Il respiro dell’essere. Riflessioni sull’immagine

20151006_163515                                                      di Mario Galzigna

Oh, immaginazione! Il più grande tesoro
dell’uomo, l’inesauribile fonte alla quale
tanto l’Arte quanto la Cultura vengono
ad abbeverarsi! Oh, rimani con noi…
così che ci si possa porre al riparo dal
cosiddetto Illuminismo, quell’orrendo
scheletro senza sangue né carne.

(F. Schubert, 1824)

 [Franz Schubert’s Letters and Other Writings, a cura di O.E. Deutsch, London 1928, p.77].

1. IMMAGINE-MOVIMENTO

Sigmund Freud ha lavorato soprattutto sull’immagine censurata o rimossa. A partire dai suoi scritti sull’isteria e da Die Traumdeutung, Freud tematizza a più riprese una distanza, uno scarto, un’irriducibile alterità tra il dinamismo inconscio dell’immaginazione — noumeno opaco e inattingibile – e l’immagine, così come viene rappresentata sia durante il sogno, grazie al lavoro onirico, sia nello stato di veglia, quando il sogno diventa testo o racconto: un’immagine filtrata, dunque, dal lavorìo della censura e deformata da un censore interno, capace di adattare pulsioni e desideri all’etica sociale dominante.

Nell’attività artistica – ma anche nei sogni ad occhi aperti, negli stati di rêverie e in alcune dimensioni contemplative ed amorose dell’esistenza – può talora venir meno questa separazione, questa radicale distanza tra il movimento autentico dell’immaginazione e la sua traduzione in immagini, concepite come il prodotto di una coscienza vigile e censoria. “Ogni immaginazione, per essere autentica, deve riapprendere a sognare”, scriveva Michel Foucault nel 1957, in una folgorante introduzione a Sogno ed esistenza, di Ludwig Binswanger. [1]

In questo annullamento della distanza, l’immagine sognante non implica la rinuncia al movimento pulsionale dell’immaginazione, ma nasce, al contrario, dalla sua emergenza vitale e produttiva, dalla sua manifestazione piena e variegata. Non, quindi, una Bild appiattita sul Sinn e sul linguaggio: irrigidita, cristallizzata, scandita dal lavorio della censura e dal rullo compressore della rimozione. L’immagine (Bild), insomma, non è soltanto un significante codificato, che rinvia necessariamente a un senso (Sinn), a un significato, o a una trama di significati; non è soltanto una rappresentazione impoverita di qualcosa d’altro, oppure di una mancanza – o di un vuoto – che essa avrebbe il compito di colmare. E’ anche potenza creativa, espressione di ricchezza interiore, struttura dinamica e trasformabile, variabile nel tempo e nello spazio: figura di una pienezza sensibile e materiale dell’essere.

Con buona pace di Heidegger, il verbo inglese to be, essere, deriva da una radice indoeuropea bheu, che sta per esistere, ma anche per divenire e per crescere; e parole astratte come animo, anima, rappresentano l’evoluzione di una radice indoeuropea an, che significa respirare. L’essere e l’anima, dunque, come concetti astratti, sono connessi, originariamente, ad immagini relative alla crescita e alla respirazione. Ritroviamo, a volte, dietro la parola, il moto pulsionale dell’immagine, ricco di figure che rinviano alla concretezza del corpo vissuto — il Leib, di cui parlava Husserl — e quindi alla nostra maniera di percepirlo e di raffigurarlo. “Le parole astratte — commenta Julian Jaynes — sono antiche monete, le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso”. [2]

Così intesa, questa immagine-movimento — espressione diretta di una immaginazione attiva e sognante, attingibile fuori dai filtri di una censura normalizzatrice — rappresenta la molla propulsiva della nostra autonomia individuale e culturale: il nocciolo antropologico irriducibile alle tecnologie del controllo, ai dispositivi storici entro cui si dispiega la potenza omologante e produttiva del potere. Come aveva detto Piaget nel 1945, è possibile uscire dall’imperialismo della rimozione proposto dalla psicoanalisi: un imperialismo che risolve sempre ogni contenuto immaginativo in un tentativo di aggirare la censura, accettandone comunque i limiti e i divieti. [3]

