Tanto baccano per una strage

di Andrea Inglese

Perché tanto baccano per le stragi del 13 novembre a Parigi, che hanno fatto solo 130 morti? La domanda è legittima, se uno considera che la copertura mediatica di queste stragi è stata particolarmente intensa a livello mondiale. A ciò bisogna aggiungere le reazioni di solidarietà espresse sia dalle istituzioni sia dai cittadini di un gran numero di paesi, e ulteriormente amplificate dai media. Certo, una strage di civili inermi realizzata da un’organizzazione terroristica è una fatto che suscita sempre emozione, e solleva una quantità di questioni sulle conseguenze politiche e sociali, ma l’impressione che alcuni hanno avuto è che a Parigi una strage terroristica abbia uno statuto speciale. Ci si è chiesto, insomma, se l’attenzione mediatica, l’empatia e le espressioni di solidarietà non siano selettive, e non finiscano, in questo modo, per delegittimarsi o, addirittura, per apparire un po’ oscene. Questa critica può assumere svariate forme. Elenchiamone alcune.

I francesi si sentono sempre al centro del mondo, ma perché i loro morti dovrebbero pesare di più dei morti che altri paesi europei hanno conosciuto per simili cause, sia che si trattasse di terrorismo di matrice islamista o di matrice politica e nazionalista? I 130 morti europei contano più dei 224 in gran parte russi, provocati dall’esplosione di un aereo turistico due settimane prima, rivendicata dallo Stato Islamico? L’eurocentrismo impedisce ai cittadini europei e non musulmani di considerare che le vittime più numerose delle diverse organizzazioni del terrorismo islamista sono persone di religione musulmana che risiedono al di fuori dei confini europei? Gli europei non si rendono conto che, nel mondo, vi sono molteplici guerre in atto, di cui si parla pochissimo ma che sono responsabili ogni giorno di innumerevoli morti tra la popolazione civile? Tutto questo è vero, ed è importante ricordarlo. È importante che qualcuno ci ricordi, quanto sia selettiva la nostra compassione e la nostra attenzione nei confronti delle vittime innocenti della guerra e del terrorismo, e di tante altre cause prodotte da scelte umane e non da leggi fatali della natura. Dobbiamo, però, anche essere coscienti che la nostra compassione non potrà mai essere che selettiva. Innanzitutto, è assurdo ipotizzare l’esistenza di un tribunale neutrale e sovrastorico in grado di calcolare il grado di copertura mediatica assoluta che un evento dovrebbe ottenere in virtù del suo carattere intrinseco. In secondo luogo, non è possibile, umanamente, rispondere empaticamente a tutte le sofferenze terrestri, siano pure quelle più ingiuste ed evitabili. In una tale circostanza, tranne i pochi che raggiungerebbero una condizione prossima alla santità, gli altri si getterebbero in breve tempo dalla finestra. Vi è poi un fatto semplice da ricordare: Parigi è la capitale del turismo di massa, del turismo mondiale, in un testa a testa con Londra per il conteggio dei milioni di turisti che la percorrono ogni anno. Ed è stata proprio l’esperienza turistica (inautentica per eccellenza) a costituire per molte persone, anche geograficamente e culturalmente lontane da Parigi, un elemento di prossimità, un’occasione di empatia e riconoscimento con le vittime e i superstiti. Perfidia della storia vuole che la rivelazione di un possibile terrorismo di massa si realizzi proprio nella città del turismo di massa.

Se con gli attentati nei confronti dei vignettisti di Charlie e i clienti ebrei dell’Hyper Cacher si profilava ancora una violenza di carattere ideologico, le sventagliate di kalashnikov contro delle persone sedute ai tavolini di un bar o riuniti in una sala da concerto hanno perso per noi un plausibile contorno motivazionale. Si apre uno scenario inedito: qualsiasi francese può sparare, in qualsiasi occasione, su qualsiasi altro francese. Quello che sappiamo (abbastanza poco) sulle biografie dei terroristi e, più in generale, delle reclute francesi dello Stato Islamico, permette di affermare almeno una cosa: la non omogeneità del profilo sociologico e la rapidità del percorso di radicalizzazione del futuro jihadista. E i candidati al viaggio iniziatico in Iraq o Siria, con relativo stage di guerra civile e razzia, non sono solo individui con un passato di esclusione sociale, delinquenza e prigione, ma anche giovani rappresentanti delle classi medie, alcuni dei quali convertiti, in quanto provenienti da famiglie cattoliche o atee. Qualcosa di molto spaventoso si è intravisto nelle pieghe di un avvenimento già sufficientemente orribile e sconcertante. Qualcosa che, in Europa, potrebbe diffondersi oltre i confini della sola Francia o del solo Belgio, e acquisire la frequenza di un evento banale. (Qualcosa, inoltre, che ricorda lo spettacolo truce che i protagonisti di Salò di Pasolini, nella scena finale del film, osservano attraverso un binocolo da una finestra della villa, dove hanno inscenato il loro teatro di sevizie.)

