Epepe, l’incubo di Babele
di Ornella Tajani
Nella sua mente sovraeccitata balenò il dubbio assurdo
che avessero tante lingue quanti erano
Epepe, scritto da Ferenc Karinthy nel 1970 e pubblicato da Adelphi nel 2015 (traduzione di Laura Sgarioto), è un romanzo labirintico costellato di piccole e immense paure collettive, nel quale ci si addentra con un senso di sfida che presto lascia il posto a una curiosità preoccupata.
L’autore ungherese, morto nel 1992, fu giornalista, scrittore e campione di pallanuoto, ma fu anche traduttore, e forse soltanto da qualcuno abituato a manipolare più lingue contemporaneamente ci si poteva aspettare la creazione di un incubo così assordante. Il protagonista Budai, professore di linguistica, conoscitore esperto di una decina di lingue, si ritrova di colpo in una città sconosciuta, in un paese che non riesce a identificare, dove non può comunicare in alcun modo con nessuno, dove si scrive in un alfabeto mai visto che somiglia vagamente alle rune gotiche e struttura un idioma in cui
le vocali erano mormorate e di colore variabile, le consonanti rauche e biascicate, accompagnate talvolta da suoni occlusivi simili a schiocchi di lingua. Quest’ultima caratteristica ricordava i click delle lingue degli Ottentotti e dei Boscimani dell’Africa meridionale, mentre la frequenza del nesso tl l’azteco centro-americano.
Pur con tutto il suo bagaglio di conoscenze, Budai non riesce nemmeno a decifrare il nome dell’unica persona con cui entra faticosamente in contatto: la ragazza che manovra l’ascensore del suo albergo, Epepe, ma forse Tete, o Bebebe. La pronuncia delle parole sembra cambiare ogni volta che queste vengono ripetute e il protagonista è costretto a sfoderare tutte le sue competenze, a fare appello a ogni reminiscenza linguistica per provare a indovinare, almeno, a cosa corrispondano «Io» e «Tu» in quel linguaggio arcano: «A Budai venne in mente che quella lingua non avesse pronomi personali. […] Ma erano compatibili i grattacieli e una coniugazione da età della pietra?».
In effetti i primi due pronomi singolari sembrano superflui all’interno del mondo che Budai impara a scoprire giorno dopo giorno: l’unico soggetto, la sola entità rilevante sembra essere la folla. Fiumane di persone popolano ogni spazio: i marciapiedi, i negozi, le stazioni della metro. Ci sono file interminabili per ritirare le chiavi delle stanze alla reception dell’albergo, per comprare cibo nelle tavole calde e persino per sedersi a riposare sulle panchine al parco. Nella massa l’individualità del protagonista inizia lentamente a sgretolarsi, proprio perché gli è precluso l’utilizzo della lingua, primo e principale strumento che l’essere umano possiede per manifestarsi come singolo all’interno di un gruppo.
L’individuo immerso per un certo tempo all’interno di una folla, scriveva Gustave Le Bon in Psychologie des foules, finisce per cadere in una condizione particolare che somiglia molto allo stato di fascinazione che l’ipnotizzato prova per il proprio ipnotizzatore. È ciò che succede, in parte, anche a Budai, che si ribella ma al contempo è sedotto dal movimento magmatico e imperscrutabile della massa che lo circonda. Il lettore empatizza con lui e in un primo tempo segue ammirato i suoi sforzi per farsi capire dagli altri, o per scoprire quanto meno in che parte del mondo sia capitato – e qui c’è da ricordare che negli anni ’70 Internet era soltanto agli albori, e che, in ogni caso, se anche ci fosse stata la possibilità di navigare on line, le tastiere dei computer avrebbero avuto per lettere quegli stessi incomprensibili caratteri alfabetici; a Budai non viene invece un’idea molto semplice, cioè quella di disegnare, anche sommariamente, un planisfero e provare a chiedere a Epepe di indicargli sulla cartina dove si trovano.
