Scuola: elogio del ritardo
[Questo saggio è incluso in Almanacco alfabeta2 2006, cronaca di un anno POST-FUTURO (Alfabeta edizioni – DeriveApprodi 336 pagine illustrate a colori) a cura di Nanni Balestrini, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa, Nicolas Martino.]
Di Andrea Inglese
Me lo spiegava il gestore della vineria di Matera, che gli interessava la cultura, e voleva associarla alla riuscita economica, ospitando eventi musicali, letterari, gli sarebbe piaciuto davvero, ma ne diffidava, perché era forse impossibile per via della domanda inesistente, anche se lui, ad esempio, pur avendo fatto economia e commercio, amava il jazz. Era colpa della scuola, che si capiva quel disinteresse culturale, per il problema degli insegnanti e della loro arretratezza, che non stanno più dietro a nulla; con internet gli studenti ne sanno ormai più di loro e si annoiano, ma disse anche che il problema erano in effetti questi giovani, non rispettavano più niente, perché una volta l’insegnante parlava, aveva una sua autorità, mentre oggi viene zittito, e trionfa il consumismo e l’assenza di curiosità. Così ho potuto appurare che idea avesse della scuola un trentenne italiano qualificato, con tanto di spirito imprenditoriale e aspirazioni culturali, un’idea confusa, anzi perfettamente contraddittoria: la scuola va male perché non tiene il passo con la modernizzazione e perché ha perso i valori tradizionali. Ma quella confusione era anche la mia, era una confusione diffusa. Anche se a me, come insegnate, almeno un punto è chiaro: l’arretratezza culturale della scuola, durante tutto il ventennio berlusconiano, è ciò che l’ha resa abbastanza impermeabile a tutte le propagande revisioniste, razziste, superomiste, e tra i banchi di scuola, ancora oggi, è più facile farsi un’idea chiara della sconvenienza sociale di essere razzisti, truffatori, manipolatori, prepotenti, assassini, che in qualsiasi altro ambito della società.
Una volta, per quelli di sinistra, se uno diceva “Modernizziamo la scuola”, si tirava un sospiro di sollievo, perché chi modernizzava era contro l’oscurantismo e lo stato di minorità delle masse, e quindi “modernizzazione” e “progresso” erano parole amiche. E, salvo modernizzazioni folgoranti come quelle realizzate durante le fasi rivoluzionarie, dal dopoguerra in poi le nostre società democratico-liberali si erano assestate su di un ritmo riformistico più o meno sostenuto, e volente o nolente di miglioramenti sociali se ne sono visti, come figli di contadini che diventavano medici professionisti, o figli di operai che insegnavano all’università. E, a sinistra, la gloria dei movimenti di contestazione, come quello del Sessantotto, stava nella capacità di accelerare il processo riformistico, così che si faceva un bel balzo in avanti nell’ambito del lavoro, della scuola o della famiglia. Oggi per via della complessità, che impone un pensiero sottile e sfumato, si è costretti a pensare con una certa complicatezza, ma anche confusamente, perché più il pensiero è sottile più è facile a confondersi. Per cui sulle parole non si può più stare tranquilli, e anche se uno dice “Modernizziamo”, magari è una sciagura, come quando uno dice “Riforme strutturali”, che lì sono addirittura visioni da film dell’orrore.
Questa faccenda del vocabolario, che è come se fosse anche lui, come certe aree geografiche, tutto un po’ inquinato, con dei veleni invisibili, che a occhio nudo, al momento, non si vedono, e poi ti guastano a poco a poco tutto l’organismo, non è facile da risolvere, ad esempio, se uno vuole preoccuparsi della scuola. La scuola infatti è un’istituzione umana, cioè un’invenzione di qualcosa che in natura non esiste, e non è una cosa che si può studiare scientificamente come il funzionamento del formicaio, facendo delle osservazioni regolari o mettendosi dietro un microscopio, bisogna far leva sui nostri vocabolari: perché qualcosa si possa fare a proposito della scuola, bisogna cominciare a parlarne, ossia a trovare le parole adatte, sufficientemente non inquinate e non brumose.
Perché prima di “modernizzarla” o di “salvaguardarla”, sarebbe anche bello capire cosa sia, a cosa serva la scuola. Nel mondo odierno della complicatezza non è che risulti così chiaro.
