Essendo il dentro un fuori infinito #9
di Mariasole Ariot
Alessia cammina al rallentatore, ha un buco sulla schiena, tutto l’indicibile sofferto nella rotellina che l’accompagna. Gira a destra, si velocizza, gira a sinistra, si rallenta, la rotellina non gira mai, Alessia non cammina, muove piccoli passi come una tartaruga senza guscio.
Madre : della tartaruga che hanno mangiato i cani hai sepolto solo la corazza.
Ci ritroviamo nella zona scura del corridoio, Alessia mastica lentamente il pasto minore, si confonde con la lentezza dei tramonti che da quassù non servono a niente se non a mostrarci un cuore bollente nel cielo, un polmone agitato come noi lo vediamo : Alessia non ha gli occhi lenti : il mondo si muove velocemente, scosse telluriche sugli scogli, sulle mani, sulla testa. Alessia vede soli in movimento costante, soli che girano che vorticano impazziti come animali dalla testa troppo grande per essere afferrati.
La messa a nudo è irrimediabile. La ragazza tartaruga si trascina lasciando la bava di lumaca fuoriuscirle dalla schiena
Hai una rotellina : girala
La rotellina è arruginita
Girala, fanne un cortocircuito
E così Alessia cortocircuita con il mondo, accompagnata dall’uomo zoppo che ha trovato nel campo aperto. Alessia ha messo radici come una pianta innaffiata per errore, dalla testa ai piedi è incistata nel pianto del prato, Alessia non vive, una vegetazione scomposta.
Alle due di notte ci ritroviamo nella zona dell’asimmetrie ordinate. Lei predica la notte, io le dipingo unghie nere sugli scogli : le sue mani sono rocce, diventano il tutto che non è dato scoprire, Alessia muove dieci passi e si ferma. Immobile, roccia come sono roccia io, nello stare accovacciata a due metri dal terreno. E la guardo.
Cara S., il mio dolore è quantificabile con una manciata di terra caduta dalla luna. Ho un corpo al centro del corpo che continua a scalpitare, muove i primi passi poi demorde. Da fuori mi vedono ferma ma io dentro sto correndo, rischio un tribunale di incidenti, rischio di arrivare alla meta, ma la meta è sempre la metà di un’altra menzogna. Io non mi muovo, resto ferma nell’azzurro di questo cielo torbido quando c’è nebbia, aperto quando si spalanca. Cara S., mi cadono fiori nella bocca : ho le labbra accese aspettando un bacio. Dice una lingua per i benvenuti, dice una stretta, dice una rabbia. Qui nessuno la vede : sono invisibile, con l’elmo di Wagner sulla testa, una piccola presa in giro all’indecenza. A volte smetto di sforzare, mi siedo sulla grata e aspetto che qualcuno mi porti un caffé : fa male a dirsi, fa male a farsi, fa male il continuo rigirarmi lenta sul letto. Non servono i nastri di contenzione : sono già contenuta : il mio corpo è fermo.
Cara A., ti ho vista ridere la tua voce liberata, quando il tempo è fermo come il tuo corpo e noi sgattaioliamo tra le aiuole, nella sala dall’odore acre del giallo, ti ho vista chinarti per raccogliere una lingua, ti ho vista piangere come solo tu sai fare : in silenzio, con le lacrime all’indietro, acqua che entra dalle pupille e ricade sulla gola, ti ho vista baciare l’uomo azzurro, la promessa di un volto.
Qui, nella casa delle tre porte tendo l’orecchio per sentirti ancora cantare – una canzone metallica, vecchia di eroi e di nient’altro, una copia di un desiderio proibito, e mentre tendo l’orecchio si spezza, mi frantuma la testa in pezzi sconosciuti. Ho ancora una madre, le guardo gli occhi prima che cadano, e i miei, ferite sulle sue aperture. Ricordi il giorno dell’incontro? La rotellina girata a sinistra, il caffè scivolato per la rabbia sulla schiena?
Cara A., il dolore si lega ai nomi, ha un nome proprio : il tuo, il nostro. Scriviamoci come se non ci fosse il tempo per farlo.
Mi hai raccontato la teoria del fratello sulla mela marcia. Tu – dice, sei la mela che si dilata per mangiucchiare le altre del cesto. Il padre è caduto, la madre è caduta, il fratello è uscito dalla cesta.
Sulla scia limpida di vecchiaia noi parliamo lingue dei disperati, armiamo le cellule più deboli per farne una spina : abbiamo gabbie nella retina e gabbie al centro della testa. Di tutto quello che possiamo dirci resta una figura cava, che torna come torna la dimenticanza. Tutto si accosta al divenire, io mi accosto, ti aspetto. Non arriverai mai : ti aspetto comunque. Arriverai comunque.
avevo già letto qualcosa qui di Mariasole Ariot ( che ora andrò a cercare cercare cercare ) e come allora la sua scrittura mi aveva mangiata.
“Il mio dolore è quantificabile con una manciata di terra caduta dalla luna”.. Meraviglioso!
“ma la meta è sempre la metà di un’altra menzogna”
E saperlo significa molto. Induce a un altro pensare/pensarsi.
Un testo doloroso ma anche di sfida: alla vita in gabbia per dire magari che dai vuoti a volte guardiamo nascere altre parole.
Cara S., mi cadono fiori nella bocca : ho le labbra accese aspettando un bacio.
⇨ Charles Perrault LE FATE
traduzione di Carlo Collodi
da “I racconti delle fate“
“Arriverai comunque.”
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Ma che bello, Orosola! Grazie del rimando: coordinate geografiche della parola.
“ti ho vista ridere la tua voce liberata”, ma che meraviglia, Maria Sole, grazie di questi testi. Ciao.