Ogni forma di rêverie creativa – di cui il cinema, quando diventa “film d’anima”, è in grado di recare testimonianza – non è altro che questo, forse: l’immagine che si afferma come epifania di una immaginazione attiva, non come figura contratta e pietrificata, non come formazione sostitutiva, non come maschera deformante e deformata di un desiderio alterato o rigettato. [4]

Andrej Rublëv, il grande capolavoro di Tarkovskij, presentato al Festival di Cannes nel 1969, rappresenta in maniera emblematica il valore creativo e liberatorio dell’immagine. Lasciamo, per un istante, la parola al regista, così come emerge nel suo omonimo romanzo cinematografico: “Le immagini delle icone e degli affreschi, trasparenti e severe, dolci e crudeli nello stesso tempo, fluiscono una a una davanti ai nostri occhi…E insieme ad esse, intrecciandosi con l’ispirazione che le ha generate, e rendendo così comprensibile e infinitamente semplice il cammino di Andrej, palpita la musica della natura, quella musica che Andrej sentiva mentre dalla sua anima nascevano le immagini più belle e luminose”. [5]

Nei vissuti estatici e creativi, oppure nelle rêveries che accomunano gli amanti, o che scandiscono la cura di un neonato, l’immaginazione – trama interattiva e cifra della trascendenza — si afferma come immanenza del mondo e dell’altro. Privilegiare queste dimensioni significa ribaltare una consolidata tradizione filosofica e teologica, di matrice giudaica, caparbiamente iconoclastica ed incline ad una svalutazione ontologica dell’immagine, considerata una forma imbastardita del pensiero ed anche, per dirla con Brunschvicg, un grave “peccato contro lo spirito”. [6]

E’ allora possibile, in questa prospettiva — fuori dal circuito capitalistico dell’immagine fabbricata, serializzata ed imposta – far parlare le nostre immagini interiori nella loro pregnanza intrinseca, esibita, comunicabile. Ciò che non è riuscito alla psicoanalisi freudiana, ancorata a una dialettica necessaria tra significante e significato, può forse riuscire a un’antropologia dell’immaginazione[7] liberata dall’ipoteca idealistica: e quindi, a maggior ragione, ad un’attività artistica, ad una movenza del pensiero e ad una forma d’esistenza costruite sopra le fondamenta di una immaginazione creativa, plurale ed esprimibile. Di qui, forse, potrà prendere le mosse la costruzione di una nuova psicologia e di una nuova ontologia storica dell’immagine.

2. VENIRE ALLA LUCE

Esiste tutta un’attività espressiva che sta prima della parola, che la sorregge, che la rende possibile come veicolo del significato. Paradigmatico, in questo senso, l’itinerario poetico ed esistenziale di Antonin Artaud (1896-1948). Nel suo Teatro della crudeltà egli mette in scena, non a caso, una parola che sta prima delle parole (la Parole d’avant les mots ): parola-grido, parola-corpo, musica della parola che parla direttamente all’inconscio (musique de la parole qui parle directement à l’inconscient); parola-gesto, parola sonora — spinta fino agli estremi della glossolalìa – che sfonda le barriere murate del significante. Occorre spezzare il linguaggio, egli afferma, per toccare la vita (briser le language pour toucher la vie); occorre rompere l’involucro limaccioso del linguaggio per attingere alla vita, decretando, entro un’arte totale — entro una scena crudele — il primato della forza vitale (la force de vie) sulle forme del linguaggio. E ciò che vive nella scena crudele è un “inconscio oggettivo” — Gaston Bachelard parlava, negli stessi anni, di una “psicoanalisi oggettiva” – che precede la formazione del significante, che non attende nessun chiosatore, nessun commentatore segreto, nessun analista (Le Théâtre Alfred Jarry, 1930). [8]