Si è voluto a tutti i costi parlare di “guerra”, per descrivere l’impatto eccezionale di questi fatti. Ma le stragi del 13 novembre illustrano un’azione di perfetto terrorismo, una semplice e impietosa rappresaglia nei confronti del nemico, che non ha alcun valore strettamente militare, ma solo propagandistico. (Il successo degli attentati, sia nei confronti della Francia che della Russia, non dà allo Stato Islamico alcun vantaggio militare, anzi lo costringe a far fronte ad un’intensificazione dei bombardamenti aerei. Il successo, quindi, viene riscosso su di un altro fronte, quello della battaglia mediatica per il prestigio.) Evocare uno scenario di “guerra” significa proiettare nel futuro quanto è accaduto nel presente, andando a costruire una serie immaginaria. È solo in questo modo, d’altra parte, che la maggior parte di noi europei, cresciuti in un tempo di pace, finisce con il fare un’esperienza diretta della guerra.

Questo fatto ha diversi risvolti. Il primo riguarda il risveglio di coloro che, in qualsiasi punto della scala sociale, per interesse cinico o pulsione oscura, sono attirati dallo scenario dello scontro bellico e mortale. Un altro aspetto, con un significato ben diverso, può essere espresso dalla formula: “i francesi (gli europei) scoprono cosa davvero è la guerra, dopo averne seguite una gran quantità sui giornali e in TV, e dopo aver legittimato i propri governi a farne un certo numero a distanza, tramite l’esercito professionale”. Alcuni commentano in modo sarcastico questa “scoperta”. Ma non vi siete accorti che viviamo in uno stato di guerra permanente, che sono più di una quarantina le guerre in corso e che esse fanno sempre più vittime nella popolazione civile? Voi prendete coscienza della barbarie della guerra perché un giorno centotrenta persone vengono ammazzate per le nostre strade? Bè, questo potrebbe essere un inizio. Una cognizione dell’orrore della guerra potrebbe, allora, nascere dalla paura che si ripresenta puntuale salendo su di un mezzo pubblico o camminando per una stazione ferroviaria. E forse anche proiettando una scena televisiva di massacro in un luogo che abbiamo conosciuto e amato in qualità di meri “turisti”. Tutto questo potrebbe avere almeno come effetto quello di renderci la guerra patita dagli altri qualcosa di più reale, di più vicino a noi e dunque più intollerabile. Il paradosso di molta popolazione europea e occidentale sta nel fatto di essere, da un lato, molto poco propensa a morire in guerra, in quanto troppo “educata” ai vantaggi di un lungo periodo di pace ma, dall’altro, tale familiarità con la pace ci rende indecifrabile, e in qualche modo irreale, ogni forma di guerra che si svolga al di fuori delle nostre frontiere.

Le sventagliate di kalashnikov non sono i mezzi più idonei a risvegliare le coscienze, né lo sono le emozioni che nascono da loro ricordo. L’odio chiama l’odio, e l’agguato terroristico risveglia le vocazioni belliche (il sito dell’Esercito francese ha conosciuto vette di traffico, con un aumento di domande di arruolamento nei giorni che hanno seguito l’attentato). Per non parlare di quanto sia opportuna, sul piano politico, una miscela di odio e paura. Eppure questa visione spaventosa, di autentica guerra quotidiana, intravista attraverso le stragi del 13, forse può renderci consapevoli del disastro di ampia portata, nel quale noi occidentali continuiamo a camminare, indenni per il momento, ma in genere corrucciati a causa di contrarietà secondarie o decisamente futili. La comparsa di questo odio distruttore e indiscriminato dei terroristi dello Stato Islamico emerge all’intersezione di diverse orbite di crisi. Per questo ogni tentativo, seppure animato da un forte tasso di volontà critica, di leggerlo in termini di semplice causalità sociale o come frutto inevitabile di più globali peccati dell’Occidente, finisce per mancare la complessità di strati, che di quest’odio costituisce il terreno germinativo.