Partiamo dall’alto, dall’istruzione secondaria superiore – l’aulica università –, e prendiamo quelli che dovrebbero intendersene, e che guidano i processi, i ministri europei dell’Istruzione, con i loro programmi di lunga durata, le periodiche conferenze, loro un’idea chiara dovranno averla e pure i divulgatori, coloro che traducono tutto l’indaffaramento politico in resoconti intelligibili. Infatti, a leggerlo, l’apposito sito Eurydice (“la rete d’informazione sull’istruzione in Europa”) qualcosa persino si capisce. Anche se non sembra, i ministri dell’istruzione delle strategie le hanno, e sebbene suoni strano a chi ci metta piede, o addirittura ci lavori, l’università è il settore chiave “affinché l’Europa possa diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica a livello mondiale”. Quindi, è in questa lotta che si tuffano gli iscritti all’università, quale sia la loro motivazione o il loro ambito di studi, devono far sì che la conoscenza sia carburante per l’economia, e carburante buono, da far filare la macchina europea meglio di quella sudcoreana o statunitense. Potrebbe anche sembrare brutto questo intruppamento della gioventù, che subordina l’approccio generale alla conoscenza – quello che caratterizza tutte le istituzioni educative fino all’università – alla sola logica della crescita economica, dal momento che una competizione è in atto tra Europa e resto del mondo, e ogni talento fresco deve parteciparvi. Certo, contro i catastrofisti, va detto che è meno incruento intruppare nelle aule che dentro trincee o carri armati, come è avvenuto invece il secolo scorso in due davvero catastrofiche occasioni. Lascia comunque perplessi scoprire che il concetto di “capitale umano” circoli in questi testi ufficiali, e che costituisca uno dei mattoni semantici principali della finalità dell’istruzione europea: c’è del capitale umano, e il compito dei formatori pubblici è quello di valorizzarlo. Anche perché, come già evidenziato, nella guerra economica globale, il settore determinante ha bisogno sì di braccia e macchine, ma soprattutto di cervelli, possibilmente raziocinanti e freddi, come li prevede la teoria economica di stampo liberista che ha perfezionato il concetto di cui sopra. Sì, perché tirando le fila delle parole “ufficiali”, le strategie europee appaiono debitrici di un vocabolario che risale a Gary Becker 1 allievo di Milton Friedman e rappresentante della celebre scuola economica di Chicago. È chiaro, allora, come va intesa l’universalmente auspicata “modernizzazione” della scuola: siamo nel medesimo terreno ideologico (terrorizzante) delle “riforme strutturali”. Mobilità, aggiornamento tecnologico, flessibilità, formazione permanente, eccellenza, ricerca del massimo profitto economico, e le maggiori risorse ai pochi migliori. Ognuno si vada a leggere le priorità connesse al “processo di Bologna”, che è una sorta di piano ormai ventennale per uniformare e riformare i sistemi universitari europei. (Troverà anche riferimenti scarsi e generici alla “dimensione sociale dell’istruzione”, ma si tratta probabilmente di un eco delle Costituzioni nazionali, che non erano ancora ossessionate dalle crescita economica e dal libero mercato.) In uno dei resoconti più recenti sulle attività dei conferenzieri europei 2, si legge: “Partendo dai risultati degli ultimi 15 anni, le nuove priorità si concentreranno adesso sull’aumento della mobilità internazionale, sull’uso delle tecnologie digitali nell’apprendimento e sul miglioramento delle competenze richieste dai datori di lavoro”.
Proviamo ora, passando dalle parole ai fatti, a considerare queste priorità in riferimento a una situazione concreta. E il discorso non vale solo per l’istruzione secondaria superiore, ma anche per tutto il percorso formativo precedente. L’adeguamento tra finalità della scuola pubblica ed esigenze del mercato del lavoro, così come tra metodi d’insegnamento e tecnologie digitali assomiglia da tempo alla competizione tra Achille e la tartaruga, e questo perché una volta che il sistema d’istruzione è subordinato al mercato del lavoro e all’innovazione tecnologica, esso sarà sempre “secondo”, in ritardo, costretto ad agire di rimbalzo. Sarebbe, allora, opportuno considerare questo ritardo cronico della scuola come il suo fattore più prezioso e specifico. Ma un tale rovesciamento di prospettiva ha senso, se si considerasse l’istruzione come un settore autonomo dell’attività umana, non più definito in funzione di un altro settore specifico come l’economia – intesa poi attraverso il filtro ideologico del liberismo. Si potrebbero così abbandonare tutti gli enormi e fallaci sforzi per trasformare scuole e università in aziende che erogano servizi formativi a singoli individui, in vista di garantire loro un salario elevato in futuro. Allo stesso modo, si potrebbe rinunciare a formare il consumatore all’uso dei prodotti in perpetuo rinnovamento dell’industria digitale. Si frequenterebbe la scuola, semmai, per ritardare l’assunzione di tali orizzonti ideologici e delle mansioni che ad essi conseguono, senza per questo dover introdurre un qualche catechismo libertario e anticapitalista. Sarebbe sufficiente riconoscere il ritardo che già oggi è presente all’interno delle istituzioni scolastiche e valorizzarlo per il suo aspetto sia inerziale sia creativo. Ci vorrebbe, appunto, un rovesciamento di prospettiva, come quello realizzato da Michel de Certeau 3 nella sua analisi delle pratiche di consumo popolari. Se la scuola non tiene il passo con l’economia della conoscenza, è perché la conoscenza stessa, nel laboratorio collettivo, conflittuale, costituito di affetti e creazioni immaginarie, che è la scuola delle persone reali, ha uno statuto incerto e imprevedibile, e non si lascia somministrare lisciamente come le classi dirigenti auspicherebbero.