Artaud, lo scrittore insorto (l’écrivain insurgé), uno dei più radicali cartografi della “coscienza in extremis“, [9] si impegna – assieme a Nerval, Lautréamont e Van Gogh, spesso evocati nei suoi testi – in una lotta titanica contro la tirannia di una corrispondenza rigida e necessaria tra significante e significato. Ed anche per questo, consapevolmente, paga il prezzo di una tragica déperdition: un’ “erosione centrale dell’io” che diventa, al tempo stesso, trama dolente del suo canto e linfa vitale di una resurrezione creativa. In nessuno, forse, come in Antonin Artaud, il delirio dell’assenza e dello sprofondamento — vero e proprio veleno dell’essere (poison de l’être) — rappresenta il nutrimento dell’anima e la materia prima dell’immaginazione. L’abisso opaco e regressivo della perdita — quando il pensiero pare condannato ad una inexistence priva di ritorno e di redenzione – diviene, qui, matrice di una rinascita interiore, capace di manifestarsi come forza vitale e come folgorazione poetica. Ci si rifugia nella notte originaria per poter reinventare un nuovo giorno. Dopo il movimento precipite della caduta – dalle luci aggressive del mondo al buio della déperdition— il dinamismo attivo dell’ascesa: dall’abisso nero e silente dello sprofondamento ai bagliori sfavillanti di una rigenerazione creativa, dove l’espressione si afferma innanzitutto come pienezza vissuta di una presenza corporea.

Nel linguaggio comune il verbo nascere è sostituito, molto spesso, da locuzioni come venire al mondo, venire alla luce. E’ la luce, in effetti, la “novità assoluta” in cui si imbatte il neonato: ed è stato anche ipotizzato — dopo le prime ed abortite intuizioni di Otto Rank – che la sua prima fantasia sia proprio quella di farla sparire, di “fare buio”, di ritornare “al buio e all’acqua dello stadio intrauterino”. [10]

L’essere umano, lo aveva già detto Bergson, trova dunque la luce fuori da se stesso, e le sue immagini-movimento sono al tempo stesso forme dell’interiorità e immanenza del mondo, delle cose, della materia: attività mentali originarie che dissolvono la distinzione tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto, superando la tradizionale polarità filosofica che oppone l’idealismo al materialismo. Ed è stato proprio Henri Bergson, nello straordinario primo capitolo di Matière et mémoire (1896), a indicarci la strada, non senza incertezze ed esitazioni. Gilles Deleuze, dopo di lui — nel suo grande libro sul cinema – l’ha ripresa e riproposta. [11]

3. SVALUTAZIONI

Anche Sartre si era sforzato di cogliere l’immaginazione nel suo dinamismo proprio e nella sua autonomia originaria. In uno scritto del 1936 — L’Imagination — egli combatteva sia la tendenza della psicologia associazionistica a reificare l’immagine, a considerarla una “miniatura mentale”, una copia delle cose percepite, sia la tendenza a ripiegarla sulla dimensione psichica del ricordo. L’immagine è un certo modo di essere della coscienza: è un atto, non una cosa. In un’opera di maggior respiro speculativo —L’Imaginaire (1940) — egli si affidava al metodo fenomenologico di ascendenza husserliana per descrivere il funzionamento specifico dell’immaginazione, fuori da qualsiasi tentazione di appiattirla sull’attività percettiva o mnesica. Il messaggio più radicale – maggiormente utilizzabile entro la prospettiva di una nuova ontologia storica dell’immagine — viene formulato nella Conclusione dell’opera. La condizione essenziale perché una coscienza produca immagini, è che essa, rimanendo “in situazione nel mondo”, sia al tempo stesso capace di trascenderlo, di annichilirlo. Soltanto in questa singolare e duplice posizione — appartenere al mondo negandolo — la coscienza si afferma come libertà. “L’irreale è prodotto fuori dal mondo da una coscienza che rimane nel mondo; e l’uomo produce immagini solo perché è trascendentalmente libero”. Ed ancora: “L’immaginazione non è un potere empirico e sovraggiunto della coscienza, è la coscienza tutta intera in quanto realizza la propria libertà”. [12]

Ma questa straordinaria illuminazione teorica venne quasi oscurata da uno strano ed incoerente movimento involutivo: il metodo fenomenologico sartriano sembra infatti soffocare entro l’angustia di una prospettiva psicologica di tipo solipsistico; sottovaluta perciò la ricchezza immaginativa della poesia e delle arti ed ignora disinvoltamente l’apporto dei miti e delle religioni, privilegiando univocamente l’ancoraggio ad una coscienza costituente scandita dall’egemonia e dalla sovranità del cogito. La stessa obiezione, a ben guardare, potrebbe essere rivolta anche al metodo introspettivo di Bergson.