In un secondo momento, però, protagonista e lettore sembrano lasciarsi andare alla deriva, in una pigra e stremata complicità: la rabbia cede il posto alla rassegnazione, all’interno della quale la curiosità per l’ignoto e l’istinto di sopravvivenza balenano come lampi sempre più sporadici. Prigionia, amore, fame, malattia, guerra, tutto si annienta in una dimensione opaca, in cui ogni azione è lenta e farraginosa, ogni angolo è saturo di umanità indistinta, ogni cibo ha lo stesso sapore dolciastro e uniforme.
Nella bella prefazione all’edizione Adelphi, Emmanuel Carrère spiega perché si tratta di un’opera che si è tentati in molte occasioni di definire kafkiana, sebbene non lo sia per via del rigore con cui è tratteggiato ogni dettaglio e, forse, per via del fatto che Budai conserva fino alla fine, nonostante tutto, dei bagliori di lucidità; non è kafkiana perché la speranza non sparisce mai dalla vista ma continua timidamente a luccicare all’orizzonte.
È un romanzo che sarebbe piaciuto a Georges Perec, scrive ancora Carrère, il quale sapeva apprezzare «l’histoire avec une grande hache», l’acca maiuscola che è anche un’ascia senza pietà. Eppure, nella presenza incessante di una folla ambigua, ora minacciosa ora sinistramente protettiva, e nell’utilizzo di tonalità narrative dal gusto postmoderno, Epepe preconizza forse anche alcuni motivi dell’opera di DeLillo. «Il futuro appartiene alle folle» si dirà in Mao II, e quello rappresentato in questo romanzo di Kartinhy somiglia parecchio a un incubo collettivo che, come buona parte degli incubi, sfugge a ogni troppo rigida interpretazione.
Brava Ornella,era un romanzo di cui bisognava parlare e tu lo hai fatto bene, In fondo uno slogan da fascetta pubblicitaria per questo romanzo potrebbe essere ‘la storia di un uomo che non può parlare in un mondo che non lo vuole ascoltare’.
grazie, Ornella, ho letto Epepe molti mesi fa e mi ha lasciato in bocca come una sensazione di amaro e di incompiuto insieme; il soggiorno di Budai in questo paese dà sempre più un senso di irrealtà, non c’è mai un appiglio, una speranza, salvo che nell’improbabile finale. Non posso neppure dire che mi sia piaciuto molto, per quanto ovviamente ben scritto e intrigante.
E’ un romanzo assolutamente claustrofobico, ma è chiaro che dietro ci sono il 56 a Budapest e il 68 a Praga e un po’ anche l’esperienza dell’ungherese circondato da lingue alloglotte
grazie giorgio e sparz, in effetti è un romanzo che ho letto solo adesso e mi sono stupita di non averne sentito parlare prima, considerando che declina in maniera così poderosamente e creativamente “sgradevole” alcuni grandi temi molto novecenteschi, l’alienazione, l’incomunicabilità. Poi fra le righe sì, si sente il sottotesto più storico e politico, lo si percepisce nettamente anche senza riferimenti diretti.
Ho trovato l’ultima scena splendida, così in bilico tra lucidità e follia – e a me ha fatto venire in mente – addirittura! – la penultima strofa del Bateau ivre di Rimbaud, ma questo ha certamente a che vedere con la follia più che con la lucidità
“È un incubo assurdo, non ha niente da spartire con la realtà, solo un imbecille resterebbe così senza parole e senza farsi capire”, ecc. ecc. ecc. È l’opinione che me ne ha dato mia moglie. Poiché a me è piaciuto poco ci manca che litighiamo.
Non sento la necessità di accostarlo ai fatti del ’56 e del ’68 di Praga. Lo percepisco come una metafora della irriducibilità dell’esistente al codificabile; dell’impossibilità di rappresentare alcunché in mancanza di termini di riferimento; in definitiva della impossibilità di costruire termini di riferimento generalmente validi (infatti Budai non riesce a ricondurre lingua e segni a nulla che gli sia noto, benché compia uno sforzo immane in tal senso. Fortunatamente riesce a cogliere e trasmettere segni di livello primordiale: quando è alla fame ce la fa a trovare da lavorare, farsi pagare e comprarsi da mangiare: mica è poco).