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I miei pezzi

DSC02397 (2)

di Andrea Inglese

(Queste prose sono tratte dal volume EX.IT – Materiali fuori contesto, a cura di Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano, La Colornese – Tielleci, 2013. Le considero una sorta di ramificazione (di quarta parte fantasma) di La grande anitra. Le immagini (mie) sono state inserite in occasione della pubblicazione in rete.)

 

Dopo la nascita è importante migliorare, questo me l’hanno detto senza equivoci. È importante migliorare, con le proprie forze, per la valutazione continua. L’ascoltare, ad esempio, deve essere correttamente migliorato alla perfezione. Apprezzare il momento sonoro, quando si cammina o si incespica, e organizzare suoni e silenzi, affinché ritorni il tema principale dopo ogni digressione (ad ogni ripetizione il tonfo [il colpo] varia, sicché nonostante le numerose ripetizioni l’interesse del pezzo è accresciuto). È importante organizzare l’ascolto della propria camminata, apprezzare il rondò della camminata, fare molti pezzi di una camminata. È importante migliorare il momento del suono. Il suono che sale quando si cammina, la camminata sonora. È dentro quel suono che bisogna adattare l’ascolto, raffinarlo, guidarlo al compimento: si può farne qualcosa: 1) scalpiccio, 2) battito, 3) tacchettare. Se non c’è ancora un buon camminare, perché si va carponi, in modo inefficace, se più che altro uno si trascina, o rimane ostacolato dalle proprie gambe, il momento sonoro lo si fa da fermi, pestando per terra, o poggiando un piede e poi l’altro, con grande pazienza. Ogni moto a luogo un perfezionamento, nel senso sia musicale che atletico, d’avventura.

 

i miei pezzi 1

 

Quelli che hanno inventato il calcestruzzo, possono dirsi fortunati. Questo me l’hanno detto senza equivoci. Alcuni altri hanno inventato il comando “Aggiungi 1”. Quelli seduti intorno allo schermo murale hanno inventato la capanna interamente grafica. “Dobbiamo inventare il piano di civiltà”, è l’insegna di tutti i quartieri. Lo sa anche la donna che avanza con un piede scalzo, i seni ballano nella maglia troppo larga, cerca di fare qualcosa di quanto ha lungo le cosce, le strisciate di crema o sugo, deve senza smettere di camminare, ci prova con la carta raccolta da terra, con la punta delle dita insalivate, è un ottimo esempio, ancora qualche metro e verrà fotografata, sta immaginando come cadere sul fianco, bene per le piccole cineprese d’angolo. Io non mi alzo, che sono tutto dedito al respiro. Che godo il momento visivo. Che miglioro il modo che ha il mondo di venire su di me, e anche il fortissimo del rombo del treno: se giunga dallo steccato, e vada a consolidarsi in una zona chiara dell’ascolto, in mezzo ad altro fracasso, per essere dichiarato autentico. Così come lo sento, è una piccola porzione, un primo pezzo. Lo tengo a mente per meglio inventarlo. (Sarà lavorato l’intera notte, tradito nei minimi costituenti, perché renda davvero tutto, e sia reso appieno, estraneo piccolo blocco: da mercato e consegna, finalmente valorizzato.)

 

i miei pezzi 3

 

Regola della fruttificazione dell’infanzia, dei miti compagni di gioco la sera, la manutenzione e il restauro del gioco, degli occhi tondi dei compagni, oggi materiali rari. Ricordarsi il mutismo dei pupazzi, la lanugine appiccicata sui cuscinetti del cranio, le carte degli animali: il tacchino e il montone, l’ippopotamo sul trattore, il coccodrillo nell’autorimessa. Consolidare i riflessi delle lampade da tavolo sulle figure. È un pezzo di notevole interesse: tutto rimettendo al presente, riconsiderandolo con l’attenzione odierna, le mani posate sul cursore, la luce ibrida, la patina pulsante dello schermo. Fruttificare, fare anche questo pezzo. Poterlo consegnare elaborato. I valori calcolati. Il titolo: La frescura dell’autunno. Tutto dipende dal far muovere bene, in cerchio, con gli occhi tondi, appena assonnati, tutto dipende dal giro, che sia regolare, senza eccessivo disturbo mentale, solo i piccoli disturbi di fondo, dell’epoca, autunnali, infantili.