Sotto il guscio fenomenologico, sopravvivono e si riaffermano le istanze coscienzialistiche tipiche della tradizione filosofica francese. L’immagine, grazie al suo carattere di irrealtà, diventa così — attraverso una singolare inversione prospettica — “ombra” dell’oggetto, “oggetto fantasma”, “maestra dell’errore”, sapere degradato. Il suo non-essere, la sua stessa “povertà essenziale” — pur collocandola nella sfera della libertà soggettiva — la condannano ad una pesante e contraddittoria svalutazione ontologica, di matrice platonica: essa diviene quindi ancella o rovescio del cogito, “vita fittizia, irrigidita”, “ripiego”, “desiderio da schizofrenico”.

Che cosa è mai, afferma infatti Sartre, questa coscienza immaginativa, in quanto “coscienza libera”, “se non la coscienza quale si rivela a se stessa nel cogito“?[13] Ed è proprio nella misura in cui viene ricondotta al cogito che l’immagine diventa apparenza, errore, sapere inautentico, pensiero imbastardito.

Nella storia del pensiero occidentale, questo processo svalutativo inizia con Platone: un filosofo immaginifico, che tuttavia estromette l’immagine dall’ambito del reale e del sapere. Eikoneidolon ephantasma – che nel pensiero arcaico, almeno fino al VI secolo avanti Cristo, rappresentavano la possibilità di cogliere l’essere a partire dalle sue manifestazioni percepibili – diventano per Platone aspetti del non-essere e del non-sapere: dimensioni del fittizio e dell’illusorio, estranee all’episteme (cioè alla scienza) e integrabili solo nel dominio della doxa (cioè dell’opinione)[14].

Il poeta imitatore, il poeta tragico, il fabbricatore di immagini, il sofista: testimoni scomodi di una profonda lacerazione, di una dannosa scissione dell’anima, che sarà necessario — anche per sanare i mali della polis — accompagnare alle porte della città e bandire per sempre. [15]

Ma la liquidazione non è né semplice né lineare. Platone stesso, nel Sofista, allestisce un teatro del pensiero in cui non è sempre facile separare drasticamente la posizione di Socrate, paladino della vera episteme, dal sorriso dissacratore del sofista, portatore di un pensiero a-categoriale, fondato sulla doxa e sulla tecnica che produce immagini (eidolopoiike).

Il sofista dalle cento teste, il creatore di immagini, può fingersi addirittura cieco, al fine di costringere l’argomentazione filosofica ad uno strappo verticale, capace di mettere a fuoco l’essenza stessa degli eidola: rappresentazioni mentali autonome, indipendenti da ogni attività imitativa. “Il sofista dalla cento teste — afferma lo straniero di Elea — ci ha costretti ad ammettere contro nostra volontà che ciò che non è in qualche modo è” (Sofista, 240).

L’ eidolon, problematicamente sospeso tra l’essere e il non essere, conserva quindi lo statuto di un vissuto interiore: produzione soggettiva, esperienza individuale, incrinatura dell’episteme, emergenza dell’Altro contro la tirannia dell’Identico. Mettendo in scena la valenza oppositiva dell’orizzonte fenomenico e la sovranità minacciata dell’ordine epistemico, l’Occidente sembra scoprire, per bocca di Platone — anche se in forma ancora aurorale e negativa – l’autonomia e l’esistenza psicologica dell’immagine.

Nel cuore stesso dell’idealismo platonico irrompe dunque la sovversione anticategoriale del sofista: del simulatore, del fabbricatore di immagini, dell’ “imitatore del sapiente”, capace di sedurre i singoli e le folle pur vivendo fuori dal perimetro del vero sapere e dell’autentica filosofia. Mai, come ha sostenuto Mario Vegetti, la scienza delle idee era arrivata, in Platone, così vicina al livello del molteplice concreto ed empirico. Questa voce seconda e dissonante — incarnazione quasi demoniaca di un temibile e raffinato anti-sapere — svolge un ruolo essenziale nell’economia del dialogo. Oggi siamo forse in grado, superando le antinomie sartriane, di restituire dignità conoscitiva e spessore ontologico a questa voce, troppo spesso sopraffatta o dimenticata.

4. EIDOLOPOIESI

Una rivalutazione del ruolo conoscitivo dell’immagine è emersa non di rado negli scritti di alcuni importanti protagonisti della scienza novecentesca. Sarà sufficiente ricordare, in questa sede, un celebre passo di Albert Einstein, che nella sua Autobiografia scientifica (1949) considerava positivamente il ruolo propulsivo dell’immagine rispetto alla genesi dei concetti. Sentiamo.

