Una donna conosce una cavalletta

di Mariano Bargellini

( pubblico un brano dell’ultimo romanzo di Mariano Bargellini Giocare a mangiarsi, ed. Effigie, Milano, 2015, G.M.)

In questo, trilla il telefono. Mi incantavano da bambino coi loro voli nuziali spettacolosi e tardi come d’alianti in miniatura dipinti in azzurro nero e rosso, ma anche simili a idrovolanti, certi insetti aerei incollati per il ventre e sovrapposti l’uno all’altro, con doppia ala diafana e la custodia rigida e opaca, sopra, di chitina metallizzata: inseparabile coppia, sposi in viaggio di nozze. Così ci siamo mossi, Olimpia e la cavalletta, suo partner da incubo, da fantasia erotica non per donnette, di una arditezza sconosciuta. Verso il telefono, infatti, che continua a trillare, si incammina Olimpia impacciata dal suo amatore, pesticciando, non volando, ingabbiata in due paia di braccia che la cingono da dietro. Braccia di ròbot, di scheletro galante, con le tibie irte di aculei come denti d’una spazzola robusta. Così s’incammina, verso il telefono che trilla, quella donna intendente di un Bello disumano e indenne dalla stupida fobia degl’insetti.

Era la mosca. Avrà capito che cosa stava succedendo? Furbo com’è, non lo escluderei. Olimpia qualche sospetto l’ha alimentato e una mezza confessione gliel’ha cantata, a suo marito, al mio editore. Apposta? Per mancanza di controllo? – Oh no! Oh sì! ‒, gli grida nel microfono, d’un subito. Contraddicendosi, l’ha esclamato. E sopratutto, l’ha esclamato a sproposito. – Ma sì, caro, mi ha pinzata sul collo. Ma te l’ho detto chi: la Locusta Hieroglyphus. Adesso la rimetto nell’insettario ‒. Invece m’ha trainato, piano piano, in guardaroba, di bel nuovo. Lì allo specchio abbiamo l’opportunità e l’agio, amanti stupefatti, di compiacerci di un viluppo amoroso laocoonteo finora mai tentato, nemmeno si suppone vagheggiato in fantasie erotiche bizzarre, da donne e animali galanti. La maschera di giada verde, tra cavallina e d’ariete, che mi occulta nei dominii del videogioco, e talora, quasi per un mini-spot, fuori dal monitor perfino, nella tivù verità della vita, adesso la vedevo, forse mia maschera definitiva, come in un fotomontaggio, spuntare dietro a Olimpia nuda e soprastarle, chinata su una sua spalla; e dal congegno della bocca in movimento colare sul seno della donna un rivoletto di saliva colore del letame, saliva d’una salterella, dei succhi tabaccosi. In realtà è rigida la mia testa, inchiavardata nel corsaletto. Non sono mica una mantide, capace di girarla e inclinarla, e di seguire con il moto del capo, misera preda, ogni tuo spostamento. E non per tanto io la chinavo su una spalla di Olimpia, come ho scritto, benché bloccata, la mia maschera cefalica: mi riusciva, la galanteria, grazie all’attitudine pensosa della mia testa, che per motivi aerodinamici sta reclinata, s’appoggia meditabonda al petto, ognora.

La donna e la cavalletta si copulavano, di lì a poco, in varie posizioni e ripetutamente, spostandosi qua e là per la casa. In principio all’impiedi, dipoi more locustarum (alla pecorina, tale quale), sui tappeti, sui divani, e sui letti, per finire. Di una immobilità ieratica, questo suo partner mostruoso, nessuna convulsione epilettoide e sbattimenti indecorosi (Locusta Hieroglyphus, sì, davvero!), però i gemiti di Olimpia testimoniavano (ad abundantiam, di là da ogni dubbio) che noi non si faceva per finta, il nostro non era sesso simulato. Io la squassavo, faccia astratta e meditativa, la mia abituale espressione, con una maschera di giada verde, immoto, in silenzio. Io me la lavoravo, coscienzioso, con una sorta di stantuffo autonomo e instancabile. Con un tremendo ovopositore! M’era spuntato a sorpresa, nell’atto di abbracciare Olimpia da dietro, l’ignoto accessorio, dal fondo di uno châssis perfetto, completo già in ogni suo dettaglio, lì tra i cerci, lì tra le corna deretane. Ma dunque sono una femmina? Era ozioso e futile interrogarsi sul sesso delle cavallette. Accontentiamoci, mi dissi, che questo ovopositore funga da organo sessuale, e di un partner maschio, nella colluttazione amorosa con una femmina di Homo sapiens. Essendo adibito, naturalmente, a trivellare la Madre Terra e a cacciarvi dentro un’ooteca, ero preoccupato, piuttosto, di non ingravidarla di uova, le nostre, di cavalletta, e inzepparla di larve. Ubbie, fantasie. Sta’ tranquillo, mi dissi.

Quasi piombato in un cespo d’erba, tra fili intricati e bagnati, che mi invischiano collosi (scagliatovi, dalla mia molla catapulta balestra, forse per un mio calcolo e di mia volontà?; al diavolo!, scagliatovi da lui, dal mio burattinaio alla console, toccando un tasto o manovrandomi col mouse, cliccando su chissà che icona; al diavolo!, scagliatovi dal deus ex machina del videogame, dal mio digitatore mai morto!; al diavolo!, che crepi, che crepi!), risalgo faticosamente da un vischioso e viscido buco. Io mi districo, tirate all’indietro le antenne, madide anche loro, nonché appiccaticce, e m’incammino su per il ventre di Olimpia. Mi fermo sopra il suo ombelico. La cavalletta è tornata alle sue dimensioni naturali.

 

 

 

 

 

 

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