 

i miei pezzi 2

 

Non basta prendere a pigione: quello che viene respirato, quello che è stato detto, anche nel notturno, scavalcando il macigno messo di traverso, quello che è stato visto, ogni volta sporgendosi, le erbette, le code di lucertola, i tralci della vigna, le scatole fradice, di cartone, tutte spappolate a terra, e quegli uomini che entrano, quasi sempre in fila quando entrano, che agitano gli ombrelli, fanno fatica ad abbassarli, e poi di nuovo li alzano, o sono vanghe, per retoriche minacce, o rituali invernali, tra pioggia e vento, con gli stivali di gomma, quando uno ne compare provvisto, e le cose che sono state lette, su come la terra sia un pianeta, e su come noi tutti siamo, su questo stesso pianeta tondo, in uno strano abbandono, e come esso stia sollevato nello spazio, e anche sappia rotolare su di sé, non che tutto ciò sia chiaro, nulla è veramente chiaro di quanto è stato letto, ascoltato, visto, anche senza la fatica di sporgersi, oltre il macigno, ma qualcosa ogni volta di nuovo va registrato e ricollocato: un pezzo sereno, con musica, ognuno dica quello che sente nel cuore, ognuno con la frase, una musica breve, e sia ben numerato, per la custodia. Un pezzo nuovo, gradito a qualcuno. Verranno a chiederlo, magari dall’altro capo del mondo. Porgere avambracci, cristallizzare sul vetrino la saliva, ungere la gola, tenere sotto la luce il sesso, la nuca, essere prontamente adatto, cedevole, visibile in lontananza.

 

i miei pezzi 7

 

Quello che ho ben capito, è la respirazione, fin da subito mi hanno detto di cercarla, la respirazione, attraverso ogni respiro, dietro ogni respiro c’è una respirazione, una respirazione migliore ovviamente, che va migliorata, e di come anche si costruisca con allenamento, e disciplina spirituale, la respirazione, che va fatta piano, senza eccessi, ma continuamente, e non bisogna lasciarsi ostacolare dal fiato, che circola selvaggiamente spesso, tra dentro e fuori la bocca, che non si può spalancarla, che più si spalanca più il fiato si perde, e va quindi tenuto, non completamente, perché trattenere il fiato non è il compito, è persino pericoloso, va tenuto e lasciato con destrezza, anche guardando in alto, quando si respira è meglio guardare in alto, dove vanno le cose migliori, leggere, come le nuvole o le rondini, e bisogna essere costanti, con l’aria, perché va ingoiata ogni momento, anche all’improvviso, o durante una caduta, una malattia, nel mezzo di un incidente, l’essenziale è tenerlo a mente, anche senza pensarci apposta, come se niente fosse, ingoiare e soffiare sono tutt’uno, anche questo va saputo, è così che uno lo trova fatto, il respiro, e da qui, poi, montarne un pezzo, un respiro calcolato, e sospeso, con grande carisma, questo può attirare, e piacere, trovare ascolto, e divenire occasione di scambio, anche nella cultura, anche in mezzo alle tante transazioni culturali, il respiro può farsi spazio, brillare, eccellere.

 

i miei pezzi 4

 

Tutto quanto è dentro di me può servire, io sono questa materia interna, in parte io sono interno a me stesso, e interno e sconosciuto, ma da questa cavità ombrosa poi le cose affiorano, affiorano su di me, e sono mie, io stesso sono queste cose che di continuo sbucano, spesso attraverso le parole che dico, le parole portano fuori le cose, sono vassoi, o protesi forse, sono protesi come stampelle o seggiole legate al mio corpo incompleto, sono quindi malato, portato fuori da cose fittizie, che sono in parte infilzate dentro di me, ci sono queste parole-spine, o ganci, o qualche sistema di tubature, che devono portarmi fuori, e pali, telai, a sorreggere, altrimenti io cado, cado dentro di me, muto, oltre i miei affioramenti, ed è questo continuo scroscio, con le migliaia di respiri che tornano, tutti i momenti sonori, le piccole luminosità a cascata, di quanto ho visto all’aperto e al chiuso, negli anni, tutto questo sedimento visivo, sono solo raggi, piccole esplosioni, come una zona stellare fitta, vicinissima, a bassa intensità certo, non rimango ustionato, anzi, non fanno niente, sono luci indolori, passano attraverso, ed è questo il male, qualcosa c’è che non migliora, che duole, ma bisogna comunque farlo fuori, farlo a pezzi, proseguire il suo movimento, aiutarne la sparizione: allora forse canto, canto quello che sono, io stesso sono la canzone che cerca il tempo, che va nel tempo, la canzone è affare temporale, finché si spegne, e io posso rimanere dentro, per un po’, senza troppo ammalarmi, nella cavità, nel mio interno sconosciuto, cantando. Quello che c’è nel pezzo, per come suona al di fuori, direttamente goduto e consumato dai primi passanti, quello conta: la voce vaga del cuore, ma la realtà del cuore, tutta buia e umida, nel suo moto assiduo, questo mi rimane addosso, è solo la mia scoria, nascosta, la vergogna improduttiva.