“Quando, sotto lo stimolo di impressioni sensoriali, affiorano alla memoria certe immagini, questo non è ancora pensiero. E quando queste immagini formano sequenze in cui ciascun termine ne richiama un altro, nemmeno questo è ancora pensiero. Ma quando una certa immagine ricorre in molte di queste sequenze, allora — proprio attraverso questa iterazione — essa diventa un elemento ordinatore, poiché collega tra loro sequenze che di per sé non sarebbero collegate. Un elemento simile diventa uno strumento, un concetto”[16]

Alla radice del concetto e della creatività scientifica troviamo dunque l’immagine. Ritroviamo, più precisamente – leggendo Einstein, Poincaré, Bohr – quella che gli autori anglosassoni chiamano imagery, cioè la capacità di produrre immagini: Platone, come s’è detto, definiva tale capacità, tale tecnica, con l’aggettivo eidolopoiike, che vuol dire, appunto, produttrice di immagini. Nella lingua italiana potremmo proporre, richiamandoci al lessico greco, il sostantivo eidolopoiesi.

L’eidolopoiesi funziona non solo come nucleo generativo delle categorie e della creatività scientifica, ma anche come attività mentale che rende raffigurabili e pensabili concetti e teorie. Nonostante il disaccordo tra i grandi fisici del nostro secolo su questa seconda caratteristica dell’imagery,[17] il “platonico” Heisenberg, in effetti, la confutava – dobbiamo comunque prendere atto di una significativa inversione di tendenza; l’eidolopoiesi, considerata nella sua irriducibile specificità psicologica e reinstallata nel cuore stesso dell’episteme, viene sottratta al destino subalterno impostole dalla svalutazione ontologica e gnoseologica inaugurata da Platone

L’approccio intellettualistico all’immagine — comune ad un largo e variegato fronte filosofico, che va dall’idealismo al positivismo — ha messo radici anche nella psicoanalisi: basti citare, qui, l’esempio del riduzionismo di Lacan, che tratta l’inconscio come struttura di linguaggio e l’immagine come parola mascherata, temporaneamente sospesa.

Occorre allora pensare, alternativamente, alla possibilità di individuare nella Traumdeutung la presenza attiva delle immagini come registro pre-verbale e pre-categoriale dell’inconscio (a titolo esemplificativo, non sarebbe inutile, in questa prospettiva, un riesame critico dei cosiddetti sogni di Roma): “immagini viventi” e “figure in movimento” — espressioni di un “corpo bisognoso e desiderante” – scandiscono, come ha affermato Fausto Petrella, una vera e propria “messa in scena immaginativa”.[18]

Non a caso, quando Freud parla del luogo dell’inconscio come di un’altra scena, usa il termine Schauplatz (alla lettera, luogo visibile), che collega una designazione spaziale (Platz) all’individuazione di una postura scopica (Schau), definita dall’attività del guardare, del vedere, del contemplare (schauen).

Si tratta di una pista analitica parzialmente aperta dalla Klein e che Foucault, nel testo del 1957, aveva cominciato a intravedere. Per riprendere e per riarticolare questo cammino interrotto, sarà necessario rimettere in circolazione alcune idee-forza sviluppate da Gaston Bachelard e da Gilbert Durand attorno all’antropologia dell’immaginazione: anzitutto le tre coppie antinomiche che questi autori individuano come strutture costanti dell’attività immaginativa: vicino / lontano, chiaro / oscuro, ascesa / caduta. Queste tre figure fondamentali — vere e proprie polarità ontologiche dell’umana presenza — si dispiegano in tutta la loro concretezza solo nella particolarità irriducibile dell’esistenza individuale: un’esistenza scandita dal variegato ed inesauribile movimento circolare che collega il corpo vissuto — il Leib husserliano — e l’eidolopoiesi. Le immagini, sviluppate in maniera assolutamente specifica da ognuno di noi, rappresentano al tempo stesso l’effetto terminale e il vertice psicologico di questo movimento. Le immagini collegano la storicità all’ontologia, mettendo sempre in evidenza una fertile e creativa comunicazione tra l’empirico e il trascendentale. Esse vivono solo grazie ad una continua oscillazione, ad una produttiva ed ineliminabile tensione tra l’ontico e l’ontologico. Antropologia strutturale e psicologia individuale trovano, qui, un fecondo e ineludibile punto di intersezione. E’ l’esistenza stessa, nella sua determinatezza storica e psicologica, a far vivere le immagini: esse non sono, quindi, figure astratte, disincarnate, estranee alle vicissitudini del tempo, ma non sono neppure formazioni evanescenti, oppure abbozzi incompleti e degradati del pensiero categoriale. “Non valgono — come afferma Durand — per le radici libidinali che nascondono, ma per i fiori poetici e mitici che rivelano”.[19]

