Overbooking: Sandro Abruzzese
La mezza padana
di
Francesco Forlani
mèżża s. f. [femm. sostantivato di mèzzo1]. –
1. Preceduto dall’articolo, la mezza, la mezz’ora dopo l’ora già indicata: se alle nove non sono ancora arrivato, aspettami fino alla m.; da solo, la m., indica sempre la mezz’ora dopo le dodici, cioè mezzogiorno e trenta minuti: pranziamo alla m. in punto; si fa una pausa del lavoro dalla m. alle due (pomeridiane); o anche la mezzanotte e mezzo, cioè le ore zero e trenta minuti: sono rientrato in casa che era quasi la m.; il film è durato fino alla mezza.
2. Nel linguaggio marin., ellissi usuale di mezza forza, soprattutto come ordine riferito alle andature dei motori sia nel moto in avanti sia in quello indietro, per indicare che le motrici devono sviluppare una potenza (e quindi imprimere una corrispondente velocità alla nave) pari a circa la metà di quella massima: avanti mezza!, indietro mezza! qui
I libri, come ho sempre scritto e pensato, hanno in comune con le gare d’atletica, delle corse, essenzialmente due cose: la durata, da intendersi qui nel doppio senso, spaziale della lunghezza e temporale della velocità e il respiro. Un buon libro, in genere è quello che riesce a far corrispondere al passo il ritmo che lo “scorrimento” della storia e delle pagine che l’autore ha voluto imprimere. Non credo che il contenuto di un’opera non c’entri nulla con la scelta formale, atletica dell’autore, anzi, sono convinto che il successo di un libro, la sua piacevolezza, dipende proprio dall’adesione dell’uno all’altra ed è generalmente in questa coerenza che il lettore ne ritrova oltre che la natura proprio la sua intrinseca necessità. Quando ho letto Mezzogiorno padano ( Manifesto Libri) di Sandro Abruzzese, l’immagine che mi è venuta in mente è stata quella della corsa campestre; allora ho tentato di ricordare quale illustre precedente esistesse nella nostra letteratura – come per lo sport è importante stabilire una genealogia del talento- a cui questo libro prezioso potesse per tradizione appartenere.
L’autore che mi è venuto in mente è stato Giuseppe Pontiggia e il suo magnifico, Vite di uomini non illustri. Dunque non tanto la Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters cui peraltro si è fatto riferimento nelle letture di Mezzogiorno padano, ma proprio la galleria delle vite “minime” inventate – ma non per questo immaginarie – da Pontiggia. Perché, sempre per rimanere in ambito sportivo, diverso è il respiro, diversa la corsa e soprattutto la posta in gioco.
Sandro Abruzzese costruisce il suo polittico con piglio da antropologo, dunque con l’attenzione alla memoria viva delle comunità, ai gesti, ai rituali ma soprattutto alle strategie che una cultura, in questo caso quella meridionale, mette in campo per affrontare il dolore. I ritratti delle persone partite, emigrate dal Mezzogiorno, si susseguono a coppie; nel primo l’uno e in corsivo si racconta l’altro, la figlia alla madre, il cronista all’eroe del fait divers. Rispetto alle vite raccontate da Pontiggia in questo caso si tratta di storie vere, raccolte, ascoltate sul terreno della realtà e riscritte, dunque storie vere, ed è per questo che ho pensato alla corsa campestre, per l’accidentalità del percorso, rispetto alla mezza maratona, che pure ne condivide la distanza dei diecimila metri.
