Per finire le persone a terra, per colpire coloro che cercavano di fuggire? Io non lo so. Noi tentiamo di metterci al riparo tra i sedili, ma possono vederci. Alcuni, più nascosti, strisciano verso una possibile via d’uscita. Vengono verso di noi dicendo: “Non vi ammazziamo, seguiteci.” Ci raggruppano dapprima sul lato sinistro sul fondo della balconata. Avanzando, i terroristi prendono con sé altre persone, e ci si ritrova in undici o dodici. Mi sembra di sentire un terzo assalitore, ma non so dove si trovi esattamente. Certamente è quello che è stato poi colpito da un poliziotto nella sala facendogli esplodere la cintura. È in quell’istante che ci intimano di andare in un corridoio, che si affaccia sul vicolo di Saint-Pierre Amelot. È in questa piccola strada che è stato girato il video che mostra persone che lasciano il Bataclan, dalle due uscite laterali. Il corridoio è chiuso da una porta che conduce alla balconata, e in fondo c’è una scala, che scende fin dietro alle quinte.
Dans le couloir
Ed è proprio qui che passeremo due ore e mezza con i due terroristi. Ci radunano, ci sediamo per terra. Ci fanno un primo discorso dicendo: “Potete ringraziare il presidente Hollande, perché è grazie a lui che state subendo tutto questo. Noi ci siamo lasciati dietro donne e bambini in Siria, sotto le bombe. Facciamo parte dello Stato Islamico e siamo qui per vendicare le nostre famiglie e le persone care per l’intervento francese in Siria. ”
Il tutto in francese, con appena un leggero accento nordafricano ma nulla di più.
I due terroristi si posizionano su entrambi i lati. Tre ostaggi sono messi di fronte alla porta dell’uscita, e gli altri, me compreso, con la faccia incollata alle finestre che danno sulla stradina. Da una di queste, i terroristi sparano alcune raffiche d’arma automatica, verso il boulevard. Forse indirizzate alla la polizia che comincia a piazzarsi intorno al Bataclan. “Mettetevi davanti alle finestre e fateci sapere se vedete gli sbirri e i cecchini nel palazzo di fronte. ”
Sono rimasto due ore in questa posizione, di fronte a una delle finestre. Era strano perché di fronte, vedevo l’interno di un appartamento con un televisore acceso. Le intensità di luce variavano e la cosa mi faceva paura, era assai inquietante. A un certo punto, abbiamo visto due poliziotti sopraggiungere nella stradina a destra, con giubbotti antiproiettile e armi in pugno. Hanno guardato dalla nostra parte, poi hanno fatto dei cenni con la testa, un po’ come per farci delle domande. Non ci siamo mossi, in verità e se ne sono andati via.
Gli assalitori ci stavano usando per far passare dei messaggi alla polizia. “Ditegli che abbiamo degli ostaggi, siamo disposti a trattare, vogliamo un walkie-talkie. Io non so davvero come avessero in mente di recuperarlo, ma … Tra gli ostaggi, c’erano due donne, forse tre. Hanno tentato di capire se vi fossero delle coppie. Ed era il caso: una donna che era contro la porta e il marito accanto a me di fronte a una finestra. Ci hanno detto: “In questo modo, inviamo uno dei due a portare un messaggio agli sbirri, e se non torna indietro, gli ammazziamo l’altro. ”
Così hanno identificato anche due cugini. Uno di loro è stato mandato a dire alla polizia: “Sono armati, hanno cinture esplosive, bisogna che indietreggiate”. Gli hanno detto: “se non sei di ritorno tra due minuti, facciamo fuori tuo cugino.”
Lo abbiamo sentito dare il messaggio, non doveva essere lontano. Però né noi né i terroristi avevamo alcun contatto visivo con quello che stava accadendo in sala.
Les deux terroristes
A noi, parlavano in francese. Ma quando si parlavano tra di loro, e non volevano che li si capisse, parlavano in arabo. Li ho sentiti molto determinati, anche un po’ euforici. A un certo punto uno di loro, dopo aver sparato con il kalashnikov verso la strada, ha detto: “Ssìii, ne ho steso uno, che era al telefono!”