Grazie alla psicoanalisi, l’uomo, secondo Freud, scopre di non essere padrone in casa propria. Riappropriandosi dell’immagine — cifra dell’inconscio, rêverie dispiegata, epifania della nostra libertà trascendentale — l’uomo potrà forse diventare, perlomeno un po’ di più, padrone in casa propria. [20]

NOTE

[1] M. FOUCAULT, Introduzione L. BINSWANGER, Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993, p. 83. Ho già discusso altrove il tema del corpo vissuto come matrice delle immagini, delle metafore e del pensiero: cfr. M. GALZIGNA, Persona, struttura e storia (parte prima), in “Psichiatria generale e dell’età evolutiva”, fasc.3, 1998 (in press).

[2] J. JAYNES, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano 1984, p. 74. Scorrettamente, Jaynes fa derivare l’inglese to be dal sanscrito bhu: è più corretto, invece, far derivare le parole inglesi — ed anche sanscrite — da radici indoeuropee.

[3] J. PIAGET, La Formation du Symbole chez l’enfant, Delachau et Nieslé, Paris 1945, p. 196 e sgg.
[4] Sul “film d’anima” cfr. R. DALLE LUCHE — A. BARONTINI,Transfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema di David Cronenberg, Mauro Baroni Editore, Viareggio — Lucca 1997.

[5] Per la citazione, tratta dal romanzo cinematografico scritto dal regista russo, cfr. A. TARKOVSKIJ, Andrej Rublëv, Garzanti, Milano 1992, p. 202.

[6] Cfr. L. BRUNSCHVICG, Héritage des mots, héritage des idées, PUF, Paris 1945, p. 98. Cito, qui, l’opera postuma di Léon Brunschvicg (1869-1944): dominò la Sorbona — e la cultura universitaria francese – tra le due guerre; fu il fautore di un idealismo neo-kantiano, ricco di venature positiviste, che riduce la filosofia ad una teoria della conoscenza; considerò le scoperte della scienza (ivi compresa la relatività di Einstein) come il compimento del progresso dello spirito inaugurato dalla filosofia. Il progresso dell’esprit, che si sviluppa ininterrotto partendo da Platone, passando per Kant ed arrivando fino ad Einstein, lascia ben poco spazio ad una valorizzazione dell’immagine come strumento della conoscenza. In questo clima spirituale poco favorevole, in Francia, al confronto con Freud, con Husserl e con la cultura tedesca, i contributi di Bachelard (epistemologo, storico delle scienze, attento alla psicoanalisi e alla fenomenologia), gli esordi antropologici del giovane Lévi-Strauss nei “tristi tropici”, i lavori di Aron (allievo di Brunschvicg) sulla sociologia e sulla filosofia della storia tedesche e le due ricerche di Sartre sull’immaginario — entrambe aperte alla fenomenologia husserliana (cfr. nota 12) — rappresentarono senza dubbio importanti sintomi di rinnovamento culturale e di abbandono del tradizionale provincialismo. I libri di Bachelard, molto usati da Durand (cfr. nota 7), sulla “psicoanalisi oggettiva” e sull’immaginazione (imperniati sull’analisi della presenza dei quattro elementi — aria, acqua, fuoco, terra — nella vita psichica), meriterebbero una trattazione specifica.

[7] Andrebbe rivisitata, su questi temi, tutta l’opera — poco nota in Italia — dell’antropologo francese Gilbert Durand, fautore di unostrutturalismo figurativo che assegna all’immagine un rilievo non solo ontologico, ma anche pedagogico, morale e politico. Si veda intanto G. DURAND, L’imagination symbolique, P.U.F., Paris 1989 (agile sintesi, con una bibliografia essenziale, utile per un primo orientamento).

[8] Riprendo, qui, temi e motivi già sviluppati altrove: M. GALZIGNA, Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2013 (si veda il capitolo 5, conclusivo, “Lo scrittore insorto. Antonin Artaud”, pp. 146-167).