L’autonomia della scuola sarebbe, allora, uno spazio allestito per interrogare il sapere, attraverso il primo compito dell’insegnante adulto che è quello di presentare un’eredità culturale allo studente giovane, per comprendere con lui, attraverso le sue reazioni e iniziative, come questa eredità possa essere usata, diffusa, criticata, elaborata, ecc. E tutti quei fattori considerati di “disturbo”, che interferiscono sulla trasmissione dei contenuti o l’acquisizione delle competenze, dovrebbero essere considerate come situazioni tipicamente educative, ossia legittime, inevitabili, e preziose in quanto mettono a confronto le pratiche attestate dell’insegnante e quelle informali dello studente e permettono che nello spazio protetto della scuola entrambe abbiano corso, possano emergere, evitando di sfociare nella reciproca distruzione.
Uno spazio di autonomia e d’interrogazione sul sapere ereditato non può che essere uno spazio collettivo e polifonico, dove è questione di un noi, problematico finché si vuole, ma posto come realtà che precede gerarchicamente ogni io, ed anche di una pluralità di voci, discorsi, lingue, che nessun esperanto “didattico-pedagogico” può illudersi di riassorbire.
Ritornando, allora, al gestore della vineria di Matera, mi vien da dire che gli insegnanti non aggiornati e gli allievi non rispettosi sono in effetti una contraddizione interna alla scuola, sono degli autentici problemi, a patto di considerare che la scuola è, in via ordinaria, una fabbrica di problemi e che proprio questa è la sua funzione, al contrario di quanto vogliamo credere, anche a sinistra, immaginando la scuola come una macchina risolutrice di problemi, di quelli specialmente che nascono fuori di essa. Prendiamo il problema della mancata parità uomo-donna. La scuola di certo non lo inventa, ma permette innanzitutto di inscenarlo e di sperimentare nei casi migliori una possibile soluzione, ossia il trattamento equo di studenti e studentesse. Non sarà però la scuola a risolverlo, con i suoi soli mezzi educativi e in tempi brevi.
A conclusione di questo tentativo di immaginare parole diverse, e quindi un senso e un futuro diverso per la scuola, un’ultima constatazione. Se la scuola produce, nella sua vita istituzionale ordinaria, una gran quantità di problemi legittimi, ve ne sono almeno due del tutto illegittimi che continuano invece a minarla. Non sono anomalie misteriose, ma pubblicamente additate e conosciute da cittadini e governanti. In primo luogo, l’esistenza ormai accettata universalmente di due tipologie d’insegnanti, quelli di ruolo e quelli precari, con diversità importanti di garanzie, privilegi e retribuzioni. (A ciò si aggiunga l’indecente storia delle modalità di reclutamento dell’ultimo quindicennio.) In secondo luogo, l’Italia è tra i paesi europei con le medie peggiori relative sia all’abbandono scolastico sia alla scolarizzazione superiore. D’altra parte, nessuna di queste aberrazioni italiane potrà essere corretta da una politica scolastica di fattura europea e modernizzante, fintantoché quest’ultima abbia come presupposto culturale l’idea che, di fronte ai docenti, soggiornino chili di capitale umano da valorizzare.
NOTE
- Gary Becker, Human Capital: A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to Education, The National Bureau of Economic Research, New York 1964🡅
- Dal sito Eurydice, in riferimento alla Conferenza di Erevan (14 e 15 maggio 2015), che riuniva i Ministri dell’istruzione dello “Spazio europeo dell’istruzione superiore”🡅
- Michel de Certeau, L’invention du quotidien. 1 Arts de faire, Gallimard, Paris, 1990🡅
Come sarebbe a dire, pur?
è “ironico”, nessun razzismo contro gli economisti di commercio…
[…] Della scuola italiana modernizzata e di quella arretrata, della scuola italiana buona e di quella cattiva, di insegnanti e di alunni. […]
[…] Non sono d’accordo con molte delle cose che Israel scrive, ma gli va riconosciuto di essere tra i pochi che non è stato sedotto dalle false retoriche del progresso, che spesso si sono rivelate nocive, oltre che fasulle, facendo alle volte comporre a chi nella scuola ci lavora una sorta di elogio del ritardo. […]