Erano molto soddisfatti di quello che stavano facendo. In un primo momento, quando eravamo tutti piazzati in corridoio, hanno chiesto agli ostaggi vicino alla porta di descrivere ciò che sentivano dalla sala. “Beh si sentono persone che gemono ed è tutto.” Alcuni chiedevano aiuto. Non che li facesse ridere, ma poco ci mancava. E ci hanno ridetto la stessa cosa: “Ben vi sta, come per le donne e i bambini in Siria.”
Mi sono industriato a non incrociare mai il loro sguardo. Ma da quello che ho visto, erano vestiti di nero come un uomo qualunque. A memoria, uno dei due aveva una barba di tre giorni. Piuttosto giovane, tra i 25 ei 35 anni. Visibilmente, uno dei due aveva un ascendente sull’altro, doveva essere il capo. Sono rimasto un po’ sorpreso, li ho trovati in verità piuttosto disorganizzati. Hanno improvvisato molto, per esempio. Come quando sono entrati in contatto con la polizia. È stato un vero e proprio sketch di un quarto d’ora quando si è trattato di passare alla polizia un numero di telefono su cui sarebbe stato possibile chiamarli. Uno degli ostaggi ha annotato il suo numero su un pezzo di carta, uno dei terroristi o un altro ostaggio ha urlato il numero attraverso la porta. Questa cosa ha avuto un lato tragicomico, perché il poliziotto che ha risposto e tentava di prendere nota del numero aveva un accento del sud molto pronunciato, non riusciva a sentire bene: “06? “e poi,” non ho sentito …? ”
Le signe d’un commanditaire ?
A intervalli regolari, ci chiedevano di gridare dalla finestra: “Hanno degli ostaggi, hanno le cinture esplosive, si faranno esplodere, indietro, spostatevi indietro! Non vogliono vedere nessun poliziotto nelle vicinanze ”
A un certo punto, hanno avuto uno scambio – stranamente- in francese e uno di loro ha detto: “Chiamiamo…tizio?” Non mi ricordo del nome che hanno fatto. L’altro ha risposto: “No, non lo chiamiamo.”
Ho pensato che potesse essere il mandante, o quanto meno colui che stava coordinando il tutto.
In seguito, ci sono state quattro o cinque telefonate. Hanno chiesto agli ostaggi di chiamare la BFM (tra i più noti canali televisivi dedicati all’informazione, ndt). Senza successo. “Chiama iTele.”
Non ha funzionato neanche questa volta. Sono andati avanti con altro. C’era un che di dilettantesco. Per quanto siano sempre apparsi determinati – erano lì per uccidere, questo è chiaro – tanto ora, per come si è svolta la presa di ostaggi, procedevano a tentoni. In ogni caso, per loro, l’esito era chiaro: erano lì per farsi saltare in aria. Ma ho avuto l’impressione che non sapessero troppo con certezza quando. Da parte mia, pensavo davvero che fosse giunta la mia ultima ora. Non vedevo come potesse finire altrimenti. Sia nel caso in cui i terroristi si fossero fatti esplodere con noi accanto, o perché avrebbero ucciso tutti a fucilate. In quel momento, non ho nemmeno preso in considerazione la possibilità di un assalto da parte della polizia….
« T’as un briquet ? Crame ce fric ! »
Uno di loro ha detto:” Ce l’abbiamo fatta. Vieni, prepariamoci a restare qui ”
L’altro: “Nessun problema, io sono pronto a rimanere un giorno, due giorni, una settimana.”
E improvvisamente, si son presi il tempo di fare delle cose impensabili. A un certo punto, cacciano delle banconote da 50 e chiedono un ostaggio: “Hai un accendino? Dai, bruciali!”
C’è stato anche un momento di grande tensione, credo con uno dei due cugini. Non so esattamente cosa sia successo, ma uno degli aggressori ha detto, “girati su un fianco”, ha puntato il fucile contro di lui e ha sparato. Lo ha mancato di proposito? Non lo so, ma mi ricordo che ha ricaricato il suo Kalashnikov subito dopo.