[9] S. SONTAG, Sotto il segno di Saturno, Einaudi, Torino 1982, p. 57.

[10]M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996 (ottava edizione), pp. 105-106. Ho ipotizzato, sulla base di alcune ricerche di carattere storico, che le radici profonde della malinconia siano da collegarsi ad una nostalgia dell’osmosi intrauterina, ad un dolore per la perdita di uno stato fusionale originario e irripetibile. Cfr. M. GALZIGNA, Una coscienza piena di mondo, in: AA.VV., Il vivente e l’anima, “BioLogica”, 4, 1990, ed anche M. GALZIGNA, L’enigma della malinconia, in “aut aut”, 195/196, 1983, e M. GALZIGNA, Vanità dell’homo faber, in Derive. Figure della soggettività, a cura di I. ADINOLFI e M. GALZIGNA, Mimesis, Milano 2010, pp.23-50. Si veda, di O. RANK, Il trauma della nascita (1924), Sugarco, Milano 1990.

[11]H. BERGSON, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 13-61. G. DELEUZE, Cinema 1. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, pp. 74 — 90.

[12]J. P. SARTRE, Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino 1960, pp. 286-287. In tutta la prima parte della Conclusione, Sartre sviluppa e ribadisce questo punto di vista (pp. 275 — 289). Per la traduzione italiana del lavoro del 1936, cfr. J. P. SARTRE,L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 1962, pp. 7 — 140.

[13]J. P. SARTRE, Immagine e coscienzaop. cit., p. 286.

[14]Cfr. J.-P. VERNANT, Image et Apparence dans la théorie platonicicenne de la ‘Mimesis, in “Journal de Psychologie”, 2, 1975. Per la traduzione italiana si veda: J.-P. VERNANT, Nascita di immagini e altri scritti su religione, storia, ragione, Il Saggiatore, Milano 1982, pp. 119 — 152. Sul concetto di immagine nella cultura e nella religiosità romana, si veda il saggio di R. DAUT, Imago. Untersuchungen zum Bildbegriff der Römer, Carl Winter — Universitätsverlag, Heidelberg 1975 (cfr. soprattutto pp. 41-54).

[15]M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 114-115.

[16]A. EINSTEIN, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 63.

[17] Su questi temi rinvio allo straordinario saggio di A. I. MILLER,Imagery in Scientific Thought, Birkhäuser Boston Inc., 1984 (cfr. in particolare pp. 219 — 276); il saggio mi è stato segnalato da Lauro Galzigna — biochimico e pittore di icone — con il quale ho piacevolmente ed utilmente discusso le tesi di Miller. Anche il grande matematico Jacques Hadamard (1865- 1963) sostenne l’importanza delle immagini nel campo dell’invenzione matematica. Cfr. J. HADAMARD, La psicologia dell’invenzione in campo matematico, Cortina, Milano 1993. Per una trattazione del problema dal punto di vista cognitivista, cfr. S. M. KOSSLYN, Le immagini nella mente, Giunti — Barbera, Firenze 1989.

[18] Cfr. F. PETRELLA, Turbamenti affettivi ed alterazioni dell’esperienza, Cortina, Milano 1993, pp. 230-239.

[19]G. DURAND, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari 1987, p. 30.

[20]Mi sono limitato, in questo testo, ad indicare sommariamente i primi spunti problematici di una ricerca in fieri sulla funzione dell’immagine nella vita inconscia. Almeno quattro piste analitiche andranno percorse sistematicamente: 1) Il rapporto tra immagine e inconscio nella tradizione psicoanalitica, da Freud alla Klein fino a Lacan; 2) Lo statuto dei contenuti storico-sociali dell’inconscio nella psicoanalisi contemporanea, oltre ogni impianto riduzionista; 3) L’utilizzazione di alcuni importanti risultati della ricerca antropologica (a partire da Bachelard e da Durand); 3) La relazione tra l’immagine vista come contenuto precategoriale dell’inconscio ed il ruolo dell’immagine nella cultura occidentale, a partire dall’anatema platonico (si tratterà insomma di innestare la riflessione critica e teorica sulle solide fondamenta di un approccio storico-genealogico).

* l’articolo è apparso la prima volta in www.psychiatryonline.it il 28/10/2012

* immagine: Mariasole Ariot

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mariasole ariot
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Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.