Quando da noi diciamo la mezza, significa un tempo non preciso da mezzogiorno all’una. Quando il da noi è da noi che si allontana, si abita in un luogo non preciso, dovunque esso sia, in qualsiasi nord si trovi. E al dolore della separazione si accompagna sempre un livello di sopportazione, per gradi adattabile ad ogni situazione. Pare che gran parte dei più forti corridori al mondo siano di una tribù specifica: i Kalenjin e che tale predisposizione sia correlata alla capacità di sopportare il dolore, al carattere formato dalla più tenera infanzia con terribili prove d’iniziazione. Forse è per questo che il Sud appare agli occhi degli altri insopportabile e che tale dolore si possa raccontare solo una volta che si sia andati via.
dal capitolo Un filo d’erba
(parte terza)
di
Sandro Abruzzese
La patria, in fondo, è un insieme
di fiumi che vanno verso il mare.
Luis Buñuel , L’angelo sterminatore
(…) Settembre. Sono al tavolo della mia scrivania, a Ferrara, nell’ennesima casa sconosciuta. Fra poco inizia la scuola. Sfoglio gli scritti di Antonio Gramsci sul Risorgimento e la Questione Meridionale. Me li hai regalati tu, quando venisti a conoscere il mio primogenito Stefano, appena nato.
«L’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto terri- toriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud […]».
Lette al cospetto di questa Italia, le sue parole tetre, lucido marmo di una lapide, crollano tra le zolle di un cam- posanto, negli alibi a cui ci ha abituato questa contraddittoria nazione. Testimoniano, le parole del sardo, il fallimento della costruzione dello Stato italiano. Senza andare oltre, prima o poi qualcuno sarà chiamato a rispondere almeno del presente, per delle generazioni a cui si è fatto credere che occorresse solo studiare per ottenere il futuro.
Oggi vorrei delle scuse ufficiali per tutti i ragazzi che hanno svolto il loro dovere, che hanno lavorato come gli era stato chiesto e adesso vagano in un relitto alla deriva che un giorno affonda e l’altro galleggia, in una palude senza via d’uscita.
L’Italia è un Paese infantile. È infantile quando si sottrae alle proprie colpe, bara, finge di cercare nell’uomo solo al potere la soluzione ai propri problemi. Usa le tv, i giornali per mentirsi, alimentare fiumi di sterile retorica democratica. Forse aspettiamo ancora che qualcuno ci liberi da noi stessi. Intanto la corrente continua, sotto gli sguardi attoniti o assuefatti scorre la fiumara del progresso, il destino riparte, stavolta con meno miseria materiale, verso un’altra moderna disfatta. A un Paese bambino, gli si vuole ugualmente bene.
Stretto tra gli ingranaggi di questa penuria morale, non riesco a contare, a distinguere il numero immenso dei devo- ti e degli untori, dei traditori, che sono i numerosi protagonisti di questa bieca malora. Mi consola che non c’è niente che sia per sempre, nemmeno questo.
Davvero basterebbe solo dimenarsi, scuotersi, per portare allo scoperto i nemici, e far emergere non il poco, ma il buono di ogni cosa. Invece ci allontaniamo proprio noi due, amico mio, che nemici certo non siamo della nostra terra.
Per conservare il buono di ogni cosa, sarà necessario accontentarsi del pane e della luce di qualsiasi luogo. In fondo, qualsiasi luogo è un piccolo miracolo a termine di questa volontà spalancata, puerile, detta esistenza.
Non ci rimane altro che osservarla dall’alto, la nostra patria: tutta la Penisola e questa Europa unita. Il Sud, la Campania fino al Garigliano. Già intravvedo, verso Formia, le isole Pontine. O, ancora, l’Argentario e l’isola d’Elba, sempre orfana, in attesa del suo Napoleone. Lasciamoci così, come al solito a Ventimiglia, però stando in alto, che quello che vedi arrivi da lontano, in qualche modo la distanza colmerà le assenze, rimarremo a riparo sotto la semplice ombra dolente del nostro filo d’erba, che ci ha avvolto le valigie e tolto la voce: memori e testimoni di un grande Paese sfilacciato, trincerato dentro la sua arnia di bellezza che nasconde un vezzo: i confini pieni di contraddizioni, la sua incompiutezza.