Da parte mia, cercavo davvero di avere un basso profilo, per essere il più trasparente possibile. La qual cosa non è stata affatto facile visto che, come faccio prima di ogni concerto, avevo postato una foto del biglietto d’ingresso su Facebook. Tutti i miei contatti sapevano dunque che ero al Bataclan. E così hanno iniziato a chiamarmi, il mio telefono squillava, sono riuscito a metterlo in silenzioso, senza fare movimenti bruschi. Ma continuava a vibrare. La mia famiglia, i miei amici, provavano a chiamarmi.
L’assaut
Verso mezzanotte e mezza, non stava succedendo più nulla. Ed è in quell’istante che un colpo fa un buco sulla porta del corridoio. La cosa ha creato un po’ di panico. L’assalitore che era lì è andato verso il fondo. Gli ostaggi hanno gridato, “Fermatevi non sparate, siamo proprio dietro la porta! Faranno saltare in aria tutto!”
C’è stato un crescendo di rumori. Avevano capito che i poliziotti stavano cercando di penetrare nel corridoio. Ci hanno riuniti intorno a sé, si sono posizionati verso le scale, poi hanno sparato in direzione della porta. Quelli della BRI (Brigades de Recherche et d’Intervention) sono entrati con il loro enorme scudo, quello che abbiamo poi visto, con tutti i fori dei proiettili. Le luci si sono spente, granate assordanti sono state lanciate dai poliziotti. Una prima è esplosa ai miei piedi, io cado, poi ce n’è una seconda. Ed è qui che vedo uno dei due assalitori a un metro da me, in piedi in cima alle scale che scende verso le quinte, una mano sul Kalashnikov, e l’altra su un detonatore. Ma non l’aziona in quel momento, e non capisco perché. Se così fosse stato, ora non sarei qui a parlarne. Si continua a sparare dappertutto. I poliziotti avanzano. Sono a terra, assordato dalle granate, poi vedo uno dei robocop della Brigade. Alzo le mani. Con gli altri, ci trascinano verso l’uscita. Cerco di prendere una ragazza distesa a terra, mi è stato detto, “No, no, dai, dai muoviti, muoviti!”
Ci ritroviamo sulla balconata. Lì, il tipo della BRI mi tira la camicia per verificare che non ho esplosivo, che non sono uno dei terroristi. Ci hanno fatto uscire dicendoci: “Non guardate giù” . Ovviamente, quando ti dicono così, poi è difficile non guardare. E qui vedo una pila di corpi, corpi morti uno sopra l’altro, con sangue ovunque. È stato terribile. Allo stesso tempo, non mi ha sorpreso, perché durante le due ore precedenti, avevo sentito i gemiti, grida di aiuto …
La sortie
Scendiamo per le scale sul retro, agenti di polizia sono piazzati dappertutto. Fuori, i poliziotti ci fanno camminare lungo i muri – per timore che ci siano cecchini- e ci portano in un piccolo cortile interno, in rue Oberkampf. Lì ho ritrovato un ragazzo che era accanto a me davanti alle finestre, a cui ho prestato la giacca, i due cugini, uno dei quali aveva avuto il biglietto del concerto come regalo di compleanno. In quel preciso momento, sono in un totale stato d’incredulità. Mi chiedo: “È tutto vero? ”
È una sensazione che ho avuto anche durante la presa di ostaggi nel corridoio. Mi sono detto: “Adesso basta, è il momento d’interrompere questo film, ci siamo divertiti, ma adesso, davvero basta ”
Però no, non è possibile fermare questa cosa e ci sono davvero due tipi con i kalashnikov che sono lì per fare saltare in aria ogni cosa. Fuori, ovviamente mi sento risollevato. D’altronde, questo è il primo messaggio dei poliziotti: “Sei al sicuro, non avete più nulla da temere. ” E noi ci crediamo, perché la mobilitazione è enorme …