 

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Chiaramente mi hanno detto senza equivoci che è la carne, la carne è la membrana migliore, la prima, la più solida e duttile, è con la mia carne che tutto comincia, con la carne si fa la storia, la storiella dell’inizio, quasi in disimpegno, lateralmente, si comincia dal basso ogni fortuna, ma poi sulla carne si lavora bene, assiduamente, è da dentro che la si organizza, senza cavità questa volta, tutta in pienezza, protuberanze, con le cure di labbra, di palpebre, di sopracciglia, di tendini, di fasce muscolari, di nervi e vene, tutto deve essere proteso all’uso, deve servire ed essere servita, da me a tutti gli altri, la mia carne, che poi è un lavoro mentale, una costruzione che va organizzata e innalzata, con la separazione dei cibi, i cibi atomizzati e depurati, poi tiepidamente introdotti, perché la carne sia valevole, la carne deve rimanere biologica, con tutti i mezzi disponibili, anche le radiazioni, l’ispessimento, la fluidificazione, perché la carne vince, va messa a torneo, deve concedersi a pezzi, in continuazione, ma nuovi, e pezzi giovani, di grande energia, sotto le diverse luci, purché la mente la spinga avanti, nel pezzo ulteriore, mostrare una coscia, un ginocchio, lasciarlo toccare, che le antenne lunghe e sottili, la foresta di antenne la lambiscano, o i glutei, che siano misurati a raggio, da tutte le distanze, le magioni, e venga il film nuovamente aggiornato, inserito nel mondo delle visioni carnali, azzurrato, con gli ori, e sia gonfia, in definitiva, sia pronta, gonfiata da impazzire, un monumento di cellule, sia astratta, completamente sognata, la carne.

 

i miei pezzi 6

 

Perché il migliore di tutti i pezzi, personalizzato senza macchia, compiuto in profitto e valore, è poi l’ego, il pezzo principe, la madre di tutti i pezzi, quello a cui tutto torna dopo largo giro, e nel miscelamento, dove si riversano persino i resti, anzi l’ego migliora nei suoi resti, si accresce in collezione di scorie, frange, aloni, ma è anche la matrice infaticabile, il brevetto che palpita, l’ego è il pezzo più grande, non negoziabile, è il pezzo di proprietà, con il nome che va fatto, senza nostalgia e compassione, il nome proprio contro il mondo generico, contro l’anonimato mondano, animale, cellulare, contro il popolamento acefalo, gli erotismi tribali, il nome proprio dell’ego. Tutta va tenuta assieme, nel monopolio, dentro e stretta, in capienza proprietaria, la vita umana, la vita diseredata, affinché giunga a compimento, pezzo dopo pezzo, nell’identico del nome, e altro non rimanga, non sfugga. Il pezzo più completo, perfezionato, sanguinario, è l’ego nominato, l’insegna del proprio nome contro la fragilità inoperosa, la carne vaga, il piangere e figliare, il perdere colpi, l’inginocchiarsi sullo sterco, il raccogliere ghiaia con la bocca, il nutrirsi di larve, di niente, su questo spostamento raso, oscuro, vociferante, il nome dell’ego è pezzo sovrano, capace di seguire, denunciare, dichiarare fine corsa, disinteresse, oblio: ma intorno a sé l’ego è monumento, in proprio, perenne, che prevale, giudica, denigra, oltre il suo stesso finire, per tumore, dissanguamento, decrepitudine, oltre lo schifo della sua stessa morte. Ultimunicopropriopezzo.

 

1 COMMENT

  1. “”da questa cavità ombrosa poi le cose affiorano, . . .””, caro Andrea, visionario allo stato puro, non si riesce a smettere di leggerti. Grazie.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.