Dopo gli attentati di gennaio, io stesso scrivevo, come anche altri, che “lo jihadismo dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibaly non è un problema musulmano, non è un problema di differenze etnico-culturali, ma è un problema repubblicano e francese, perché nasce dentro la società francese e dentro le istituzioni repubblicane”. Oggi mi risulta chiara l’insufficienza di una tale visione. Gli attentatori e il loro odio si trovano oggi all’incrocio di una crisi sociale della società francese (ed europea) e di una crisi sociale e politica del Medio Oriente (e delle società arabe in generale). Queste due crisi geograficamente lontane e nate in contesti storici molto diversi sono entrate d’un tratto in una sorta d’intima risonanza, e si alimentano a vicenda. Da un lato, abbiamo tutto ciò che di deleterio produce una sofferenza sociale provocata dalla mancata o incerta integrazione, una sofferenza, per altro, che non trova sbocchi per esprimersi politicamente, se non nella forma estrema ed effimera del tumulto; dall’altro, abbiamo i frutti dell’onda destabilizzante delle rivolte arabe, che hanno costituito come un prisma in grado di scomporre anni di sofferenza e risentimento cumulati in diversi paesi del Maghreb e del Machrek. Ma queste due orbite “di crisi” sono a loro volta intersecate da altre orbite “critiche”: quella del fallimento del “governo mondiale” a guida statunitense, che in Medio Oriente prima e soprattutto dopo l’11 settembre 2001 ebbe la sua tragica celebrazione. In tale scenario di violenta destabilizzazione, realizzata in questo caso attraverso l’azione militare, le due potenze locali che hanno incarnato maggiormente una continuità politica, ma in senso eminentemente negativo, sono state l’Arabia Saudita, con il suo sostegno a tutto campo del rigorismo musulmano (il wahabismo) e Israele, con la prosecuzione della sua politica d’occupazione e di rappresaglia militare in Palestina e in Libano. Infine vi sono due vuoti ideologici che si guardano frontalmente, quello della crescita economica di stampo occidentale, come velleità di un capitalismo insaziabile e autodistruttore, e quello del ritorno al califfato, come sostituto mitico a un vuoto ideologico e di progetto sociale delle popolazioni arabe, dopo la fine del panarabismo e dei movimenti di liberazione nazionale.

Dentro questo inanellamento di crisi di portata storica, ogni facile tentativo di lettura e di taglio, d’iniziativa drastica e risolutrice non può che incrementare il caos e l’entropia, il livello di violenza e il disorientamento ideologico. Non si tratta, certo, d’indossare i panni poco attraenti degli esperti geopolitici o geostrategici. Si tratta di situare gli eventi d’attualità negli scenari e nelle serie storiche sufficientemente ampie per permetterne una lettura non riduttiva, parziale, esorcistica. Solo in questo modo possiamo realizzare in quale condizione tragica ci troviamo, come cittadini di paesi europei e occidentali. I nostri governanti, infatti, propongono soluzioni e vie di fuga, che sono ulteriori sprofondamenti e trappole. Un articolo recente di Helena Janeczek proprio su NI s’intitolava Il trappolone. Ecco, dentro questo inanellamento di crisi di medio e lungo periodo le trappole sono molteplici ed esse saranno tanto più efficaci, quanto più semplici, spettacolari e unilaterali saranno le soluzioni proposte.

 

3 COMMENTS

  1. Nonostante il Fronte Nazionale navighi sul 40%, non tutte le reazioni in Francia vanno in quella direzione. Un sopravvissuto alla strage del Bataclan in un intervista a France Info:

    D. Les autorités encouragent également les Français à afficher un drapeau…

    R. Oh, là, non, très peu pour moi. Même chose avec l’hymne. Je n’en peux plus de La Marseillaise, à force de l’entendre partout et à toutes les sauces. C’est peut-être générationnel – et d’ailleurs, je n’ai rien contre –, mais ce n’est pas mon truc. Par contre, je suis repassé par hasard devant le Bataclan, j’ai vu les trottoirs remplis de mots, de fleurs et de bougies… Cela m’a bouleversé.

    D. Vous êtes “en terrasse”, pour reprendre ce slogan populaire sur les réseaux sociaux ?

    R. Non. Je ne partage pas ces slogans : “Je suis en terrasse” ou “Paris est une fête”. Personnellement, je ne suis pas près de mettre les pieds dans une salle de concert ou sur une terrasse. Je travaille dans une agence où on s’occupe des réseaux sociaux, donc j’ai un peu de recul là-dessus. Après, je comprends que les gens l’utilisent.

    D. En tant que rescapé, qu’aimeriez-vous dire à François Hollande avant son discours ?

    R. Je lui dirais que, en septembre, une info faisait mention de menaces contre des salles de spectacles, et qu’aucune mesure n’a été prise. Je lui dirais que, en janvier, après Charlie Hebdo, la menace n’a pas été prise suffisamment au sérieux. Je lui dirais qu’on ne répond pas aux attentats en larguant un tapis de bombes ou en profitant d’une cérémonie d’hommage pour soigner sa popularité, surtout pendant un quinquennat désastreux.

    Plus largement, quand je vois comment les politiques ont récupéré les événements, j’en reste pantois. Les personnels de santé que j’ai vus le soir du Bataclan, eux, sont admirables. Mais ils ne s’expriment pas en public. Lors des attaques, nous étions dans quelque chose de concret, pas de symbolique.

    • A proposito dell’être en terrasse etc., “vivo in una società che confonde il coraggio con la voglia di divertirsi”, mi ha scritto un amico francese via mail. Mi è sembrata una sintesi molto efficace. Poi sì, è anche in parte comprensibile, ma come reazione che si accompagna a una riflessione, non come unica linea di condotta da adottare.

  2. In me non scopro altro che meschinità, incapacità di decisioni, invidia e odio contro i combattenti, ai quali auguro di cuore tutto il male.

    F. Kafka, Diari, 6 agosto 1914

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.