Nel cortile della rue Oberkampf, i poliziotti controllano le identità, interrogano tutti e dividono i sopravvissuti. È stato solo allora, verso l’una di notte che ho potuto tranquillizzare la mia famiglia, dirgli che ero in vita. Alcuni, come me, vengono mandati in una sorta di quartier generale, allestito in un bar accanto. Mi rendo conto che c’è anche il chitarrista della band. Di nuovo interrogatori e trasferimento in autobus al 36, quai des Orfèvres. C’è la protezione civile che ci dà i teli di soccorso. Ci perquisiscono di nuovo. Di nuovo ci dividono prima di poter fare una dichiarazione. Racconto la mia storia a un agente di polizia, che annota sul suo computer. Fa fatica con la stampante… e mi chiede se voglio sporgere denuncia … al che ho detto: “Sì, visto che mi trovo qui …” Mi chiedono soprattutto se sono in grado di descrivere gli aggressori. Io racconto la storia quattro o cinque volte, a diversi agenti di polizia. Mi ringraziano, sono piuttosto simpatici. Alle sei, è finita. Mi chiedono se vado da solo o se qualcuno può venire a prendermi. Ma non ho più il telefonino. Così decido di rientrare in metro. Sono le sei del mattino ho sulla schiena la camicia strappata e un telo di soccorso, e me ne vado per le strade di Parigi, dirigendomi a Chatelet, è un po ‘surreale. Nella metropolitana, mi guardano d’un aria strana. Un vecchio, di colore mi chiede se va bene. Ho risposto: “Sì, più o meno.”
L’après
La notte seguente, con la fatica e i calmanti che mi hanno prescritto i dottori all’ Hotel Dieu, ho dormito abbastanza bene. È tutto meno vero da allora. Ho come l’impressione di vivere una sorta di dissociazione con gli eventi. Più li racconto più ho l’impressione di non essere io ad aver vissuto tutto questo. Come se si trattasse del copione di un film, su cui fossi finito, ma non negli eventi. La psicologa che ho visto domenica mi ha spiegato che si trattava di un fenomeno del tutto convenzionale.
L’altra questione che si pone è “perché io, sono sopravvissuto, e non gli altri?” Ti senti un po’ colpevole. Come un usurpatore, anche, di essere oggetto di così tanta premura da parte dei parenti, amici, semplici conoscenti, colleghi. Io avrei voglia di dire: non ho fatto niente di speciale. Faccio perfino fatica a considerarmi come una vittima, in confronto alle persone che sono gravemente ferite o morte. La psicologa ha risposto che bisognava gestire anche le ferite invisibili. Ma si vive uno sfasamento abbastanza significativo.
Sabato sono riuscito a trattenermi dal guardare i telegiornali. Ma da Domenica sono in loop sui canali d’informazione continua. Guardo se ci sono informazioni sugli altri ostaggi, lo svolgimento dei fatti, le vittime, i messaggi su Facebook …
Vedo tutti questi messaggi che dicono di continuare a vivere, uscire, andare ai concerti. Questo è un problema vero per me. I concerti, che è il mio piacere personale, il mio giardino segreto. Potrò andare avanti come se nulla fosse successo, non lo so. Ho i biglietti per un concerto martedì sera, che sarà stato annullato, immagino: the Diktators, al Trabendo. L’ultima volta avevo attraversato tutta la Francia per vederli a Bordeaux. Se fosse per me, forse ci andrei. Ma non sono sicuro di poterlo imporre ai miei cari. Inevitabilmente, la vita sarà diversa ora. Ci sarà un prima e un dopo il 13 novembre.
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una delle cose che mi hanno più colpito di questa testimonianza è che il poveretto, finito il calvario, e traumatizzato, è stato fatto rientrare in metropolitana, come se niente fosse, mezzo svestito e con la copertina di salvataggio…; da non crederci!;
grazie ff
Se questa è una delle cose che l’hanno colpita di più forse c’è qualcosa che non va nella sua gerarchia di valori, Sartori.
Ad ogni modo, si tratta di una reazione post-traumatica abbastanza normale («Così decido di rientrare in metro») nella quale il cervello cerca di sovrimporre una sorta di normalità all’abnormalità degli eventi. In circostanze molto meno drammatiche anche a me capitato di reagire allo stesso modo, e, dopo essere stato dimesso da un pronto soccorso nel mezzo della notte, di declinare l’offerta di un taxi e di avviarmi verso casa a piedi.