Le aritmie del ricordo

di Francesco Borrasso

 20150911_192751Dal finestrino passa veloce il paesaggio: campi spogli, gialli, appiattiti dal sole.
Il vento entra nell’auto, parla. Manco dal paese paterno da vent’anni. Ho mantenuto la proprietà dopo la sua morte. Avrei dovuto venderla, ci sono andato vicino tante volte. Scorgo il paese da lontano, la sera inizia a scendere dal cielo, le luci elettriche si stanno accendendo, il luogo sembra un presepe; mi ricorda il Natale e l’odore della pelle di mio padre. I profili delle case tagliati contro il tramonto, le strade asfaltate che salgono come fiumi, scorrono al contrario.
Scendo dall’auto – quanto silenzio: le ombre degli alberi allungati dalle lanterne agganciate sui muri delle case. Tolgo i bagagli dalla macchina. Davanti l’abitazione, mi accorgo che alcune cose ti cercano, e te ne rendi conto solamente dopo averle viste. Osservo la facciata della casa, torno bambino, nelle estati che passavo qui, la processione per festeggiare l’Assunta. Alcuni luoghi restano aggrappati alle persone, alcuni posti non la smettono mai di parlare, di raccontare le vite che sono passate di lì. Apro la porta, un po’ di luce mi supera e sporca le ombre della casa.
C’è l’odore della mia infanzia, quando ad ogni buona occasione correvamo qui a passare qualche giorno – vorrei poter chiudere gli occhi per risvegliarmi in quegli odori, dentro quegli anni, osservato da quei visi che non appartengono più alla realtà, quando mi bastavano le cose raccontate dai grandi, quando potevo credere ad un senso.
Apro la finestra, polvere galleggia nell’aria, granelli librano giocando con la gravità. Cammino per il paese, sento il sole che batte sulla pelle, strade piccole, case anziane, bianche per lo più; le persone mi osservano curiose, al mio passaggio si voltano e mi inseguono con lo sguardo. Uno straniero è una notizia, qui. Il mio corpo in movimento interrompe il silenzio. Un silenzio che a tratti è assoluto ed io incomincio a tremare, sudo. I muscoli faticano a lasciare andar via il ricordo.
Dal bar viene fuori l’odore dell’alcol; una ragazza esce dalla porta, la luce le colpisce il viso; la pelle oro, le mani sui fianchi. Un’espressione di fatica.
Le luminarie: archi colorati brillano: un percorso di luci segna la strada.
La lampada sul tavolo regala luce, il piatto sporco, le urla dei bambini potenti entrano dalla finestra; le prospettive cambiano a secondo di ciò che ti accade; la formazione mentale lascia sempre il fianco a qualche errore, crepe. Ripenso alla voglia che avevo di avere un figlio, il quadro della famiglia disegnato davanti agli occhi dai miei genitori – mettere al mondo un figlio e dovergli spiegare, poi, l’inutilità di tutto questo.
Lontano, appena sopra le montagne, il cielo si rompe di luci bianche, l’elettricità di una tempesta lontana ramifica nella notte. Un giorno, nel giardino dietro casa, ho trovato un topo morto, era lì da poco, il corpicino ancora caldo; l’ho vegliato per molti giorni, aspettando la resurrezione, aspettando una manifestazione della sua presenza dopo la fine. Ero in possesso dei miei anni fanciulli e nella mente non c’era lo spazio necessario per comprendere un finale definitivo.
In piazza c’è la chiesa. Ha la facciata bianca, scrostata. La gente si sta riversando sotto le luci, il corso è un ingorgo di corpi. Trovo un posto in disparte, seduto su un gradino di marmo, osservo il passaggio delle persone e ritrovo le mie corse bambine. Le ore piccole. Le nostre ombre da ragazzini, allungate dalle luci della sera. Le corse e il pallone da inseguire, la maglietta bagnata, i litigi, le mascalzonate dentro i bar, i richiami dei genitori, le lacrime delle prime ingiustizie – ancora si sente la voce di mio padre che affacciato al balcone mi richiama per farmi tornare a casa.
Mio nonno è deceduto, siamo in cucina e all’esterno il giorno sta finendo. E’ inverno, le strade piene di addobbi. Mio padre indossa un maglione nero, a collo alto. C’è tanto silenzio, tanto che riesco a sentire il suo respiro e il suo affanno. Ho scrutato i suo occhi velati di lacrime, sto leggendo la tristezza definitiva che ancora mi è estranea. Il mio genitore maschio ha perduto il laccio che lo teneva stretto all’infanzia. È fermo sulla sedia, mi rendo conto delle sue mani che tremano un poco, me ne accorgo da terra: sono vicino al fuoco, sul tappeto, e sto leggendo, non ricordo il titolo del libro ma mi è rimasta la sensazione di solitudine.
“Pa’” la mia voce pare una violazione.
Un rumore scagliato contro il silenzio sacro.
Lui si volta, abbassa gli occhi e li punta su di me; il suo corpo si porta dietro il racconto del lutto, l’accettazione difficoltosa, sussurra l’epifania di un percorso.
“Che c’è?”
“Dov’è mamma?”
“E’ andata a fare la spesa, questo Natale sarà diverso.”
“Perché?”, i suoi muscoli facciali fanno difficoltà a contrarsi.
“Il nonno non c’è più, e non tornerà”
“È andato in cielo?”
“Si, bravo, è andato in cielo.”
“E non può tornare?” sussurra la mia voce bambina.
Lui si alza.
Lascio che la sua figura si sieda al mio fianco, sul tappeto, con le ombre del fuoco che ballano sulla parete difronte.
“Prima o poi tutto finisce.”
“Chi lo decide?”
“D-i-o.”, le tre lettere che mio padre tira fuori dalla bocca sono: controllate, piene, emozionali.
“E poi?”
“Non lo so.”
Ha le guance arrossate, il calore del camino mi schiaffeggia la pelle.
Mio padre si alza, mi lascia le spalle, lo vedo andare via dietro la porta della sua stanza, ha il passo debole e lo sconforto che gli si è legato alla schiena.
Il lutto è un oggetto che prende spazio nel corpo e ci resta per sempre.
La notte della prima veglia aspettavo la venuta dell’angelo, mi avevano dettato un racconto pieno di questa figura che sarebbe dovuta venire a prelevare l’anima di mio nonno. All’orizzonte c’era una linea chiara che faticava a scomparire: ascoltavo la venuta dell’angelo cercandolo nei rami spazzati dal vento, nelle foglie che abbandonavano il cordone ombelicale; volevo capirne la venuta nei cani che si fermavano e mi osservavano, annusandomi.
I vecchi del paese mandavano fuori il fiato per l’ultimo rosario; il corpo di mio nonno era una forma immobile sul letto, era vuoto – l’anima volata in cielo, mi dicevano. Nonostante io abbia fatto attenzione, non sono riuscito a vedere l’angelo, ho perduto il suo gesto di rapimento.

* immagine: Mariasole Ariot

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.